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Che fare?
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Devo una risposta al lettore mitridimitri:


«Gentile Direttore,

l
altro giorno, leggendo i commenti di alcuni utenti a un articolo postato su un portale dissidente’, mi hanno colpito le argomentazioni di uno tra questi. Con toni estremamente scoraggiati questo sconosciuto lamentava il sostanziale svuotamento e la crescente irrilevanza della contro-informazione telematica. Chi si augurava che il WEB diventasse la nuova palestra dardimento per una resistenza prossima ventura sta vivendo di questi tempi un brutto e triste risveglio. Inutile far finta di nulla: tutti i dati più significativi indicano che la tanto decantata democrazia internettara, il suo potenziale di mobilitazione siano in tutto e per tutto prevedibili, governabili e controllabili da parte dei soliti super-poteri non diversamente da ogni altro mezzo dinformazione esistente. Le varie rivoluzioni colorate e, da ultimo, la lugubre pagliacciata della passeggiata in violafatta da tanti volenterosi partigiani telematici di casa nostra (a spese di chissà chi) ha aperto gli occhi anche ai più restii. Ad un certo punto, poi, lo stesso utente lamentava la rarefazione di polemisti e contro-informatori di razza e citava, tra gli altri, anche Lei, Direttore. Blondet, lamentava grosso modo, da quando si è blindato in un portale a pagamento è come sparito dalla Rete... Ora, come posso dire, sarebbe forse il momento di aprire una parentesi, d’imporsi una fase di seria riflessione. Non certo sulle ragioni che vi hanno indotto a compiere questa scelta e che restano per me insindacabili. Del resto tra tutti i soldi che mi escono dalle tasche questi sono quelli in assoluto meglio spesi. Ma bensì sul senso finale e, se mi posso permettere, sulle intime aspettative di coloro che si ritrovano qui. Ammettiamolo: a leggere cose come quelle che vi si trovano quotidianamente, a ogni uomo ben nato prudono le mani. Se lo scopo è qualcosa di più dell’informare dobbiamo chiederci qual’è. E risponderci sinceramente. Gonfiare a dismisura sentimenti che un tempo furono nobilissimi come l’indignazione, lo sdegno, il senso della sovranità calpestata, della dignità lordata non è cosa che possa essere replicata all’infinito senza che mai e poi mai ci sia una pur remotissima ipotesi di sbocco nella realtà effettuale. Si rischia qualcosa di più del mal di fegato. Si rischia, temo, di contribuire a un processo che alcuni danno già per irreversibile. Ovvero l’assoluta impossibilità di rientrare nella prassi dell’azione in un epoca dominata in ogni suo aspetto dalla Comunicazione. Confesso che questa ipotesi mi terrifica ancor più delle insidie batteriologiche, delle testate nucleari multiple, dei rabbini ossessi e dei banchieri squalo. Pensiamoci, per piacere. Non che mi aspetti che un bel giorno il Direttore si decida a raggrupparci e ci guidi come un improbabile D’Annunzio del 2000, ma, ripeto: cosa ci aspettiamo dalla contro-informazione? Solo essere contro-informati? Avanzo senz’altro qualche riserva. Intanto mi permetto di consigliare a tutti un saggio breve, ma molto ficcante, in cui mi sono imbattuto recentemente e che ho trovato per molti versi illuminante anche se perviene a conclusioni che, personalmente, mi fanno venire voglia di legarmi la proverbiale pietra al collo. Consiglio a tutti di leggerlo e, se lo farete, capirete il perché. Mario Perniola Miracoli E Traumi Della Comunicazione’, Einaudi-Le Vele».


Considerazioni serissime, lettore, per cui ti ringrazio. Mi spiace profondamente se tutta la mia fatica conducesse dal pessimismo alla disperazione. Personalmente, non mi dispero del «sostanziale svuotamento e della crescente irrilevanza della contro-informazione telematica», perchè non ne ho mai sopravvalutato il potere. Ho visto Internet come un mezzo di poca spesa (e che dunque non deve dipendere dalla pubblicità o dai soldi dei poteri forti per sopravvivere), che consente di diffondere informazioni censurate dai «grandi» media, quelli che dipendono dalla pubblicità e dai poteri forti. Tutto qui. Ma non è poco: è un ritorno al giornalismo originario, come modesto ma necessario ausiliare della democrazia. I «grandi» media sono organi di entertainment (di «distrazione»), spacciano «consigli per gli acquisti», vendono i lettori o i telespettatori alle agenzie pubblicitarie e a quelle del potere, attraverso la diffusione e «validazione» del politicamente corretto. Qui, compiamo ancora – nel nostro piccolo – l’operazione che giustifica il giornalismo:  informare il popolo sovrano perchè decida e scelga. E’ una modestissima azione preliminare: se non è informato, il popolo sì fa guidare da traditori e grassatori.

