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Pio XII ed il «Trio Lescano»
25 Dicembre 2009
Lo sbloccamento dell’iter di canonizzazione di Papa Pio XII,
che ora finalmente possiamo chiamare anche ufficialmente «servo di Dio»,
è un altro atto di Benedetto XVI mirato a restituire identità, nella
continuità, ad una Chiesa disorientata da decenni di chiacchiere «teologicamente
corrette». Un atto che, si spera, contribuisca a far riflettere i
detrattori, un po’ troppo frettolosi, di Papa Ratzinger circa l’effettiva sua
volontà di percorrere, con prudenza certo ma anche con fermezza, la strada
verso la restituzione alla Chiesa del suo vero volto. La notizia sulla
dichiarazione delle virtù eroiche di Pio XII ha però ridato, come era
prevedibile, la stura alle solite polemiche. Tra le prefiche di turno non
poteva mancare il «Trio Lescano»
dell’ebraismo italiano: rabbi Riccardo Di Segni, il cripto sindaco di Roma
Riccardo Pacifici ed il presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane Renzo Gattegna (1). All’unisono i tre sono intervenuti
sulla stampa (ci riferiamo in particolare alle loro dichiarazioni riportate da
Il Messaggero del 20 dicembre scorso) insieme allo «storico»
Marcello Pezzetti, direttore dell’italico «Sacro Tempio»
dell’unica religione rimasta ossia del museo della Shoah di Roma.
Riprendendo tutta la consueta vulgata diffamatoria su Pio XII, il trio, per
l’occasione improvvisatosi quartetto, ha riproposto nella sua interezza la
sequela di lagnose lamentele sull’ambiguità del dialogo portato avanti dalla
Chiesa di Benedetto XVI (sul prossimo numero della rivista Pagine ebraiche
apparirà una vignetta che raffigura Papa Ratzinger come un equilibrista sulla
corda tesa tra due colonne chiamate «dialogo» e «conversione»).
I nostri lagnosi cantori dello «storicamente fazioso»,
pur affermando ad ogni piè sospinto che non sarebbe volontà degli ebrei
italiani intromettersi in una decisione canonica interna alla Chiesa, in realtà
si intromettono abbondantemente, con la scusa della verifica storica, su
questioni interne al Cattolicesimo. Naturalmente la stessa pantomima - «non
vogliamo intrometterci in cose della Chiesa ma …» - viene
recitata dai governanti dello Stato di Israele, che lungi dall’indagare sui
responsabili delle recenti scritte anticristiane apparse in Israele sui muri
della basilica francescana del Cenacolo, si preoccupano di questioni non di
loro competenza.
Al governo di Israele consigliamo, piuttosto che perdere tempo con richieste di
verifiche storiche già abbondantemente effettuate nei riguardi di Pio XII, di
istituire una commissione di storici, scelti, come ha fatto la Chiesa per il
caso di Papa Pacelli, con criteri imparziali, e dunque non solo israeliani,
allo scopo di indagare sui crimini e sulle responsabilità storiche e morali
della pulizia etnica perpetrata dall’esercito israeliano e dalle milizie
sioniste ai danni della popolazione palestinese nel 1948, ben prima - si badi -
della guerra con i Paesi arabi vicini seguita alla dichiarazione di fondazione
dello Stato di Israele (2). Si è
lamentato da parte ebraica che Benedetto XVI avrebbe sbloccato l’iter di
canonizzazione di Papa Pacelli senza attendere le verifiche storiche sui
documenti di archivio che sono ancora non accessibili agli storici. Ma
dimenticano, i «fratelli maggiori», che proprio Benedetto
XVI, un paio di anni fa, aveva procrastinato il via alla canonizzazione di Pio
XII in attesa della verifica in atto su quei documenti d’archivio, che saranno
comunque disponibili a chiunque tra pochi anni. Sicché diventa impensabile che
il Papa, se in quella documentazione vi fosse qualcosa di ostativo alla
canonizzazione, si sarebbe deciso per rimuovere gli ostacoli procedurali alla
beatificazione di Pio XII. Oltre tutto esiste già ampiamente disponibile una
gran mole di documentazione, e non solo vaticana, sulla base della quale si
sono già scritti innumerevoli libri di storia, relativi al pontificato di Pio
XII, che hanno contribuito a fugare ogni ombra inopinatamente fatta gravare su
quel venerato e santo Papa.
I capi d’accusa formulati dal «Trio Lescano»
Da parte nostra su questo giornale on line ci siamo già
occupati della questione (3), sicché
riprendiamo ora l’argomento soprattutto per confutare le ultime dichiarazioni
del citato terzetto/quartetto di cui sopra. Dichiarazioni che in sostanza
assommano i seguenti capi d’accusa contro Papa Pacelli:
- non avrebbe fatto nulla per fermare il treno numero 1.201
che il 16 ottobre 1943 partiva da Roma Tiburtina verso Auschwitz carico di
ebrei romani rastrellati nei giorni precedenti, ossia di ebrei residenti nella
stessa diocesi del Papa;
- non avrebbe pubblicamente condannato un regime totalitario
come quello nazista;
- non aver firmato un ordine scritto affinché sacerdoti,
religiosi e cristiani laici si adoperassero per prestare aiuto e soccorso agli
ebrei perseguitati, sicché laddove tale aiuto e soccorso vi è stato lo si deve
soltanto alla buona volontà di singoli fedeli o gruppi di essi nel generale
disinteresse della più alta gerarchia ecclesiale;
- non avrebbe fatto nulla per fermare la persecuzione degli
ebrei in Slovacchia, dove capo del governo era un sacerdote cattolico, monsignor
Joseph Tiso.
Innanzitutto una osservazione, non storica ma solo polemica:
che strana l’accusa quella a Papa Pacelli, di essersi disinteressato degli
ebrei della sua diocesi, portata avanti da chi non manca ad ogni occasione di
ricordare come imperdonabile infamia ecclesiale lo statuto di «protezione/controllo»
esercitato, per secoli, dalla Chiesa nei confronti degli ebrei. Si accusa di
essere venuto meno ai suoi presunti doveri di «protezione»
chi di aver esercitato quella protezione, nelle persone dei suoi predecessori,
è poi rimproverato quando si tratta dei secoli anteriori alla Rivoluzione
Francese! Naturalmente i capi d’accusa sopra elencati sono solo una
esplicitazione del più generale capo d’accusa che vuole Papa Pacelli inerte di
fronte alla vasta persecuzione degli ebrei in atto in tutt’Europa durante la Seconda
Guerra Mondiale. Non dunque Churchill o Roosevelt o Stalin (Inghilterra ed USA
respingevano gli ebrei in fuga dalla Germania e dall’Europa; l’URSS, d’altro
canto, in materia di antisemitismo aveva il suo triste curriculum) che pur
erano in guerra con il nazismo ed avevano tutto il potere politico, in casa
propria, e militare sui campi di battaglia e che pertanto ben di più potevano
fare per fronteggiare davvero la persecuzione (bombardando ad esempio le linee
ferroviarie che portavano gli ebrei nei campi), ma Papa Pacelli, che avrebbe
dovuto dal balcone in piazza San Pietro ammonire Hitler ed ingiungergli di
fermarsi ottenendone, secondo l’accusa, sicura obbedienza o comunque
intimorendolo per le conseguenze dell’eventuale disobbedienza sull’opinione
pubblica internazionale, sarebbe, per la vulgata rinfocolata dal nostro «Trio
Lescano» trasformatosi per l’occasione in «Quartetto
Cetra», il vero responsabile morale, quasi una sorta di mandante
perlomeno morale, della persecuzione antiebraica nell’Europa degli anni della
Seconda Guerra Mondiale. E’ evidente quale è il postulato, infondato,
soggiacente a tale impostazione delle cose. Di Segni, Pacifici, Gattegna,
Pezzetti, e chi altri ragiona come loro, partono dal presupposto che la Chiesa
si identifichi sempre e comunque con i regimi politici che si sviluppano in
terra cristiana o a maggioranza cristiana e che pertanto tali regimi siano in
un modo o nell’altro tutti dipendenti dalla volontà del Vaticano e quindi
sempre, volenti o riottosi, soggetti ad un presunto dovere di obbedienza verso
il Papa. Ragionamento del tutto assurdo e fantasioso tanto è vero che neanche
nel medioevo le cose erano messe nel modo delineato da tale cliché, come
dimostra la secolare lotta tra Papato ed impero.
La Chiesa cattolica, nel corso dei secoli, consapevole di essere solo la parte
ancora «militante super terram» della Città di Dio, ossia
di quel Regno di Dio che non è di questo mondo pur vivendo nel mondo, non si è
mai identificata con nessun regime politico pur avendo avuto a che fare,
diplomaticamente o conflittualmente, con i regimi più svariati. Anzi, persino
l’identificazione tra la Chiesa e la Cristianità dei secoli passati non è mai
stata un «luogo teologico» benché storicamente fosse
in quei secoli una, transitoria, realtà: transitoria perché caduta la
Cristianità non è però caduta anche la Chiesa per la quale, e solo per la
quale, vale la promessa «inferii non praevalebunt».
