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Che fare?
21 Dicembre 2009
Devo una risposta al lettore mitridimitri:
«Gentile Direttore,
l’altro giorno, leggendo i commenti di alcuni utenti a un articolo
postato su un portale ‘dissidente’, mi hanno colpito le argomentazioni
di uno tra questi. Con toni estremamente scoraggiati questo sconosciuto
lamentava il sostanziale svuotamento e la crescente irrilevanza della
contro-informazione telematica. Chi si augurava che il WEB diventasse
la nuova palestra d’ardimento per una resistenza prossima ventura sta
vivendo di questi tempi un brutto e triste risveglio. Inutile far finta
di nulla: tutti i dati più significativi indicano che la tanto
decantata democrazia internettara, il suo potenziale di mobilitazione
siano in tutto e per tutto prevedibili, governabili e controllabili da
parte dei soliti super-poteri non diversamente da ogni altro mezzo
d’informazione esistente. Le varie rivoluzioni colorate e, da ultimo,
la lugubre pagliacciata della passeggiata ‘in viola’ fatta da tanti
volenterosi partigiani telematici di casa nostra (a spese di chissà
chi) ha aperto gli occhi anche ai più restii. Ad un certo punto, poi,
lo stesso utente lamentava la rarefazione di polemisti e
contro-informatori di razza e citava, tra gli altri, anche Lei,
Direttore. Blondet, lamentava grosso modo, da quando si è blindato in
un portale a pagamento è come sparito dalla Rete... Ora, come posso
dire, sarebbe forse il momento di aprire una parentesi, d’imporsi una
fase di seria riflessione. Non certo sulle ragioni che vi hanno indotto
a compiere questa scelta e che restano per me insindacabili. Del resto
tra tutti i soldi che mi escono dalle tasche questi sono quelli in
assoluto meglio spesi. Ma bensì sul senso finale e, se mi posso
permettere, sulle intime aspettative di coloro che si ritrovano qui.
Ammettiamolo: a leggere cose come quelle che vi si trovano
quotidianamente, a ogni uomo ben nato prudono le mani. Se lo scopo è
qualcosa di più dell’informare dobbiamo chiederci qual’è. E risponderci
sinceramente. Gonfiare a dismisura sentimenti che un tempo furono
nobilissimi come l’indignazione, lo sdegno, il senso della sovranità
calpestata, della dignità lordata non è cosa che possa essere replicata
all’infinito senza che mai e poi mai ci sia una pur remotissima ipotesi
di sbocco nella realtà effettuale. Si rischia qualcosa di più del mal
di fegato. Si rischia, temo, di contribuire a un processo che alcuni
danno già per irreversibile. Ovvero l’assoluta impossibilità di
rientrare nella prassi dell’azione in un epoca dominata in ogni suo
aspetto dalla Comunicazione. Confesso che questa ipotesi mi terrifica
ancor più delle insidie batteriologiche, delle testate nucleari
multiple, dei rabbini ossessi e dei banchieri squalo. Pensiamoci, per
piacere. Non che mi aspetti che un bel giorno il Direttore si decida a
raggrupparci e ci guidi come un improbabile D’Annunzio del 2000, ma,
ripeto: cosa ci aspettiamo dalla contro-informazione? Solo essere
contro-informati? Avanzo senz’altro qualche riserva. Intanto mi
permetto di consigliare a tutti un saggio breve, ma molto ficcante, in
cui mi sono imbattuto recentemente e che ho trovato per molti versi
illuminante anche se perviene a conclusioni che, personalmente, mi
fanno venire voglia di legarmi la proverbiale pietra al collo.
Consiglio a tutti di leggerlo e, se lo farete, capirete il perché.
Mario Perniola ‘Miracoli E Traumi Della Comunicazione’, Einaudi-Le Vele».
Considerazioni
serissime, lettore, per cui ti ringrazio. Mi spiace profondamente se
tutta la mia fatica conducesse dal pessimismo alla disperazione.
Personalmente, non mi dispero del «sostanziale svuotamento e della
crescente irrilevanza della contro-informazione telematica», perchè non
ne ho mai sopravvalutato il potere. Ho visto Internet come un mezzo di
poca spesa (e che dunque non deve dipendere dalla pubblicità o dai
soldi dei poteri forti per sopravvivere), che consente di diffondere
informazioni censurate dai «grandi» media, quelli che dipendono dalla
pubblicità e dai poteri forti. Tutto qui. Ma non è poco: è un ritorno
al giornalismo originario, come modesto ma necessario ausiliare della
democrazia. I «grandi» media sono organi di entertainment (di
«distrazione»), spacciano «consigli per gli acquisti», vendono i
lettori o i telespettatori alle agenzie pubblicitarie e a quelle del
potere, attraverso la diffusione e «validazione» del politicamente
corretto. Qui, compiamo ancora – nel nostro piccolo – l’operazione che
giustifica il giornalismo: informare il popolo sovrano perchè decida e
scelga. E’ una modestissima azione preliminare: se non è informato, il
popolo sì fa guidare da traditori e grassatori.