Il problema non è il web, è il popolo sovrano. La canea, le strida, i cachinni, che escono in questi giorni da Facebook, dalle piazze e dalle TV lo dicono fin troppo bene: siamo affondati in una società di psicolabili di massa, per usare una indovinata diagnosi di Giuliano Ferrara. Una società che è essenzialmente dis-società, dissociazione permanente gli uni dagli altri. Persino tra i miei lettori, già in qualche modo selezionati e impegnati, si può vedere cosa è diventato: basta fare un nome – Di Pietro, Berlusconi – e subito scattano le tifoserie più cieche, siamo alluvionati dalle «opinioni» più rozze. Ogni sforzo pedagogico di formare una classe dirigente alternativa – ossia di educare alla complessità dei problemi, di far apprezzare le sfumature, le finezze e i paradossi, di situare gli eventi presenti in una profondità storica (ciò che avviene oggi è conseguenza di ciò che è avvenuto ieri), tutto questo, di colpo – va a pallino. Centinaia di lettori di colpo ripiegano sulle loro favorite «idee ricevute», ci comunicano per la centesima volta – come se non la conoscessimo già – la loro frase fatta preferita, ciecamente, all’infinito, come se fosse una verità evidente e non bisognosa di argomentazione. Scompare ogni capacità di sollevarsi al disopra dei propri rancori più bassi, rabbie, invidie; scompare – se mai c’è stata – ogni capacità di analisi logica, e persino ogni volontà di capire quel che dice l’altro, se non altro per rispondergli a tono.

Nel recensire il libro di Perniola che lei consiglia, sul Foglio, Camillo Langone dice la stessa cosa. Non ho stima di Langone, ma denuncia il fenomeno della neo-barbarie in modo colorito: «Ho lettori che quando mi scrivono mi chiamano dottore, che quando mi telefonano mi chiedono dove vado in vacanza, che quando mi incontrano esordiscono esclamando Io sono laicoper dire che sono atei, e poi si felicitano perché abito a Parma ‘dove si mangia bene o perché vengo dal Sud dove c’è più religione che al Nord’. Tutti, sempre, arricciano il naso quando ordino Lambrusco perché non è un vero vino’. Ma vaffanculo. Anni di rubriche gettati al vento. Che cosa devo inventare per farmi ascoltare davvero?».

Già: che fare, se ogni volta chi ci ascolta (o credevamo ci ascoltasse) ricade autisticamente nei soliti luoghi comuni? Internet, da mezzo di diffusione di informazioni e idee come poteva essere, è diventata la platea dove si espone senza vergogna, anzi con arroganza, la propria ossessione minima, la propria unica idea fissa, il proprio odio pornografico, il proprio «fondamentalismo» piccino e privato, la propria ignoranza e il proprio semplicismo. E per di più, ciascuno di questi  ossessi e vite microscopiche accampa come «democrazia» il diritto alle proprie «opinioni», che chiama addirittura «le mie idee».

Già lo diceva Ortega y Gasset: «Oggi l’uomo (l’uomo-massa) ha le ‘idee più tassative su quanto deve avvenire nell’universo. Per questo ha perduto l’uso dell’udito. Perchè stare ad ascoltare, se già possiede dentro di sè ciò che occorre? Ormai non è più questione di ascoltare, ma anzi di giudicare, sentenziare, decidere. Non c’è questione della vita pubblica dove non intervenga, sordo e cieco com’è, imponendo le sue opinioni’»
(1).

Internet ha solo aggravato questo fenomeno, che era già presente ai tempi in cui lo denunciava Ortega negli anni ‘30. E’ chiaro che non queste folle virtuali, questo pullulare gelatinoso di intolleranze e fanatismi, di «idee fisse» e di diffidenze, non è possibile alcuna azione politica: queste folle non sono capaci nè di costanza nè di auto-disciplina, obbediscono ai loro impulsi primari e alle suggestioni del momento, non sono capaci di prevedere nulla. Soprattutto, non ammettono persone come  superiori a loro se non altro per esperienza o per cultura, per carattere o onestà, da cui farsi guidare. E’ la «democrazia» come la intende Beppe Grillo, quella «dove tutti comandano»: di fatto, ciò si riduce alla tirannia del’«opinione», e precisamente delle opinioni dettate dai poteri forti con tuti i loro mezzi di disinfomazione e di propaganda. E difatti, il web, questo strumento potenzialmente rivoluzionario, è occupato da queste sub-umanità ringhiose, sospettose, piene di rancori – e impotenti.