Ne consegue che non tutto quel che è della o delle Cristianità è anche della
Chiesa cattolica e questo, a maggior ragione, vale soprattutto nell’età
moderna. Età nella quale il processo di secolarizzazione (che è stato, poi,
sovente solo un processo di mimetismo religioso con il sostituirsi,
innanzitutto nel cuore degli uomini, delle ideologie politiche, intese come
religioni mondane, alla Fede cristiana, progressivamente abbandonata) ha reso
prima sempre più precaria e poi insostenibile l’identificazione, o la
giustapposizione, tra Chiesa e società politica e civile. Sicché nutrire,
benché senza dichiararlo, la riserva mentale per la quale Papa Pacelli, a parte
l’azione diplomatica della Santa Sede, che dunque era del tutto limitata alla
stregua di ogni azione diplomatica, potesse avere una qualche diretta influenza
sul regime hitleriano, come - ed abbiamo visto che non era così neanche in quei
secoli - Papa Leone su Carlomagno, dimostra soltanto il grave equivoco al quale
la dubbia buona fede del citato «trio/quartetto»
lo conduce e che ha la sua radice nell’inveterata convinzione ebraica,
convinzione cristiano-fobica, che dal Papa e dalla Chiesa, irrealisticamente
concepita come un assoluto monolite, dipende tutto quanto si muove tra i
gentili, ad iniziare dall’antigiudaismo teologico o popolare, artatamente poi
confuso, nella percezione ebraica, con l’antisemitismo moderno a basi razziali.
E’, questa, nient’altro che una convinzione che nasce dall’avversione e dalla
diffidenza verso i non ebrei nutrita per secoli dall’esclusivismo ebraico. Trattandosi
di vezzeggiati esponenti della nota lobby, la risonanza mediatica delle
esternazioni del quartetto Di Segni, Pacifici, Gattegna, Pezzetti ha raggiunto,
more solito, livelli assordanti ed a nulla sembrano valere i pur onesti sforzi
di serietà storiografica di, ad esempio, suor Marchione, biografa di Papa
Pacelli, che da decenni non si risparmia per tutelarne la santa memoria.
Intervistata da Antonio Gaspari per l’Agenzia Zenit suor Margherita Marchione,
conosciuta come «Fighting Nun» (la suora che combatte),
autrice di oltre 15 libri sulla figura di Pio XII, ha ricordato: «Questo Papa
nel silenzio e nella sofferenza, senza armi e senza eserciti, riuscì a salvare
tante vite umane e ad alleviare tante pene. E’ la verità storica. Durante la
guerra Pio XII ha fatto di più di qualsiasi altro capo di Stato come il
presidente americano Franklin Roosevelt oppure Winston Churchill i quali potevano
servirsi di mezzi militari.
L’unico capo mondiale che ha salvato migliaia di ebrei è stato Pio XII, il
quale non aveva mezzi militari. Per questo motivo Pio XII merita di essere
riconosciuto come beato». Sempre la Marchionne ha poi smontato la tesi, fatta
ad esempio propria dal Miccoli, che l’anticomunismo di Pacelli avrebbe portato
Pio XII a chiudere un occhio sulla natura non cristiana del nazismo. Come ha
scritto, invece, monsignor Fulton J. Sheen: «Il Vaticano è stato tacciato di
comunismo dai nazisti, di nazismo dai comunisti, di antifascismo dai fascisti,
ma in realtà si oppone a ogni ideologia antireligiosa».
Una necessaria
premessa metodologica
Vediamo dunque nel merito i capi d’accusa che abbiamo sopra
elencato, formulati nelle recenti dichiarazioni dei rappresentanti degli ebrei
italiani, non senza dimenticare lo sfondo della più generale e globale accusa
rivolta a Pio XII e non senza dimenticare che, comunque, non tutto il mondo
ebraico, né italiano né mondiale, è allineato sul tali pretestuose posizioni ed
anzi che esistono importanti settori sia culturali che religiosi dell’ebraismo
che, al contrario, tributano, come facevano tutti gli ebrei nell’immediato
secondo dopoguerra, a Papa Pacelli pubblici riconoscimenti e che addirittura ne
vorrebbero una lapide di positiva commemorazione nello Yad Vaschem (4).
I nostri lettori sanno bene che l’autore di queste
considerazioni, e non da ora avendolo sempre dichiarato, pur fermamente
respingendo la trasformazione oggi in atto della persecuzione antiebraica nella
Germania nazista in un culto religioso, in una «teologia civile»,
tra l’altro incompatibile con l’asserita «laicità» del moderno
Stato liberale, non è però su posizioni «negazioniste»
benché, solidale con quei tantissimi ed autorevoli storici che da anni hanno
firmato più di un appello in proposito, si batta per la più assoluta libertà di
ricerca storica, nella convinzione che quanto è storicamente infondato deve
essere verificato solo nelle competenti sedi universitarie e della ricerca
storica, e non certo nei tribunali. La denuncia dell’innegabile fatto che l’«olocausto»
sia diventato una teologia civile, una «religio holocaustica»,
non significa affatto accettare l’affermazione metodologica propria dei
negazionisti per la quale il documento scritto prevale sempre e comunque sulla
testimonianza orale. Certo il documento scritto, in sede storiografica, ha un
suo indiscutibile valore ma non in senso assoluto perché deve essere sempre
sottoposto a verifica di provenienza e di attendibilità del suo autore nonché
ad esegesi sulle intenzioni dell’autore e sul contesto nel quale fu elaborato.
Quanti documenti scritti sono, in realtà, solo il frutto della propaganda
ideologica dei loro autori! Oggi, infatti, nessuno storico serio accetta più
come non attendibile a priori la testimonianza orale e - si badi bene - anche
quando essa non è supportata da riscontri scritti o fattuali. In altri termini
è stato finalmente superato, anche in sede storiografica, il vecchio dogmatismo
positivista per il quale «verba volant, scripta
manent». Si è invece acquisita la consapevolezza che possono «rimanere»
ed essere attendibili anche le testimonianze non scritte. Non si deve, poi, mai
assolutizzare troppo la stessa metodologia storica, perché - grazie a Dio -
nessun scienza oggi, neanche quella storica, può rivendicare, come succedeva
nel XIX e nella prima parte del XX secolo, uno statuto di infallibilità. Meno
che mai poi tale pretesa può essere avanzata dalla storiografia che, per sua
stessa natura, è sempre soggetta a continua revisione mano a mano che nuovi
documenti o la rilettura dei vecchi documenti secondo una diversa esegesi o,
per l’appunto, nuove testimonianze, cambiano la ricostruzione e la valutazione
degli avvenimenti del passato.
Le radici della sfiducia a priori nelle testimonianze orali sono da ricercare
nella polemica tardomedioevale di Occam contro gli «universalia»
ed il realismo gnoseologico della scolastica, cui egli opponeva il nominalismo
ossia l’affermazione che la realtà sarebbe nient’altro che la sensazione
intellettiva o empirica che il soggetto avrebbe di essa. Da qui poi si sviluppò
l’idealismo che riduce la realtà all’io pensante. Ma, poste queste premesse
filosofiche, l’esito è il soggettivismo dal quale deriva inevitabilmente la
sfiducia in quel che ciascun soggetto possa dire o affermare perché tutto quel
che dice, afferma o, appunto, testimonia è fatto risalire al suo
soggettivistico, e per definizione mai realistico, approccio al mondo. Mondo
che, così, viene ad essere nient’altro che il prodotto delle proprie, magari
inconsce, aspirazioni o desideri o proiezioni mentali. Fatte queste brevi
premesse metodologiche, veniamo alla conseguenza maggiore in ordine alla
polemica in atto contro la santa memoria di Pio XII. L’argomento,
veteropositivista ed ormai, come si è visto, non più accettabile in assoluto,
per il quale, in sede di ricostruzione storiografica, devono valere solo le
prove scritte, e non anche le testimonianze orali, è sempre a doppio taglio. I «negazionisti»
del genocidio ebraico fanno della mancanza di un ordine scritto di sterminio da
parte di Hitler uno dei loro cavalli di battaglia. I loro detrattori «affermazionisti»,
pur ammettendo che non esiste alcun suo documento scritto nel quale egli ordina
lo sterminio, rispondono che, in un regime come quello nazista, Hitler non
poteva non sapere della «soluzione finale»
e che l’ordine fu dato verbalmente.
Ora si dà il caso che gli stessi detrattori «affermazionisti»
dei «negazionisti» utilizzano l’argomento
della mancanza di un ordine scritto di Pio XII, finalizzato all’apertura dei
conventi e delle chiese agli ebrei perseguitati nei Paesi occupati, per negare
(sì, anche gli «affermazionisti» sono a modo loro «negazionisti»!)
il pronto aiuto che quel santo Papa e la Chiesa hanno effettivamente dato agli
israeliti, riducendo ogni episodio di soccorso alla buona volontà di singoli
cristiani o di singoli gruppi di cristiani che si sarebbero mossi senza
sollecitazione da parte della Gerarchia (qui sia detto per inciso: anche se i
cristiani si fossero mossi senza particolari sollecitazioni dall’alto, cosa
che, come vedremo, non è vera, ciò starebbe solo a dimostrare quanto spontaneo
bene la fede cattolica produce nei rapporti tra gli uomini). E’ evidente la
faziosità di questo modo di fare storia che pretende sempre e comunque una
prova scritta: la mancanza dell’ordine scritto non può essere usata per «assolvere»
Hitler ed al tempo stesso «condannare»
Pio XII o, viceversa, «condannare»
Hitler ed «assolvere» Pio XII. Se Hitler non
poteva non sapere, è evidente che anche Pio XII non poteva non sapere quanto si
stava facendo nell’intera Chiesa, in Europa, e persino nella sua diocesi di
Roma, per salvare gli ebrei.
