Chi comanda su Obama
11 Dicembre 2009
«Ogni persona nominata dal governo americano dovrà subire un accurato esame di controllo da parte della comunità ebraico-americana»: così, esplicitamente, esordisce un articolo di Haaretz del 4 dicembre
(1). «E nel caso del governo Obama in particolare, ogni critica contro Israele fatta da un candidato a una qualsiasi nomina sarà contrastata con estrema energia».
L’esame del sangue pro-Israele per i nominati dal governo Obama ha già dato notevoli risultati, prosegue Haaretz, e ha già liquidato alcune personalità. Nel marzo scorso Obama cercò di nominare Chaz Freeman, un diplomatico d’alto livelllo (ambasciatore in Cina e in Arabia Saudita) alla direzione del National Intelligence Council: una vastissima campagna di tutti gli apparati di pressione ebraici, che accusarono Freeman di «sentimenti anti-israeliani» e (calunniosamente) di interessi economici coi sauditi lo costrinse a rinunciare.
Oggi, lo stesso destino incombe su Chuck Hagel, un ex senatore repubblicano che Obama vorrebbe assumere come consulente d’intelligence. Le colpe di Hagel: nel 2004 rifiutò di firmare una lettera (scritta dalla lobby, e che i senatori dovevano sottoscrivere) in cui si invitava il presidente Bush a parlare del pericolo atomico iraniano alla riunione del G8 di quell’anno. Nel 2006, inoltre, Hagel ha rifiutato di firmare un altro appello dei senatori (scritto dalla lobby) che chiedeva all’ONU di dichiarare Hezbollah un’organizzazione terroristica.
Morton Klein, presidente della Zionist Organization of America, ha dichiarato contro Hagel: «Qualunque americano sia allarmato dal tentativo dell’Iran di farsi armi nucleari, e che voglia sostenere Israele nella sua legittima lotta per difendersi dal terrorismo deve opporsi a questa nomina».
Il professor Mearsheimer (coautore del celebre «The Israeli Lobby») ha definito questa attività della comunità giudeo-americana «un nuovo maccartismo», una riedizione della caccia alle streghe degli anni ’50, che portò sul banco degli accusati, e rovinò, decine di personalità (non solo politici ma anche intellettuali, scrittori, attori) per sospetto filo-comunismo.
Oggi, la caccia alle streghe giudaica tocca punte deliranti. Ha colpito infatti anche Hannah Rosenthal, ebrea, figlia di una vittima della shoah, che Obama ha voluto a capo dell’Office to Monitor and Combat Anti-Semitism (!). Infiniti siti web ebraici l’hanno atttaccata personalmente: è «troppo di sinistra», «Obama ha messo una anti-israeliana a combattere l’antisemitismo», eccetera. La Rosenthal aderisce infatti a «J Street», l’esile movimento di ebrei americani moderati, che ha preso le distanze dalle ultime atrocità israeliane.
La poveretta ha dovuto giustificarsi in un’intervista a Tablet, un periodico ebraico: «Ho vissuto in Israele. Ci torno ogni volta che posso, la considero parte del mio cuore. E poichè la amo tanto, voglio vederla sicura, libera e democratica».
«Sono bei sentimenti», ha commentato il professor Stephen Walt (l’altro autore di The Israeli Lobby) «ma è strano che la Rosenthal debba giustificare la sua nomina in una posizione nel governo USA dimostrando quando “ama” un Paese straniero... Gruppi della lobby prendono di mira servitori dello Stato come Freeman, Hagel e Rosenthal per assicurarsi che nessuno con una opinione anche un poco indipendente sugli affari medio-orientali venga nominato. Distruggendoli, essi vogliono intimidire e scoraggiare gente di idee indipendenti dall’esprimerle liberamente, sapendo che la loro carriera verrà distrutta. E il sistema funziona».