Il problema non è il web, è il popolo sovrano. La canea, le strida, i
cachinni, che escono in questi giorni da Facebook, dalle piazze e dalle
TV lo dicono fin troppo bene: siamo affondati in una società di
psicolabili di massa, per usare una indovinata diagnosi di Giuliano
Ferrara. Una società che è essenzialmente dis-società, dissociazione
permanente gli uni dagli altri. Persino tra i miei lettori, già in
qualche modo selezionati e impegnati, si può vedere cosa è diventato:
basta fare un nome – Di Pietro, Berlusconi – e subito scattano le
tifoserie più cieche, siamo alluvionati dalle «opinioni» più rozze.
Ogni sforzo pedagogico di formare una classe dirigente alternativa –
ossia di educare alla complessità dei problemi, di far apprezzare le
sfumature, le finezze e i paradossi, di situare gli eventi presenti in
una profondità storica (ciò che avviene oggi è conseguenza di ciò che è
avvenuto ieri), tutto questo, di colpo – va a pallino. Centinaia di
lettori di colpo ripiegano sulle loro favorite «idee ricevute», ci
comunicano per la centesima volta – come se non la conoscessimo già –
la loro frase fatta preferita, ciecamente, all’infinito, come se fosse
una verità evidente e non bisognosa di argomentazione. Scompare ogni
capacità di sollevarsi al disopra dei propri rancori più bassi, rabbie,
invidie; scompare – se mai c’è stata – ogni capacità di analisi logica,
e persino ogni volontà di capire quel che dice l’altro, se non altro
per rispondergli a tono.
Nel recensire il libro di Perniola che lei consiglia, sul Foglio,
Camillo Langone dice la stessa cosa. Non ho stima di Langone, ma
denuncia il fenomeno della neo-barbarie in modo colorito: «Ho
lettori che quando mi scrivono mi chiamano dottore, che quando mi
telefonano mi chiedono dove vado in vacanza, che quando mi incontrano
esordiscono esclamando ‘Io sono laico’ per dire che sono atei, e poi si
felicitano perché abito a Parma ‘dove si mangia bene’ o perché vengo
dal Sud ‘dove c’è più religione che al Nord’. Tutti, sempre, arricciano
il naso quando ordino Lambrusco perché ‘non è un vero vino’. Ma
vaffanculo. Anni di rubriche gettati al vento. Che cosa devo inventare
per farmi ascoltare davvero?».
Già: che fare, se ogni volta chi ci ascolta (o credevamo ci ascoltasse)
ricade autisticamente nei soliti luoghi comuni? Internet, da mezzo di
diffusione di informazioni e idee come poteva essere, è diventata la
platea dove si espone senza vergogna, anzi con arroganza, la propria
ossessione minima, la propria unica idea fissa, il proprio odio
pornografico, il proprio «fondamentalismo» piccino e privato, la
propria ignoranza e il proprio semplicismo. E per di più, ciascuno di
questi ossessi e vite microscopiche accampa come «democrazia» il
diritto alle proprie «opinioni», che chiama addirittura «le mie idee».
Già lo diceva Ortega y Gasset: «Oggi l’uomo (l’uomo-massa) ha
le ‘idee’ più tassative su quanto deve avvenire nell’universo. Per
questo ha perduto l’uso dell’udito. Perchè stare ad ascoltare, se già
possiede dentro di sè ciò che occorre? Ormai non è più questione di
ascoltare, ma anzi di giudicare, sentenziare, decidere. Non c’è
questione della vita pubblica dove non intervenga, sordo e cieco com’è,
imponendo le sue ‘opinioni’»
(1).
Internet ha solo aggravato questo fenomeno, che era già presente ai
tempi in cui lo denunciava Ortega negli anni ‘30. E’ chiaro che non
queste folle virtuali, questo pullulare gelatinoso di intolleranze e
fanatismi, di «idee fisse» e di diffidenze, non è possibile alcuna
azione politica: queste folle non sono capaci nè di costanza nè di
auto-disciplina, obbediscono ai loro impulsi primari e alle suggestioni
del momento, non sono capaci di prevedere nulla. Soprattutto, non
ammettono persone come superiori a loro se non altro per esperienza o
per cultura, per carattere o onestà, da cui farsi guidare. E’ la
«democrazia» come la intende Beppe Grillo, quella «dove tutti
comandano»: di fatto, ciò si riduce alla tirannia del’«opinione», e
precisamente delle opinioni dettate dai poteri forti con tuti i loro
mezzi di disinfomazione e di propaganda. E difatti, il web, questo
strumento potenzialmente rivoluzionario, è occupato da queste
sub-umanità ringhiose, sospettose, piene di rancori – e impotenti.