L’ordine di Pio XII c’è stato: ecco le prove
Ma siamo poi così sicuri che un ordine diretto di Pio XII
non sia mai stato emanato, benché non se ne sia finora rinvenuto un testo
scritto? Siamo davvero sicuri che non è possibile provarne l’esistenza in
maniera indiretta ma del tutto metodologicamente corretta? In effetti la
ricostruzione da prove indirette dell’esistenza di un diretto ordine di Pio XII
è ormai al vaglio degli storici che sempre più si stanno convincendo della
fondatezza storica di tale ricostruzione. Tante piccole tessere, come in un
mosaico, hanno iniziato a delineare la prova che un ordine fu effettivamente
emanato da Pio XII. Nel settembre 2008 si è tenuto un importante convegno a
Roma, conclusosi con una udienza speciale concessa da Benedetto XVI ai suoi
partecipanti, organizzato dalla Pave the Way Foudation, una organizzazione di
storici presieduta dall’ebreo americano Gary Krupp.
Durante i lavori di tale assise sono stati resi noti diversi documenti
attestanti l’impegno di Pio XII in favore degli ebrei perseguitati dai nazisti,
nonché i rapporti cordiali tra Pacelli e le comunità ebree tedesche quando il
futuro Pio XII era ancora nunzio in Germania. Lo studioso, cattolico, Michael
Hesermann ha documentato in uno studio di circa 300 pagine che Papa Pacelli fu
il più acerrimo, forse l’unico vero, nemico di Hitler in un’Europa che si
dimostrava tentennante verso il nazismo. Il documento più importante esibito
durante i lavori del convegno in questione è un passaggio del «Memoriale
delle Religiose Agostiniane del Venerabile Monastero dei Santissimi Quattro
Coronati di Roma». In tale diario quotidiano della vita claustrale è
contenuta la lapidaria attestazione che fu Pio XII a chiedere ai conventi, alle
istituzioni religiose, finanche agli istituti di clausura, di ospitare gli
ebrei minacciati dalla persecuzione nazista. L’annotazione fu trascritta da una
anonima cronista del monastero che registrava, sul diario della comunità, gli
eventi quotidiani. L’annotazione risale al novembre 1943 ed afferma che un
monsignore si era recato nel monastero latore dell’ordine del Papa affinché
conventi e chiese accogliessero e proteggessero gli ebrei in fuga. Padre Peter
Gumpel, storico gesuita nonché postulatore della causa di canonizzazione di
Eugenio Pacelli, ha definito «importante»
questo documento perché come ha dichiarato: «Io ho vissuto sotto il nazismo in Germania e in Olanda. So bene come, in periodi come quelli, un regime totalitario abbia spie
dappertutto e tutti siano restii a mettere nero su bianco qualsiasi cosa. Molte
cose non si facevano nemmeno per telefono, ma solo a tu per tu. Questo avvenne anche dopo il 16 ottobre 1943 (inizio
dei rastrellamenti di ebrei a Roma, nda).
Non furono mandate carte scritte dal Vaticano, ma dei sacerdoti andavano nelle case religiose a dire: il Papa vuole che si dia rifugio ai
perseguitati politici e agli ebrei» (5).
Tra le carte rese note da Pave the Way vi sono poi documenti diplomatici
che confermano l’avversione di Pio XII a Hitler. E’, ad esempio, del 1939 un
memorandum del console americano a Colonia che riferiva al governo di
Washington sul «nuovo Papa», Pio XII, descrivendolo come persona fermamente
contraria al regime hitleriano. La storica Grazia Loparco ha condotto una
ricerca dalla quale è risultato che gli ebrei salvati in Italia furono oltre
4.500. Soltanto a Roma, su circa 750 case religiose, ben 220 istituti
femminili, e almeno 70 maschili nascosero ebrei. Che tutto questo avvenisse
all’insaputa del Papa è cosa che non regge. Che nell’autunno 1943, con i tedeschi che presidiavano Roma,
molti ordini venivano diffusi verbalmente, grazie ai rapporti e ai contatti che
univano i religiosi della città con sacerdoti e prelati della Santa Sede, è
provato anche da un altro documento del 1° novembre 1943, rinvenuto negli
archivi di Civiltà Cattolica. Si tratta dell’annotazione scritta sul diario
delle «consulte», nel quale annotava quanto
discusso con il Pontefice durante le udienze, dal gesuita padre Giacomo
Martegani, allora direttore della rivista, che attesta immediatamente dopo
essere uscito dall’udienza con Papa Pacelli: «Il Santo Padre s’è interessato al
bene degli ebrei». Questo ulteriore documento, che attesta che l’opera di
salvataggio degli ebrei perseguitati a Roma, dopo la razzia del Ghetto, fu
voluta da Pio XII, è stato rinvenuto dallo storico gesuita padre Giovanni Sale.
Padre Martegani vedeva il Papa due volte al mese per decidere con lui la linea
editoriale di Civiltà Cattolica ed, inevitabilmente, per esaminare la
situazione del momento nella Chiesa e nel mondo. L’annotazione trascritta il 1°
novembre 1943 dal Martegani è altamente significativa per una serie di motivi.
Solo due settimane prima vi era stata la razzia del ghetto ed il rastrellamento
degli ebrei romani. Ma la razzia, come è noto, tranne che al predetto «Trio
Lescano/Quartetto Cetra», ebbe un improvviso stop
il giorno seguente perché Papa Pacelli
aveva fatto convocare l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, Ernst von
Weizsacher, ed era intervenuto in via ufficiosa per bloccare i rastrellamenti.
L’intervento del Papa è ampiamente provato, come ricorda anche padre Gumpel,
perché testimoniato proprio da Weizsacher, che ha, successivamente, riferito
della protesta di Pio XII riguardo alla razzia.
Durante il processo Eichmann nel 1961 il procuratore generale di Stato a
Gerusalemme, Gideon Hausner, ha confermato la testimonianza di Weizsacher: «A Roma - ebbe a dire in quell’occasione
Hausner - il 16 ottobre 1943 fu
organizzata una vasta retata nel vecchio quartiere ebraico. Il clero italiano
partecipò all’opera di salvataggio, i monasteri aprirono agli ebrei le loro
porte. Il Pontefice intervenne personalmente a favore degli ebrei arrestati a
Roma» (6).
Infatti, subito dopo la protesta del Papa, che bloccò temporaneamente il
rastrellamento, i conventi e gli istituti religiosi romani aprirono le loro
porte ai perseguitati. L’Osservatore Romano del 25 - 26 ottobre 1943, ossia il
quotidiano ufficiale della Santa Sede, scriveva, praticamente solo dieci giorni
dopo la razzia del ghetto, che «la carità
del Santo Padre non si arresta davanti ad alcun confine né di nazionalità, né di religione, né di stirpe». Può essere casuale tutto ciò? Alla luce di tutto
questo è possibile seriamente ed onestamente sostenere che il Papa non sapesse
nulla di cosa facevano i cattolici a Roma per salvare gli ebrei o che si
disinteressava di quanto stava accadendo agli ebrei residenti nella sua
diocesi? Non solo: al museo della Liberazione di via Tasso c’è una pergamena
nella quale si ricorda che 155 case religiose ospitarono 4.447 ebrei e che Papa
Pacelli, a tale scopo, concesse appositamente la dispensa alle regole strette
della clausura. Questo pergamena, l’annotazione di padre Martegani e quella sul
diario delle suore del convento romano dei Quattro Coronati dimostrano, sebbene
indirettamente, che l’ordine da parte del Papa per salvare gli ebrei ci fu, anche
se non in forma scritta (7).
Roma: 16 ottobre 1943
Ma come si svolsero esattamente gli eventi del fatidico 16
ottobre 1943. Lasciamo la parola allo storico gesuita Pierre Blet coautore,
insieme a Robert Graham, Angelo Martini e Burkart Schneider, dell’opera in 12
volumi «Actes et Documents du Saint-Siège relatifs à la Seconde
Guerre mondiale» (Città del Vaticano 1965-1982), la più completa raccolta
finora disponibile di documenti dell’Archivio vaticano relativa al periodo
della Guerra. Padre Blet è anche autore di un’opera di sintesi divulgativa dei
predetti 12 volumi, dalla quale traiamo questa ampia e fondamentale pagina
storiografica. Scrive dunque il Blet: «L’occupazione tedesca aveva naturalmente messo
in subbuglio la comunità israelitica di Roma, ma gli ebrei esitavano a fuggire. Al contrario, era il momento in cui i profughi di Francia
si riversavano nell’Urbe, dove
pensavano avrebbero trovato un più sicuro asilo (sui motivi di questo esodo
degli ebrei provenienti dai Paesi occupati dai nazisti verso l’Italia fascista,
nella quale vigevano le leggi razziali, diremo oltre, nell’ultima parte di
questo nostro intervento, nda). Una nota
del 17 settembre, intitolata ‘Temuti provvedimenti contro gli ebrei in
Italia’, conteneva le direttive del
Papa: ‘Studiare se non convenga fare
una raccomandazione in termini generali all’Ambasciata di Germania presso la Santa Sede in favore della popolazione
civile di qualunque razza,
specialmente per i più deboli (donne, vecchi, fanciulli, gente del popolo …)». Il 20 settembre i capi della comunità
israelitica di Roma furono convocati al quartier generale della SS dal tenente
colonnello Herbert Kappler, che
intimò loro di consegnare nelle ventiquatt’ore cinquanta chili d’oro, pena la deportazione immediata per tutti
gli uomini della popolazione ebraica dell’Urbe; era un genere di esazione
cui gli ebrei erano abituati; ma
nonostante gli sforzi disperati,
riuscirono a raccogliere soltanto 35 chili. Il rabbino capo di Roma Zolli si
rivolse direttamente a Pio XII, che
dette ordine di fare il necessario per raccogliere i 15 chili mancanti. I
documenti su questo episodio sono rari. Un promemoria di Bernardino Nogara,
delegato dell’Amministrazione speciale della Santa Sede, riporta, in data 29
settembre, che il rabbino Zolli era
venuto a dirgli che i 15 chili erano stati forniti da ‘comunità cattoliche’: non
aveva dunque più bisogno di un contributo del Vaticano. Intanto, durante i primi giorni di ottobre, gli ebrei di Roma cominciarono a
considerare la possibilità di trovare rifugio nei conventi. Il 1° ottobre
monsignor Montini riferì al Santo Padre che due anziani coniugi ebrei, desideravano ritirarsi presso le Suore
Oblate di via Garibaldi al Gianicolo;
le religiose erano disposte a ricevere la donna, che era malata, ma non il
marito. Il Papa impartì allora le opportune disposizioni per venire in loro
aiuto; e due settimane dopo, quando gli ebrei di Roma, rendendosi conto finalmente dell’imminente pericolo, abbandonarono le loro abitazioni per cercare rifugio presso amici e
simpatizzanti e soprattutto presso le comunità religiose, le barriere della clausura canonica furono
tolte per autorizzare gli uomini ad entrare nei conventi di suore e viceversa.