Se il fanatismo ebraico attacca anche una Rosenthal, il vero motivo è che diffida di Barak Obama. Qualunque nomina diventa sospetta ai loro occhi, perchè viene da uno che ha tentato, almeno a parole, di riavviare il processo di pace coi palestinesi. L’odio è profondo ed esplicito: i sondaggi dicono che in Israele Obama è guardato con favore solo dal 4% della popolazione. Obama è considerato un nemico.
Proprio qui, mi sembra, sta la differenza con la precedente Amministrazione Bush jr.: la parte più fanatica della lobby (i neocon) per otto anni ha manovrato il governo americano dall’interno, agendo su di un presidente del tutto consonante coi suoi desideri più folli. Oggi, non solo i neocon, ma l’intera comunità giudeo-americana sta controllando l’Amministrazione Obama «dall’esterno», con violente pressioni ed esplicite intimidazioni. Sfidano il presidente e lo demoliscono giorno per giorno. E il sistema funziona, forse meglio che con Bush.
Il congelamento degli insediamenti illegali nei territori occupati palestinesi, invocato da Obama, è continuato, per opera di Netanyahu, in aperta sfida al primo presidente nero. E al discorso di accettazione del Nobel della pace, Obama non solo ha ripetuto tutte le menzogne di Bush per giustificare la continuazione delle sue guerre, ma ha anhe ammesso di aver gettato la spugna per quanto riguarda i diritti dei palestinesi. Un cedimento dopo l’altro, e senza nemmeno risalire di un millimetro agli occhi dei giudei.
Il fatto è confermato dallo scoraggiamento e dal pessimismo che ha colto gli ambienti dell’establishment storico, promotore, dalla Grande Guerra, di quel che si può definire imperialismo-soft, e di cui fanno parte gli stessi Walt e Mearsheimer. Nessuna entità, in questo senso, può vantarsi di aver tirato le fila della politica neo-imperiale statunitense con maggiore continuità del Council on Foreign Relations (CFR): il think tank fondato e finanziato dai Rockefeller, che ha fornito alle Amministrazioni USA personaggi del più alto livello (da Kissinger a Brzezinski), che dispone ancora delle sue potenti reti di comando internazionali, dalla Commissione Trilaterale al Bilderberg.
Ebbene: dal 2 ottobre al 16 novembre, l’istituto di sondaggi Pew ha sottoposto un approfondito questionario a 642 membri del Council on Foreign Relations proprio per valutare i sentimenti dell’establishment attraverso questo campione qualificato, e confrontarlo col sentire del «general public», degli americani qualunque. Ciò che risulta è un fondamentale sentimento, da parte di questo establishment, di sentirsi scavalcato
(2).
Anzitutto, i due terzi dei membri del CFR dicono che gli USA hanno fatto «troppo» a favore di Israele. Questo gruppo di ben informati, alla domanda su chi considerano il più importante alleato per gli USA di fronte alle sfide del futuro, rispondono «la Cina» al 58%, «l’India» al 55, il Brasile al 37%. Solo il 19% considera un importante alleato l’Unione Europea, quasi alla pari con la Russia (17%) e Giappone (16%). E Israele? E’ importante solo per 4%. Un alleato di poco conto (alla pari con la Corea del Sud) che – ritengono – non vale i sacrifici che Washington ha profuso per esso.
Richiesti di dire da che parte stanno nel conflitto israelo-palestinese, solo 26% dei membri del CFR si sono dichiarati pro-israeliani; fatto significativo, la quota del «general public» che dà ragione ad Israele è invece del 51%. 41 su 100 del CFR hanno una «posizione alla pari» fra palestinesi e israeliani (hanno torto tutt’e due, hanno ragione tutt’e due), mentre fra gli americani qualunque solo 4% esprimono questa posizione bilanciata.
Ciò significa da una parte che i membri dell’establishment sono ovviamente meglio informati dell’americano medio, e meno soggetti alla propaganda mediatica dominata dalla lobby; ma rivela anche fino a che punto il CFR abbia perso peso nel determinare la politica internazionale americana.
La tendenza è confermata dalle risposte alla domanda sull’attuale politica USA in Medio Oriente: 67% dei membri del CFR dicono che tale politica è troppo sbilanciata a favore di Israele, contro il 30% del pubblico generale.