Perciò è inutile, cari lettori, che mi incitiate: Blondet, ci guidi!
Ci dica cosa dobbiamo fare!, se poi in piazza ci troviamo in venti o
trenta, ed altri milioni a condannarci, a deriderci, a denunciarci alla
psico-polizia (2).
Perchè nulla sostituisce il carattere, il coraggio, lo sforzo
personale, il consolidamento della volontà e anche la ragionevole
umiltà di essere capaci di obbedire, che è propria delle minoranze
determinate – le sole che sapranno comandare, le sole da cui si può
sperare un’azione politica. E l’informazione, per il carattere, può
fare poco. E’ importante, ma solo preliminare ed ausiliario. Il
carattere dovete formarvelo voi, cari lettori.
In questo senso – di mancanza di carattere – è molto indicativo il
commento dello sconosciuto scoraggiato e intelligente sul portale
dissidente, che lamenta la «rarefazione di polemisti e
contro-informatori di razza» e citava anche me, Blondet, lamentando che
«da quando si è blindato in un portale a pagamento è come sparito dalla
Rete…»...
Ora, ci rendiamo conto che i poteri che cerchiamo di contrastare
dispongono di centinaia di miliardi? E noi siamo lì a lamentarci
perchè Blondet, da quando fa pagare 4 euro al mese per le sue
informazioni, «è sparito».
A me la soluzione sembra semplice: incitare due, tre o dieci amici ad
abbonarsi; nella consapevolezza che il moltiplicare i lettori paganti
ci consentirebbe di «fare massa» politicamente attiva.
Non si comincia così a farsi il carattere, smettendo di lamentarsi e cominciando ad agire?
1)
No, ovviamente, essi non hanno diritto alle loro «opinioni», perchè non
sono nemmeno «loro», ma idées reçues, luoghi comuni. Come dice ancora
Ortega y Gasset: «Non vale parlare di idee e opinioni dove non si
ammetta una istanza che le regoli, una serie di norme a cui ci si debba
appellare nelle discussioni. Queste norme sono i principii della
cultura; non importa quali. (Ma) non c’è cultura dove non ci siano
norme a cui il nostro prossimo possa ricorrere (...). Non c’è cultura
dove non ci sia un profondo rispetto per certe estreme posizioni
intellettuali a cui riferirsi nella disputa... allorchè mancano queste
cose non c’è cultura; c’è, nel senso più rigoroso, barbarie. Il
viaggiatore che arriva in un Paese barbaro, sa che in quel territorio
non vigono principii a cui si possa ricorrere. Non ci sono in realtà
norme ‘barbariche’: la barbarie è assenza di norme e del loro possibile
appello». Se il discorso vi sembra astratto, facciamo un esempio
concreto, che ci riguarda: quando informo sulle atrocità israeliane -
come ritengo mio dovere - tanti, anche amici, scuotono la testa: «Sì,
ma è un po’ antisemita». E i nemici, poi, ti chiamano nazista e ti
segnalano alle autorità repressive. Non c’è rispetto per la regola che
noi qui informiamo di fatti determinati, da tener distinti dalle
«opinioni» che queste informazioni possono suscitare.
2) A questo
proposito, dirò che siamo sospettati persino dai microscopici gruppi
del cattolicesimo tradizionale, a cui diamo spazio cordiale ritenendo
che le loro idee - comunque le si giudichi - debbano essere ascoltate
per il «rispetto per certe estreme posizioni intellettuali» di cui
parla Ortega y Gasset. Mi è stato riferito che in questi gruppi si
dice: Blondet simpatizza coi musulmani, cita Buddha, le Upanishad,
Guénon... in fondo è un neopagano. Come sono cambiati i «veri
cristiani». Nel 370, i cristiani di Milano fecero vescovo a furor di
popolo un certo Ambrogio, un tedescone di Treviri, un funzionario
romano, governatore imperiale dell’Italia settentrionale, che non era
nemmeno battezzato. Non pare che abbiano eccepito: ma questo è un
pagano, non ha il battesimo! Pensate che larghezza di vedute: si
scelsero come vescovo una persona di cui avevano provato l’onestà, mica
uno che vedevano in chiesa tutti i giorni. Il clericalismo non era
ancora nato. E non si faceva l’esame permanente, sospettoso, di una
persona onesta in modo da negarle continuamente fiducia: il
funzionario, vescovo non battezzato, poi, divenne santo, Sant’Ambrogio.
Se gli amici ci trattano così, potete immaginare come ci trattano i
nemici.
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