L a notte tra il 15 e il 16 ottobre 1943 una formazione delle SS, fatta giungere appositamente a Roma qualche
giorno prima, cominciò il rastrellamento
degli ebrei casa per casa, in base a
liste preparate in precedenza. Rimasero vittime della retata circa un migliaio
di israeliti, i quali, dopo essere stati ammassati nell’edificio del Collegio militare sul
Lungotevere, tre giorni dopo, privati di tutto, furono brutalmente stivati in vagoni merci sigillati e spediti in
Germania, dove se ne persero le
tracce. La prima notizia della retata sembra sia stata recata al Papa da una
giovane principessa italiana, Enza
Pignatelli Aragona, la quale di primo
mattino corse in Vaticano, dove il
maestro di camera la introdusse in udienza dal Santo Padre. Non appena in
Vaticano si apprese la notizia, il
cardinale Maglione(ossia il Segretario di Stato di Pio XII, nda) convocò l’ambasciatore della Germania (Weizsacker, nda) e gli parlò, meglio che poté, a nome dell’umanità e della carità cristiana. La prima reazione di questo alto
funzionario del Reich, interiormente
ostile alla politica del suo governo,
fu una confessione personale: ‘Io mi
attendo sempre che mi si domandi: Perché
mai Voi rimanete in cotesto vostro ufficio?’. ‘No - rispose Maglione: Le
dico semplicemente: Eccellenza, che ha un cuore tenero e buono, veda di salvare tanti innocenti. E’ doloroso per il Santo Padre, doloroso oltre ogni dire che proprio a Roma, sotto gli occhi del Padre Comune, siano fatte soffrire tante persone
unicamente perché appartengono ad una stirpe determinata…’. Allora l’ambasciatore pose la seguente domanda pratica: ‘Che farebbe la Santa Sede se le cose
avessero a continuare?’.
Maglione rispose: ‘La Santa Sede non
vorrebbe essere messa nella necessità di dire la sua parola di disapprovazione’.
Weizsacker osservò che fino ad allora la
Santa Sede aveva saputo guidare la barca evitando gli scogli; si chiedeva se ora dovesse metter tutto in
pericolo proprio nel momento in cui stava per giungere in porto; poiché le direttive venivano da molto in
alto. E concluse: ‘Vostra Eccellenza
mi lascia libero di non ‘faire état’
di questa conversazione ufficiale?’. Il cardinale Maglione accettò. Sottolineò
che la Santa Sede aveva sempre fatto attenzione a non dare al popolo tedesco l’impressione di aver fatto o voler fare
alcunché contro la Germania, durante
una guerra terribile. Ma la Santa Sede non doveva esser messa nella necessità
di protestare: qualora fosse stata obbligata a farlo, si sarebbe affidata per le conseguenze alla Divina Provvidenza. E il
cardinale concluse: ‘Vostra Eccellenza
mi ha detto che cercherà di fare qualche cosa per i poveri ebrei. La ringrazio.
Mi rimetto, quanto al resto, al suo giudizio. Se crede più opportuno di
non far menzione di questa nostra conversazione, così sia’. Malgrado la
fiducia che si aveva in Vaticano nell’intervento
dell’ambasciatore, Pio XII volle accrescerne l’efficacia con dei ricorsi ufficiosi. Il
giorno stesso della retata un prelato di origine austriaca, noto per il suo attaccamento al Grande
Reich, monsignor Aloys Hudal, rettore della Chiesa nazionale tedesca di
Roma, ricevette la visita del nipote
di Pio XII, Carlo Pacelli. A seguito
di questo incontro, Hudal scrisse al
generale Stahel, governatore militare
della città, insistendo affinché
sospendesse l’azione contro gli
ebrei. Se gli arresti fossero continuati, avvertiva Hudal, il Papa
avrebbe potuto ricorrere ad una pubblica protesta in un momento in cui la
Germania aveva tutto l’interesse ad
evitarla. Il generale Stahel pare abbia trasmesso subito il messaggio di Hudal
alle autorità competenti ed allo stesso Himmler, che avrebbe dato l’ordine di
sospendere gli arresti, ‘in
considerazione del carattere particolare di Roma’. Tuttavia il ministro d’Inghilterra
Osborne, attribuì piuttosto la
sospensione del rastrellamento all’intervento
del suo collega Weizsacker: ‘Non
appena fu informato degli arresti degli ebrei di Roma, il cardinale segretario di Stato convocò l’ambasciatore della Germania e formulò una sorta di protesta. L’ambasciatore intervenne immediatamente, con il risultato che un buon numero fu
rilasciato’. Osborne precisò al
Foreign Office che la sua informazione era strettamente confidenziale, poiché qualsiasi indiscrezione avrebbe
potuto probabilmente causare nuove persecuzioni. In ogni caso la retata terminò
così bruscamente come era cominciata. Il piano primitivo prevedeva la cattura
di tutti gli ebrei romani stimati in ottomila, ma l’azione lampo del 16
ottobre non fu mai ricominciata. La deportazione dei prigionieri da Roma non
arrestò gli sforzi messi in opera in loro favore dai parenti e dal Vaticano. Si
ricorse di nuovo a padre Tacchi Venturi. Il 25 ottobre 1943 il gesuita riferì
che gli ebrei dell’Urbe desideravano
almeno sapere dove fossero stati trasportati i loro congiunti. L’indomani il rabbino David Panzieri, che faceva le veci del rabbino capo Zolli, presentò la richiesta di poter inviare ai
deportati degli indumenti pesanti, in
vista dell’inverno che si avvicinava.
Ma il 1° novembre, il senatore
Riccardo Motta informò monsignor Montini di essersi recato, al momento della cattura degli ebrei, dal generale Stahel, il quale dopo avergli espresso la sua
estraneità alle azioni di polizia, un
po’ più tardi gli aveva fatto
comunicare che non vi era alcuna speranza: ‘Questi ebrei non ritorneranno mai più alle loro case’. Nondimeno, Maglione rivolse una nota ufficiale all’ambasciata tedesca,
sollecitando informazioni e chiedendo inoltre se fosse possibile inviare
qualche aiuto materiale ai deportati ebrei di Roma. Il 15 novembre Weizsacker
comunicava che avrebbe potuto fare poco o nulla, anche solo per ottenere notizie» (8).
Il conflitto tra Pacelli
ed Hitler
Di fronte alla crescente tragedia che insanguinava il mondo,
il Papa nel Natale del 1942 non solo condannò fermamente i regimi totalitari ma
espresse anche un esplicito riferimento alla sorte di «centinaia di migliaia di persone, le quali senza veruna colpa,
talora solo per ragioni di nazionalità o di stirpe sono destinate alla morte o
a progressivo deperimento».
Il Papa non denunciò esplicitamente lo sterminio degli ebrei perché nel 1941-42
di ciò si avevano solo rare e contraddittorie notizie che certo non potevano
giustificare un incidente diplomatico con il rischio di mettere a repentaglio
la sorte dei cattolici in Germania e nei Paesi occupati dai nazisti (ed è
questo che i detrattori di Pio XII non ammettono: secondo loro il Papa non
avrebbe dovuto tener conto dei suoi figli cattolici solo per intervenire in
favore degli ebrei senza che in quel momento vi fosse prova di uno sterminio).
Solo dal 1943, infatti, inizieranno a circolare gradualmente informazioni via
via sempre più esaurienti. Ma i leader nazisti compresero immediatamente il
senso delle parole di Pacelli nel Natale 1942: «E’ un capolavoro di
travisamento clericale della concezione del mondo nazionalsocialista»,
dichiarò l’organo ufficiale del Partito Nazista.