Sull’Iran, la spaccatura fra analisti qualificati e popolo( bue) è ancora più plateale: solo 34 membri del CFR su cento ritengono l’Iran una minaccia per gli interessi americani, e 64% no. La proporzione è più che rovesciata nel pubblico generale: 72% contro 20%. Di conseguenza, solo il 33% del CFR approverebbe un attacco all’Iran se si dotasse di armi atomiche, mentre il 63% degli americani qualunque è a favore dell’attacco.
Non c’è che dire: l’influenza ebraica miete successi da due lati, controlla Obama e le sue nomine, e nello stesso tempo eccita il popolo americano secondo i suoi desideri. Non a caso Obama è risalito nei sondaggi da quando ha annunciato l’escalation di 30 mila uomini in Afghanistan, sinistro segno di cecità collettiva: all’americano medio, con tutti i suoi problemi, piace la guerra.
Eppure, il sondaggio Pew mostra un crescente sentimento isolazionista («L’America deve occuparsi dei suoi affari», dicono oggi 49 americani su 100, contro i 30 su cento che lo dicevano nel 2002). Ma l’isolazionismo si esprime con un più accentuato «unilateralismo» alla Bush: il 44% degli americani dice che «siccome gli USA sono la nazione più potente del mondo, dobbiamo andare per la nostra strada nelle questioni internazionali, snza preoccuparci che le altre nazioni siano o no con noi».
Una visione tanto più irrealistica e contraddittoria, in quanto si accompagna ad una amara coscienza del proprio declino: oggi solo 27 americani su 100 dicono che gli USA sono la potenza-guida mondiale (e 44 su cento indicano invece la Cina), mentre ancora nel febbraio 2008, 41 su cento indicavano gli stati Uniti come unica superpotenza-guida.
Depressione che volge al pessimismo e forse alla disperazione, con un sentimento crescente di rivalsa e di voglia di riaffermare l’egemonia con l’uso dello strumento militare supremo (atomico): la paranoia americana coincide sempre più con la paranoia ebraica, ed anche questo è un successo della lobby.
E ciò in un’atmosfera di palese indebolimento di Obama e di distruzione della sua autorità, nel quadro di una frammentazione dei poteri, spesso in conflitto reciproco.
«Chi è al timone, il presidente o i generali?»
(3), si domanda il senatore democratco Ionuye (un hawaiano), notando come il generale McChrystal abbia strappato i 30 mila uomini in più in Afghanistan con una pubblica polemica contro Obama, una mancanza di rispetto formale inaudita, che ha costretto Obama a discutere con i gallonati, e che «indebolisce la catena di comando».
Chi comanda, il presidente o Wall Street?, si domanda pubbblicamente l’economista Nobel Paul Krugman, notando che l’Amministrazione non ha saputo imporsi ai grandi banchieri speculativi, non ha saputo rimettere ordine nel sistema e far pagare la finanza impazzita per le sue colpe. Anzi, Obama sta cedendo ogni potere d’intervento alla FED, che ascolta i banchieri, e che sta proponendo addirittura di rendere permanente il loro «salvataggio» (bailout) con permamenti iniezioni di liquidità alle banche d’affari fallite, per mantenerne i profitti fittizi a prezzo di una iper-inflazione mai vista domani.
«E’ passato il tempo in cui si poteva confidare che l’Amministrazione facesse quel che è necessario. Tutto induce a credere che non lo farà di propria iniziativa», si sconsola Krugman, convinto che le prossime elezioni vedranno il ritorno al potere dei repubblicani, e dunque dei neocon.
Insomma anche gli amici di Obama lo vedono ormai come un re travicello, un burattino eterodiretto. Altri si domandano: Obama si fa imporre le politiche di guerra dal complesso militare-industriale? O sarebbe meglio dire: l’industria militare ha fatto ammalare l’intera America?