Perciò  è inutile, cari lettori, che mi incitiate: Blondet, ci guidi! Ci dica cosa dobbiamo fare!, se poi in piazza ci troviamo in venti o trenta, ed altri milioni a condannarci, a deriderci, a denunciarci alla psico-polizia (2).

Perchè nulla sostituisce il carattere, il coraggio, lo sforzo personale, il consolidamento della volontà e anche la ragionevole umiltà di essere capaci di obbedire, che è propria delle minoranze determinate – le sole che sapranno comandare, le sole da cui si può sperare un’azione politica. E l’informazione, per il carattere, può fare poco. E’ importante, ma solo preliminare ed ausiliario. Il carattere dovete formarvelo voi, cari lettori.

In questo senso – di mancanza di carattere – è molto indicativo il commento dello sconosciuto scoraggiato e intelligente sul portale dissidente, che lamenta la «rarefazione di polemisti e contro-informatori di razza» e citava anche me, Blondet, lamentando che «da quando si è blindato in un portale a pagamento è come sparito dalla Rete…»...

Ora, ci rendiamo conto che i poteri  che cerchiamo di contrastare dispongono di centinaia  di miliardi? E noi siamo lì a lamentarci perchè Blondet, da quando fa pagare 4 euro al mese per le sue informazioni, «è sparito».

A me la soluzione sembra semplice: incitare due, tre o dieci amici ad abbonarsi; nella consapevolezza che il moltiplicare i lettori paganti ci consentirebbe di «fare massa» politicamente attiva.

Non si comincia così a farsi il carattere, smettendo di lamentarsi e cominciando ad agire?




1) No, ovviamente, essi non hanno diritto alle loro «opinioni», perchè non sono nemmeno «loro», ma idées reçues, luoghi comuni. Come dice ancora Ortega y Gasset: «Non vale parlare di idee e opinioni dove non si ammetta una istanza che le regoli, una serie di norme a cui ci si debba appellare nelle discussioni. Queste norme sono i principii della cultura; non importa quali. (Ma) non c’è cultura dove non ci siano norme a cui il nostro prossimo possa ricorrere (...). Non c’è cultura dove non ci sia un profondo rispetto per certe estreme posizioni intellettuali a cui riferirsi nella disputa... allorchè mancano queste cose non c’è cultura; c’è, nel senso più rigoroso, barbarie. Il viaggiatore che arriva in un Paese barbaro, sa che in quel territorio non vigono principii a cui si possa ricorrere. Non ci sono in realtà norme ‘barbariche’: la barbarie è assenza di norme e del loro possibile appello».  Se il discorso vi sembra astratto, facciamo un esempio concreto, che ci riguarda: quando informo sulle atrocità israeliane - come ritengo mio dovere - tanti, anche amici,  scuotono la testa: «Sì, ma è un po’ antisemita». E i nemici, poi, ti chiamano nazista e ti segnalano alle autorità repressive. Non c’è rispetto per la regola che noi qui informiamo di fatti determinati, da tener distinti dalle «opinioni» che queste informazioni possono suscitare.
2) A questo proposito, dirò che siamo sospettati persino dai microscopici gruppi del cattolicesimo tradizionale, a cui diamo spazio cordiale ritenendo che le loro idee - comunque le si giudichi - debbano essere ascoltate per il «rispetto per certe estreme posizioni intellettuali» di cui parla Ortega y Gasset. Mi è stato riferito che in questi gruppi si dice: Blondet simpatizza coi musulmani, cita Buddha, le Upanishad, Guénon... in fondo è un neopagano. Come sono cambiati i «veri cristiani». Nel 370, i cristiani di Milano fecero vescovo a furor di popolo un certo Ambrogio, un tedescone di Treviri, un funzionario romano, governatore imperiale dell’Italia settentrionale, che non era nemmeno battezzato. Non pare che abbiano eccepito: ma questo è un pagano, non ha il battesimo! Pensate che larghezza di vedute: si scelsero come vescovo una persona di cui avevano provato l’onestà, mica uno che vedevano in chiesa tutti i giorni. Il clericalismo non era ancora nato. E non si faceva l’esame permanente, sospettoso, di una persona onesta in modo da negarle continuamente  fiducia: il funzionario, vescovo non battezzato, poi, divenne santo, Sant’Ambrogio. Se gli amici ci trattano così, potete immaginare come ci trattano i nemici.




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