Questo testimonia
dell’irriducibile conflitto che intercorreva tra Pio XII ed Hitler, segnato
anche da episodi inconsueti per un Papa come il tentato esorcismo a distanza
sul dittatore tedesco. Non meraviglia dunque che da parte di Hitler si
progettò, e per un momento si pensò seriamente di eseguire, la deportazione di
Papa Pacelli in Germania, sull’esempio di quanto avevano già fatto i giacobini
nel 1799 con Pio VI e poco più tardi Napoleone con Pio VII. Dei piani nazisti
per «allontanare» Papa Pacelli dalla Santa
Sede nelle ultime fasi del secondo conflitto mondiale, ne aveva già parlato nel
1972 l’ex-generale delle SS Karl Wolf, scomparso nel 1984, riferendo del
contenuto del suo incontro con Pio XII del 10 maggio del ‘44. Il suo racconto è
stato però ritenuto privo di sicuri riscontri. Ma recentemente sono emersi
riscontri oggettivi circa un piano organizzato dal Reichssicherheitsamt
(Quartier generale per la sicurezza del Reich) di Berlino dopo il 25 luglio ‘43.
Il testimone chiave in proposito, detentore anche di probanti documenti fatti
visionare agli storici, è Niki il figlio, oggi lucidissimo 72enne, del barone
Wessel Freytag von Loringhoven che rivestì nella vicenda un ruolo importante.
Il 29 luglio 1943, Wessel Freytag von Loringhoven accompagnò l’ammiraglio
Canaris, capo del controspionaggio tedesco, ad un incontro con il capo del SIM
(Servizio Informazioni Militari) dell’esercito italiano, generale Cesare Amé.
L’incontro si svolse a Venezia, all’hotel Danieli. La missione di Canaris,
siamo nel periodo del governo Badoglio tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943,
era quella di saggiare la consistenza effettiva della fedeltà dell’alleato
italiano. Sia Canaris che von Loringhoven e von Lahousen, un altro degli
accompagnatori di Canaris, avevano raccolto presso il Reichssicherheitsamt,
sede della Gestapo a Berlino, voci concrete sulla volontà del führer di
vendicarsi degli italiani, che avevano arrestato Mussolini, colpendo il re e il
Papa. Deportazione o morte erano le parole che i tre esponenti del
controspionaggio avevano sentito pronunciare. In una deposizione al processo di
Norimberga il 1° febbraio del ‘46 Lahousen ha fornito anche dei particolari
riportati a verbale sotto il titolo «Warnreise - Testimony 1330-1430».
Lahousen ha riferito, sempre a Norimberga, anche della reazione di Freytag von
Loringhoven: «E’ una vera vigliaccheria! Bisognerebbe avvertire gli italiani!». Non
deve meravigliare questa reazione perché sia von Loringhoven che Canaris
facevano parte di quella resistenza di destra, nazionalconservatrice, al
nazismo che di lì a poco avrebbe trovato in von Stauffenberg l’uomo disposto ad
organizzare il, poi fallito, colpo di Stato con l’attentato ad Hitler al
quartiere generale di Rastenberg il 20 luglio 1944. Sempre secondo Lahousen, lo
scopo prioritario del volo a Venezia, al di là delle motivazioni ufficiali, fu
soprattutto il tentativo di far sapere agli italiani i progetti di Hitler verso
il re e Papa Pacelli. L’incontro, come detto, avvenne in una sala riservata
dell’hotel Danieli. Canaris ed Amé si intrattennero insieme a lungo ma nulla è
trapelato dei loro scambi d’opinione. Nel pomeriggio del 30 luglio, invece, Amé
e i due colonnelli, von Loringhoven e von Lahousen, passeggiarono a lungo al
Lido e l’argomento centrale di questi altri colloqui fu proprio l’avvertimento
circa i progetti nazisti relativi alla deportazione in Germania del sovrano e
di Pio XII. Amé, rientrato a Roma, fece spargere la voce sui nefasti progetti
di Hitler verso il re e Pio XII. Tali voci giunsero anche all’ambasciatore del
Reich presso la Santa Sede, Ernst von Weisäcker, che si precipitò a chiedere informazioni
ai suoi superiori.
Egli ne ha riferito nel suo libro «Erinnerungen»
(Ricordi) del 1950. Incontrò immediatamente il feldmaresciallo Kesserling,
quindi Kappler a Roma, e poi Wolf a Milano. Tentò di avere notizie più precise
anche a Berlino presso l’ufficio di Martin Bormann, capo della segreteria di
Hitler. Infine chiese spiegazioni allo stesso Canaris. Il capo del
controspionaggio tedesco non poté evidentemente dare a von Weisäcker una
risposta affermativa, senza esporsi per questo al rischio della vita e si
disse, come tutti gli altri, all’oscuro di piani per deportare Pio XII. E
tuttavia una cosa l’incontro tra Canaris ed Amé era riuscita ad ottenere: ormai
le voci su quei piani erano diventate pubbliche ed i progetti segreti per
colpire il Santo Padre, ormai di dominio pubblico, furono abbandonati. Questo,
forse, spiega anche quanto ebbe a dire nell’apparizione in quel di Ghiaie di
Bonate, nei pressi di Bergamo, nel 1944, apparizione a suo tempo non
riconosciuta ma sulla quale le competenti autorità ecclesiali hanno nel 1999
riaperto il procedimento di verifica, la Santa Vergine ad una piccola veggente:
«Comunica a tutti che il Santo Padre
soffre molto per le sciagure di questa guerra e molto ancora dovrà soffrire, ma resterà sempre in Vaticano e nessuno lo
toccherà». Von Lahousen riuscì a sfuggire alle retate contro i congiurati
del 20 luglio ‘44 e fu fatto prigioniero dagli americani. Il servizio segreto
inglese lo interrogò per alcuni mesi e quindi fu liberato. Canaris, invece, fu
arrestato 3 giorni dopo l’attentato di von Stauffenberg e impiccato nel campo
di concentramento di Flossenburg il 9 aprile ‘45. Il barone Wessel Freytag von
Loringhoven, il 26 luglio ‘44, avvertito che la Gestapo stava venendo ad
arrestarlo e ben conoscendo i metodi di interrogatorio a cui sarebbe andato
incontro, preferì suicidarsi con la pistola d’ordinanza. Aveva 45 anni e
lasciava quattro figli in giovane età, tra cui Niki (9).
I presunti silenzi e l’Enciclica nascosta
Padre Gumpel ha di recente ricordato i tanti discorsi
pubblici di Pacelli contro il nazismo e il razzismo, come «l’allocuzione
natalizia del 1942», per evidenziare che la questione del silenzio di Pacelli è
del tutto viziata da preconcetti ideologici e religiosi. Dal canto suo lo
storico e biografo di Winston Churchill, l’inglese Martin Gilbert, di origini
ebraiche, ritiene che il cosiddetto «silenzio di Pio XII»
ha permesso di salvare molti più ebrei di una esplicita condanna (10).
I presunti silenzi di Papa Pacelli sono solo un argomento
fazioso e pretestuoso. Infatti se Pio XII avesse tenuto un atteggiamento di
conclamata denuncia pubblica, anziché quello più proficuo alla salvezza di vite
umane del silenzio attivo ed operoso, ora gli stessi suoi detrattori, che oggi
lo accusano di passività, lo accuserebbero di aver provocato, in barba alla
sorte delle povere vittime, con le sue pubbliche denunce, la rabbia nazista
aumentandola a dismisura. Lo stesso padre Gumpel, in una intervista recente su
Il Messaggero del 22 dicembre scorso, ha ricordato dell’appello giunto in
Vaticano nel 1943 da parte dei vescovi polacchi affinché il Papa si astenesse
da pubbliche denunce che avrebbero solo peggiorato la situazione. Nella stessa
intervista, Gumpel ricorda di essere stato testimone diretto in Olanda, dove
ragazzo, in quegli anni tragici, era esule con la famiglia, dell’intensificarsi
della persecuzione nazista, che fino a quel momento, per evitare conflitti con
la Chiesa, aveva risparmiato gli ebrei battezzati (ed i falsi certificati di battesimo
fioccavano copiosi dalla sacrestie per gli ebrei che li richiedevano) nonché
chiese e conventi, a seguito della pubblica denuncia della persecuzione
antiebraica effettuata dall’episcopato cattolico olandese (nelle seguenti
retate, che, come detto, non risparmiarono neanche conventi e chiese, fu
catturata anche Edith Stein, oggi Santa, ebrea convertitasi al Cattolicesimo,
che poi morì internata in un campo di concentramento, già allieva di Husserl e
di Heidegger, quest’ultimo simpatizzante dell’hitlerismo, e nota filosofa ella
stessa).
Benedizione di Papa Pio XII ad un americano. Il Cardinale Francis J. Spellman e Monsignor Enrico Dantes sullo sfondo, 1950
I detrattori di Pacelli, come ad esempio lo storico Luciano Canfora, citano
sempre, quale presunta prova del filonazismo di Pacelli, la cosiddetta «enciclica
nascosta». Si tratta di una enciclica contro la discriminazione e
la persecuzione razziale, direttamente finalizzata alla condanna del regime
nazista, commissionata da Pio XI che però, causa morte, non ebbe il tempo di
firmarla e pubblicarla. Pacelli, dicono i suoi detrattori, che se la trovò sul
tavolo, non appena eletto Pontefice, l’archiviò. Ma a proposito della presunta «enciclica
nascosta» di Pio XII, Luciano Canfora e gli altri detrattori di
Pacelli non ricordano mai, a dispetto dell’onestà intellettuale che dovrebbe
caratterizzare ogni storico, che la Humani generis unitas (così essa si sarebbe
dovuta chiamare), redatta dai teologi LaFarge, Desbuquois e Gundlach su
incarico di Papa Ratti, oltre ad una chiara e netta condanna dell’antisemitismo
razziale conteneva, però, anche un’altrettanto chiara e netta riaffermazione
del tradizionale antigiudaismo religioso cristiano. E fu questo il motivo per
il quale Pio XII ritenne di non pubblicarla. Perché in anni nei quali in Europa
imperversava l’antisemitismo nazista un tale documento sarebbe stato senz’altro
strumentalizzato da Hitler e soci.