Appena ha annunciato il «surge» dei 30 mila uomini in più in Afghanistan, le dodici mega-imprese del settore «Difesa e Aerospaziale» nello S&P 500 hanno visto schizzare alle stelle le loro azioni. Del resto, dall’11 settembre 2001, le industrie militari hanno fortemente superato tutte le altre cinquecento imprese dell’indice S&P 500: per la precisione, salendo in otto anni del 78%, contro l’1% delle altre. E’ chiaro che ogni americano medio vede nel complesso militare industriale la sola industria nazionale rimasta, la sola industria di successo in cui investire i propri soldi, e dunque ha una «naturale» propensione a credere nella guerra perpetua come via d’uscita dalla crisi economica.
Obama obbedisce ai petrolieri?, si domanda dal canto suo Jeremy Hammond, direttore del Foreign Policy Journal, e nota: al di là delle menzogne tradizionali per giustificare l’escalation in Afghanistan («Cattturare bin Laden», battere il terrorismo globale, eccetera) sono evidenti gli interessi che vogliono vedere il Paese attraversato da gasdotti e oleodotti. Disfatti i talebani, Bush ha nominato inviato speciale nell’Afghanistan «liberato» Zalmay Khalilzad, un americano d’origine afghana che era l’analista dei rischi per la Unocal, il consorzio petrolifero che voleva costruire l’oleodotto TAPI (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India); il presidente Karzai è un ex dirigente della Unocal. E la Unocal è stata comperata dalla Chevron, la quale era la ditta per cui lavorava Condoleezza Rice prima di essere nominata consigliera della sicurezza nazionale... Nonostante tutto, l’instabilità afghana continua a rendere irrealizzabile il TAPI; ecco perchè l’ultimo sforzo di Obama, l’estrema escalation in una guerra che tanti giudicano già persa.
Si tratta di portare le materie prime energetiche del Turkmenistan e Kazakhstan verso i «mercati». E quale multinazionale s’è assicurata le ricchezze materiali del Turkmenistan a forza di «assistenza» (tangenti) alla cricca politica locale, ed ha bisogno di realizzare l’oleodotto TAPI? Qaul’è il nome dell’impresa che conta di ricavare immense royalty dall’oldeotto? Il Gruppo Merhav, una società non quotata che appartiene a Yosef A. Maiman, un (ex?) agente del Mossad. Il quale si è affiancato al vertice dell’impresa Shabtai Shavit, già direttore del Mossad, e Nimrod Novik, primo consigliere di Shimon Peres, l’attuale presidente israeliano.
Il Gruppo Merhav coincide praticamente col governo isrealiano. Possiede la TV israeliana Channel Ten (con Rupert Murdoch), la Ampal American-Israeli Corporation, la israeliana Gadot Tankers and Terminals Ltd., una azienda agrochimica, e inoltre una ditta di circuiti stampati, la Eltek Ltd, in cui Maiman s’è associato Eytan Barak, figlio del ministro della Guerra israeliano Ehud Barak. Ed Eytan Barak è anche dirigente della ICTS International, la compagnia di sicurezza aeroportuale che aveva l’appalto della sorveglianza degli aeroporti americani l’11 settembre 2001, e che espletò sappiamo quanto bene. E nonostante questo, la ICTS continua a ricevere appalti per la sicurezza degli aeroporti di mezzo mondo, non esclusi quelli di Italia e Francia.
Il cerchio, in qualche modo, si chiude. Bisogna che l’America si dissangui ancora un poco, per il Gruppo Merhav. Per i petrolieri, i banchieri, gli industriali militari.
Chi comanda su Obama? Qualunque sia la risposta, non è Obama.
1) Natasha Mozgovaya, «American Jews eye Obama’s anti-Israel appointees», Haaretz, 4 dicembre 2009.
2) Il sondaggio PEW può essere letto integralmente in pdf al sito http://people-press.org/reports/questionnaires/569.pdf
3) Si veda http://news.antiwar.com/2009/12/07/senate-dems-fear-generals-undermining-july-2011-target/
4) Christopher Bollyn, «Why Afghanistan?» http://www.bollyn.com/index.php#article_
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