La malafede oggi, come si è detto, usa come prova del presunto filonazismo di
Papa Pacelli l’«enciclica nascosta». Ed invece proprio la
mancata pubblicazione di tale documento dimostra chiaramente che Papa Pacelli
tutto era tranne che simpatizzante nazista e che egli non voleva dare pretesti «teologici»
all’antisemitismo razziale. Se Pio XII avesse pubblicato tale enciclica oggi
essa sarebbe il principale capo di accusa contro di lui. Infatti i suoi
malfidati detrattori gli imputerebbero la pubblicazione di un documento che in
quelle condizioni storiche si prestava ad essere usato dalla propaganda di
Goebbels. Canfora e gli altri detrattori di Pio XII, poi, non dicono che la
parte non suscettibile di equivoci dell’Humani generis unitas, ossia quella
tesa a riaffermare l’unità di natura dell’intero genere umano, fu ripresa da
Pio XII nella sua prima enciclica, quella nella quale esponeva il programma del
suo Pontificato, ossia la Summi Pontificatus del 20 ottobre 1939. In essa Pio XII
affermava, con tono quasi dogmatico, che la visione cristiana: «…
ci fa contemplare il genere umano nell’unità di una comune origine in Dio: un solo Dio e Padre di tutti, Colui che è sopra tutti e per tutti e in
tutti».
Un noto opinionista, egli stesso di origini ebraiche, Paolo Mieli, allievo di
Renzo De Felice e già direttore del Corsera, criticabile, anche noi lo abbiamo
aspramente criticato su molte sue posizioni, è però onesto quando riconosce,
lui non cattolico, la santità di Papa Pacelli. In una intervista dell’anno
scorso, a proposito dei presunti silenzi di Pio XII e del diverso atteggiamento
del mondo ebraico dell’immediato dopoguerra, ossia di quello che fu diretto
testimone dell’opera di carità di quel Papa, così diceva:
«Uno dei rimproveri portati al cardinale Pacelli, segretario di Stato di Pio XI, è stato quello di averne attenuato le
condanne del nazionalsocialismo. Tra le tante accuse - secondo me non del tutto
giustificate - che ha ricevuto Pacelli c’è stata anche quella di aver smussato, di aver attenuato i toni dell’enciclica
‘Mit Brennender Sorge’. In realtà, esaminando sotto il profilo storico l’attività di Papa Pacelli, ricorderei
alcuni particolari. Quando iniziò la guerra egli criticò l’apatia della Chiesa francese sotto la
dominazione nazista nella Francia di Vichy; poi criticò l’antisemitismo, quello sì evidente, del monsignore slovacco Josef Tiso (su Tiso il giudizio di Mieli è
errato, si veda sotto quanto ne scriviamo noi, nda); diede - come ben raccontato in un libro di Renato Moro, ‘La Chiesa e lo sterminio degli ebrei’, Il Mulino - la propria disponibilità e
addirittura una mano, con decisione
rischiosissima, a dei complotti
contro Hitler tra il 1939 e il 1940. Continuo: quando nel giugno 1941 l’Unione
Sovietica fu invasa dalla Germania, c’era una certa resistenza nel mondo
occidentale a stringere accordi con chi fino a quel momento aveva combattuto la
guerra dalla parte della Germania nazista. Pio XII invece si diede molto da
fare per facilitare un’alleanza fra
Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione
Sovietica. E infine il capitolo più importante: durante l’occupazione
nazista di Roma - come raccontato ad esempio in due libri, quello famoso di Enzo Forcella (‘La resistenza in convento’, Einaudi) e l’altro appena uscito di
Andrea Riccardi (‘L’inverno più lungo’, Laterza) - la Chiesa mise a
disposizione tutta se stessa: quasi
ogni basilica, ogni chiesa, ogni seminario, ogni convento ospitò e diede una mano agli ebrei. Tant’è che a Roma, a fronte dei duemila ebrei deportati, diecimila riuscirono a salvarsi. Ora, non voglio dire che tutti quei diecimila li salvò la Chiesa di Pio XII, però senz’altro la Chiesa contribuì a salvarne la maggior parte. Ed è impossibile
che il Papa non fosse a conoscenza di quello che facevano i suoi preti e le sue
suore. Il risultato fu che per anni,
anni e anni - ci sono decine di citazioni possibili - personalità
importantissime del mondo ebraico hanno riconosciuto questo merito intestandolo
esplicitamente a Pio XII. Di queste testimonianze si è persa ormai quasi
traccia. Ne ha parlato, ad esempio, un bel libro di Andrea Tornielli (‘Pio XII il papa degli ebrei’, Piemme). E’ una letteratura molto
vasta di cui vorrei fornire qualche scampolo. Nel 1944 il gran rabbino di
Gerusalemme, Isaac Herzog, dichiara: ‘Il popolo d’Israele non
dimenticherà mai ciò che Pio XII e i suoi illustri delegati, ispirati dai principi eterni della
religione che stanno alla base di un’autentica
civiltà, stanno facendo per i nostri
sventurati fratelli e sorelle nell’ora
più tragica della nostra storia. Una prova vivente della divina provvidenza in
questo mondo’. Nello stesso anno,
il sergente maggiore Joseph Vancover
scrive: ‘Desidero raccontarvi della
Roma ebraica, del gran miracolo di
aver trovato qui migliaia di ebrei. Le chiese, i conventi, i frati e le
suore e soprattutto il Pontefice sono accorsi all’aiuto e al salvataggio degli ebrei sottraendoli agli artigli dei
nazisti, e dei loro collaborazionisti
fascisti italiani. Grandi sforzi non scevri da pericoli sono stati fatti per
nascondere e nutrire gli ebrei durante i mesi dell’occupazione tedesca. Alcuni religiosi hanno pagato con la loro vita per
quest’opera di salvataggio. Tutta la
Chiesa è stata mobilitata allo scopo,
operando con grande fedeltà. Il Vaticano è stato il centro di ogni attività di
assistenza e salvataggio nelle condizioni della realtà e del dominio nazista’. Cito poi da una lettera dal fronte italiano
del soldato Eliyahu Lubisky, membro
del kibbutz socialista Bet Alfa. Fu pubblicata sul settimanale ‘Hashavua’ il 4 agosto 1944: ‘Tutti i
profughi raccontano il lodevole aiuto da parte del Vaticano. Sacerdoti hanno
messo in pericolo le loro vite per nascondere e salvare gli ebrei. Lo stesso Pontefice
ha partecipato all’opera di
salvataggio degli ebrei’. Ancora, 15 ottobre 1944. Registriamo la relazione
del commissario straordinario delle comunità israelitiche di Roma, Silvio Ottolenghi: ‘Migliaia di nostri fratelli si sono salvati
nei conventi, nelle chiese, negli extraterritoriali. In data 23 luglio
ho avuto l’ordine di essere ricevuto da Sua Santità al quale ho portato il
ringraziamento della comunità di Roma per l’assistenza eroica e affettuosa fattaci dal clero attraverso i conventi
e i collegi... Ho riferito a Sua Santità il desiderio dei correligionari di
Roma di andare in massa a ringraziarlo. Ma tale manifestazione non potrà essere
fatta che alla fine della guerra per non pregiudicare tutti coloro che al nord
hanno ancora bisogno di protezione (…).E’ dal 1963 che sono stati accesi i riflettori
su Pio XII alla ricerca delle prove della sua colpevolezza e non è venuto fuori
niente. Anzi, gli studi hanno portato
alla luce una documentazione molto copiosa che attesta come la sua Chiesa diede
agli ebrei un aiuto fondamentale. Mi ricordo a questo proposito un gesto molto
bello: nel giugno 1955 l’Orchestra Filarmonica d’Israele chiese di poter fare un concerto in
onore di Pio XII in Vaticano per esprimere gratitudine a questo Papa e suonò
alla presenza del Papa un tempo della settima sinfonia di Beethoven. Questo era
il clima. E allorché il Papa morì,
Golda Meir - ministro degli Esteri d’Israele
e futuro premier - disse: ‘Quando il
martirio più spaventoso ha colpito il nostro popolo durante i dieci anni del
terrore nazista, la voce del
Pontefice si è levata in favore delle vittime. Noi piangiamo la perdita di un
grande servitore della pace’. La voce
del Pontefice per qualcuno non si era levata, ma loro l’avevano udita.
Capito? Golda Meir aveva udito la sua voce. E William Zuckermann, direttore della rivista ‘Jewish Newsletter’, scrisse: ‘Tutti gli ebrei d’America rendano omaggio ed esprimano il loro
compianto perché probabilmente nessuno statista di quella generazione aveva
dato agli ebrei più poderoso aiuto nell’ora
della tragedia. Più di chiunque altro noi abbiamo avuto il modo di beneficiare
della grande e caritatevole bontà e della magnanimità del rimpianto Pontefice
durante gli anni della persecuzione e del terrore’. Così è stato considerato Pio XII per anni, per decenni. Erano forse tutti pazzi? No, anzi, erano coloro che avevano
subito le persecuzioni di cui Pio XII è incolpato come complice. Se noi lo
prendiamo come un caso storiografico,
quello della leggenda nera è pazzesco. Però io penso che, a parte qualche polemista, ogni storico degno di questo nome si
batterà - anche nel caso di persone come me che non sono cattolico - per
ristabilire la verità» (11).
Una testimonianza artatamente
rimossa
Ma la testimonianza più efficace a favore della santità e
della carità di Papa Pacelli proviene proprio dal mondo ebraico della sua
epoca. E non a caso essa è stata prima silenziata e poi rimossa. Parliamo della
straordinaria figura del rabbino capo di Roma, negli anni della Guerra, nonché
grande biblista, le cui opere di esegesi biblica ancora oggi sono studiate,
Israel Zolli, e del suo itinerario di adesione alla Fede in Cristo. Un
itinerario nel quale un ruolo notevole fu rivestito anche dall’opera di
misericordia di Pio XII verso gli ebrei, della quale Zolli fu testimone e che,
insieme ad altri eventi anche di natura soprannaturale, come la visione di
Cristo durante l’ultimo ufficio da lui celebrato in sinagoga, lo spinsero ad
abbracciare la fede cattolica, con grande scandalo della sinagoga. La Guerra
era ancora in corso, quando il 14 febbraio 1945 le agenzie di stampa
comunicarono la notizia che il giorno precedente il professore Israel Zolli, gran
rabbino di Roma, si era convertito al cattolicesimo, ricevendo il Battesimo. La
notizia suscitò incredulità, sdegno, commozione, odio e pressioni inenarrabili
su Zolli affinché tornasse sui suoi passi. Israel Zoller, questo il suo nome
ebraico, poi italianizzato in Zolli, era nato il 17 settembre 1881 a Brodj in
Galizia, Polonia. Figlio di un ebreo polacco, la madre era di famiglia
rabbinica e si adoperò per prepararlo agli studi ed alla carriera di rabbino.
Era per l’appunto ancora un giovane studente in una scuola rabbinica, quando,
in casa di un compagno cattolico, profondamente colpito dal Crocifisso appeso
alla parete iniziò a domandarsi sul «Perché gli Ebrei lo
crocifissero?».
Quell’Uomo sofferente sulla Croce non gli dava affatto l’idea, comune tra gli
ebrei all’epoca, di un impostore o di un traditore dell’ebraismo. Fu per questo
che iniziò a studiare il Vangelo, donatogli da amici cristiani. Si fece così
evidente all’intelligenza di Zolli che soltanto in Cristo poteva identificarsi
il «Servo sofferente di Jahvé» descritto
dal Deutero-Isaia nei quattro canti di cui ai capitoli 42-49 e 50-53 di quel
Libro veterotestamentario (12).
Questa scoperta, della quale andava ogni giorno di più convincendosi proprio
sulla base dei suoi studi esegetici, lo spinse, inquieto, ad indagare ancora di
più il Mistero dell’Uomo Crocifisso mentre continuava gli studi di filosofia e
quelli rabbinici prima a Vienna e poi a Firenze. A soli 30 anni nel 1911 fu
nominato vice-rabbino di Trieste. Qui continuò la sua personale riflessione sul
Libro di Isaia: ogni ipotesi alternativa a quella dell’identificazione del «Servo
sofferente» con altri che non con Cristo cadeva, dopo indagine
rigorosa, miseramente.
Nel 1917 la prima delle esperienze di ordine mistico che segnarono la sua vita.
Egli stesso ebbe a raccontare che in un pomeriggio d’estate, mentre studiava
ancora una volta il passo di Isaia, «la
penna mi cadde dalla mano e dal fondo del
cuore proruppe una invocazione spontanea: ‘Cristo, salvami!»».
Da quel momento fu del tutto certo che il «Servo di Jahvé»
è solo Gesù, crocifisso e poi risorto. Nel 1920 Israel Zoller fu nominato
Rabbino Capo di Trieste e sposò Emma Majonica dalla quale ebbe una figlia,
Myriam. Esse più tardi lo seguirono nella conversione a Cristo. Nel 1933 prese
la cittadinanza italiana, cambiando il cognome Zoller in Zolli.
Proprio in questi anni iniziò a scrivere un bellissimo libro intitolato «Il
Nazareno» dedicato alla figura di Cristo nel contesto ebraico (13). Gli fu data la cattedra di Lingua
e Letteratura ebraica all’Università di Padova che dovette poi lasciare a
seguito delle leggi razziali per però assumere, nel 1940, la carica di Gran
Rabbino a Roma. All’arrivo dei tedeschi a Roma dopo l’8 settembre 1943, Zolli
che, forte anche della sua conoscenza diretta di quanto di pericoloso per gli
ebrei si agitava in Europa in quegli anni, aveva già intuito come sarebbe
andata a finire, si scontrò con le autorità civili della stessa comunità ebraica
romana che, al contrario, tendevano a minimizzare i pericoli. Iniziò in questo
momento la fase più cruciale della sua vita, che sfocerà finalmente nell’aperta
conversione e nel riconoscimento della Divino-Umanità di Cristo. Ricercato
durante il rastrellamento al ghetto di Roma riuscì fortunosamente a mettersi in
salvo. Ma, proprio poco prima era accaduto l’evento che fece rifulgere ai suoi
occhi la grandezza spirituale e la carità di Pio XII contribuendo ulteriormente
alla sua decisione per Cristo.
Il 27 settembre 1943, il colonnello delle SS Herbert Kappler, capo dei servizi
di Polizia nella Roma occupata, pretese dalla comunità ebraica, entro 24 ore la
consegna di 50 kg d’oro, minacciando la deportazione in Germania in caso di
inadempienza. Gli ebrei romani racimolarono tutto quello che potevano, ma a
fine giornata mancavano ancora 15 kg d’oro. Fu allora che Zolli si recò da Papa
Pio XII per chiedere il suo aiuto ed il Pontefice diede immediata disposizione
che gli fosse dato quanto richiesto. Nel frattempo, però, gli ebrei romani
erano riusciti da soli a racimolare l’oro mancate, ma la grande carità mostrata
da Papa Pacelli fu per Zolli la prova
definitiva della Verità di Cristo, che egli, in quel frangente, vide
impersonato dalla persona del Pontefice. Comunque, la raccolta dell’oro fu del
tutto inutile perché i nazisti, pur avendo ottenuto quanto chiedevano,
attuarono egualmente, come è noto, tra il 15 ed il 16 ottobre 1943, il
rastrellamento e la deportazione di duemila ebrei romani. Zolli, come detto,
fortunosamente scampò al rastrellamento. All’arrivo degli americani a Roma, il
4 giugno 1944, Israel Zolli riprese il posto di Gran Rabbino e nel successivo
luglio celebrò una solenne cerimonia nella Sinagoga, che fu radiotrasmessa,
durante la quale espresse pubblicamente a nome di tutta la comunità ebraica
romana riconoscenza a Pio XII per l’aiuto dato agli ebrei. Il 25 luglio 1944
Zolli si recò in udienza in Vaticano per ringraziare ufficialmente il Papa per
quanto egli, personalmente o attraverso le organizzazioni cattoliche, aveva
fatto in favore degli ebrei, ospitandoli o nascondendoli in conventi e
monasteri e salvandone così un gran numero (si calcola che la decisione del
Papa di aprire le porte di chiese e conventi salvò circa 850.000 ebrei in tutt’Europa).
Il successivo 15 agosto 1944, festa dell’Assunzione della Vergine, Zolli si
recò da padre Paolo Dezza, gesuita dell’Università Gregoriana, chiedendogli
l’acqua del Battesimo. In una successiva intervista avrebbe spiegato così il
suo gesto: «Quando ho visto la mia anima
che traboccava di Cristianesimo, pur
conservando infinita carità per le sofferenze del mio popolo, mi sono convinto che sarebbe stato
disonesto proseguire per una via che non era più la mia». Nel settembre
1944, celebrò per l’ultima volta la festa dell’Espiazione nella Sinagoga
romana. Fu durante questa celebrazione che, come racconta nella sua
autobiografia (14), ebbe una visione
di Cristo che lo benediva. Poi si dimise dalla carica di Gran Rabbino e, come
detto, il 13 febbraio 1945 ricevette il Battesimo nella Cappella annessa alla
sacrestia della Chiesa di Santa Maria degli Angeli a Roma, per le mani di monsignor
Traglia, vicegerente di Roma. Prese come nome di battesimo quello di Eugenio
Pio, per pubblica riconoscenza verso Pio XII (Eugenio Pacelli). La moglie Emma
prese il battesimo con il nome di Maria in onore della Madonna. Furono
raggiunti nella fede cristiana dopo un anno anche dalla figlia Myriam.
Agli ebrei che lo accusavano di essere un serpente in seno alla comunità israelitica,
il settimanale ebraico uscì addirittura stampato a lutto, egli tentò di
spiegare la sua decisione scrivendo loro queste parole : «Il mio Dio si è rivelato al mondo, dopo Mosè e i Profeti, in
Gesù Cristo. Io sento per Gesù un amore ardente, fiammeggiante e per amore di Gesù Cristo ho rinunciato a tutto… Nulla
chiesi e nulla ebbi da voi. Vi amo tuttora nel nome del Signore».
Il 4 marzo 1945 si recò in udienza da Papa Pacelli per esternargli la sua
devozione, come nuovo figlio della Chiesa cattolica. Anziano, sofferente e
povero, ma felice, iniziò una vita cristiana fervente. Assisteva ogni mattina
alla celebrazione della Santa Messa, si comunicava e stava ore in prolungata
preghiera perché diceva: «Si sta bene in
cappella con il Signore, che non vorrei
mai uscirne». Ai cattolici che lo avvicinavano era solito ripetere: «Voi che siete nati nella religione cattolica, non vi rendete conto della fortuna che
avete avuto di ricevere fin dall’infanzia
la fede e la grazia di Cristo; ma chi
come me, è arrivato alla fede dopo un
lungo travaglio di anni, apprezza la
grandezza del dono della fede e sente tutta la gioia di essere cristiano».
Riavuta, abrogate le leggi razziali, la sua cattedra universitaria, iniziò, tra
quelli dei suoi ex correligionari ebrei che si dimostravano intenzionati a
meglio conoscere Cristo, un’opera intensa di apostolato. Contemporaneamente
diventò il principale testimone della carità di Pacelli e il più strenuo
difensore della sua memoria. Tuttavia, pur non negando che il comportamento di
Pio XII in occasione degli eventi accaduti durante l’occupazione tedesca di
Roma avesse avuto il suo peso nella sua decisione verso il gran passo della
conversione, proprio perché fu, quello del Papa, un comportamento nel quale
rifulse la Luce di Cristo, Zolli dichiarò sempre che la conversione restava
comunque l’esito di grazia di un lungo percorso iniziato sin da quando,
ragazzo, si poneva domande circa l’Uomo del Crocifisso in casa dei suoi amici
cristiani. Lo studio delle Scritture lo avevano portato a cogliere i semitismi
avvertibili dietro il greco del Nuovo Testamento, prova tra tante altre della
storicità dei Vangeli. Ma soprattutto ad identificare, come detto, l’isaiano «Servo
sofferente» nel Cristo crocifisso. In proposito ammoniva i suoi antichi
confratelli: «O il Servo di Jahvé è Colui
che la Chiesa cattolica ha riconosciuto e onorato fin da principio e riconosce
tuttora come Figlio di Dio, o tutto è
un caos e cadono tutte le Scritture». Riguardo a Papa Pacelli affermava: «Io non ho esitato a dare una risposta
negativa alla domanda se mi fossi convertito per gratitudine a Pio XII, per i suoi innumerevoli atti di carità. Ciò
nonostante, sento il dovere di
rendergli omaggio e di affermare che la
carità del Vangelo fu la luce che mostrò la via al mio cuore vecchio e stanco. E’ quella carità che tanto spesso brilla nella
storia della Chiesa e che rifulge nell’opera
del Pontefice regnante».
Zolli morì a Roma il 2 marzo 1956 a 75 anni. Nello stesso giorno dell’80°
compleanno del suo grande amico Pio XII. Se oggi fosse vivo, Zolli sarebbe
esterrefatto ed indignato delle posizioni faziose del »Trio Lescano»
e ne sarebbe, con la sua testimonianza dal «vivo», il più
acerrimo confutatore. Sarebbe la prova vivente della grande carità di Pio XII
di fronte alla quale anche la protervia arrogante del «Trio»
dovrebbe pudicamente tacere. E’ per questo che, da parte ebraica, si è fatto di
tutto per rimuovere la memoria di Zolli, senza che, purtroppo, da parte
cattolica, una nostra colpa inescusabile, si sia fatto molto per maternale
viva.
Intempestività di Benedetto
XVI?
I contestatori di parte ebraica della decisione di Benedetto
XVI di sbloccare l’iter di canonizzazione di Papa Pacelli lamentano, come
abbiamo già ricordato, che tale decisione arriva in modo intempestivo rispetto
alla data di apertura degli Archivi Vaticani relativi al periodo della seconda
guerra mondiale e del pontificato di Pio XII. Nel suo discorso in occasione
della Pentecoste del 13 giugno 1943, Papa Pacelli, riferendosi alla propaganda
menzognera che lo voleva ora l’alleato di una delle parti in conflitto ora
dell’altra, fece una «profetica»
affermazione che sembra dettata proprio dalla intricata e complicata situazione
internazionale, quella stessa che, non solo a lui, aveva suggerito la via
obbligata del silenzio, però attivo nell’aiuto agli ebrei, e che invita oggi
noi tutti, se onesti, ad andare oltre gli aspetti contingenti. Disse, in
quell’occasione, Papa Pacelli: «La Chiesa
non teme la luce della verità, né per
il passato, né per il presente, né per il futuro. Quando le circostanze dei
tempi e le passioni umane permetteranno o richiederanno la pubblicazione di
documenti, non ancora resi di
pubblica ragione, concernenti la
costante azione pacificatrice della Santa Sede, non timida dei rifiuti e delle resistenze durante questa immane guerra, apparirà in luce più che meridiana la
stoltezza di tali accuse».
Un’affermazione che vale anche, di riflesso, per quel che riguarda il suo
atteggiamento nel frangente della persecuzione antiebraica. Ora, è proprio
questa serena consapevolezza che ha mosso Benedetto XVI, già al corrente dei
risultati delle ricerche da lui stesso fatte portare ad ulteriore
approfondimento sulla documentazione contenuta nell’Archivio Vaticano, a
rimuovere ogni ostacolo, di tipo storico, sulla via della beatificazione di
Eugenio Pacelli. Solo un anno fa, infatti, nel dicembre 2008, Benedetto XVI
dichiarava pubblicamente: «Pio XII spesso
agì in modo silenzioso e discreto perché, alla luce delle situazioni di quella complessa fase storica, intuì che solo così si poteva evitare il
peggio e salvare il più gran numero possibile di ebrei». Una affermazione
fatta con la sicurezza di chi sa perfettamente che i documenti d’archivio, una
volta che, concluso il loro riordino sistematico, saranno resi accessibili agli
storici, gli daranno ampia ragione (15).
Padre Gumpel conferma la certezza di Benedetto XVI: «Sono sempre più convinto - ha detto - della santità di questo grande Papa (Pacelli,
nda) e certamente se avessi scoperto nell’Archivio Segreto vaticano qualsiasi
documento che potesse minare la sua causa di beatificazione, sarei stato il primo a denunciare la cosa.
E poi mi chiedo come mai - ora che gli Archivi Vaticani sono aperti fino al
febbraio 1939 - non si accede a questi documenti. Si conoscerebbe un Pacelli
nunzio in Baviera e segretario di Stato sotto Pio XI molto diverso da quello
raffigurato da Rolf Hochhuth nel suo dramma ‘Il Vicario’ (si tratta della piéce teatrale, commissionata nel 1963
da Mosca, con la quale iniziò l’opera di sistematica diffamazione della venerabile
memoria di Pio XII, nda). Ci sono tanti
documenti inediti in difesa di Pio XII nelle cancellerie di molti Paesi. Mi
chiedo: perché questi testi non
vengono studiati?» (16).
La certezza di Benedetto XVI deriva dall’ulteriore indagine
condotta dal domenicano Ambrosius Eszer, che per conto della Santa Sede ha
effettuato un nuovo approfondimento del materiale d’archivio in vista della
futura beatificazione di Pio XII. Eszer ha espresso la sua ferma convinzione sull’evidenza
dell’operato di Pio XII in favore degli ebrei perseguitati in una lettera
inviata proprio a padre Gumpel nel luglio scorso, nella quale si legge: «Ho finito il mio lavoro presso l’Archivio della Segreteria di Stato e ogni
nuova ricerca potrà confermare la posizione attuale della Santa Sede su Pio XII» (17).
Sempre Gumpel ha poi ricordato a proposito di Pio XII: «E’
morto povero, lui principe romano, perché usò buona parte delle sue fortune
per salvare il maggior numero di ebrei perseguitati e nascosti nei conventi. Mi
tornano alla mente le tante ‘missioni
ufficiose’ nella capitale della
fidata suor Pascalina Lehnert» ed ha lamentato che: «Mai si ricorda quanto Pacelli fece prima della deportazione degli ebrei
di Roma, il 16 ottobre 1943. Si pensi
al fatto che Pio XII si dichiarò disposto a recuperare dell’oro da consegnare al rabbino capo di Roma
Eugenio Zolli. O la protesta informale che il Papa fece per la deportazione
degli ebrei nel 1943 all’ambasciatore
Ernst von Weizecker. Una testimonianza - quest’ultima - da me raccolta dalla viva voce della principessa Enza
Pignatelli Aragona»(18).
Come si è detto Benedetto XVI ha chiesto, prima di firmare
il decreto sull’eroicità delle virtù di Eugenio Pacelli, un supplemento di
indagine allo storico domenicano Ambrosius Ezser. Il quale, in dieci mesi di
ricerca presso la prima sezione dell’Archivio della Segreteria di Stato, ha
esplorato circa 27 faldoni, trovando ampia conferma di quanto Pio XII,
attraverso la sua rete diplomatica e il suo provvidenziale «silenzio
attivo», fece a favore degli ebrei durante la persecuzione
nazista.
Eszer ha verificato tutta la documentazione relativa alla «politica»
vaticana tra il 1939 e il 1945 fugando ogni eventuale ostacolo alla
beatificazione di Pio XII. Padre Eszer ha 77 anni ed è un insigne storico, già
relatore generale alla Congregazione per le cause dei santi. Risiede
attualmente nel convento di San Paolo a Berlino da dove ha dichiarato: «… proprio la recente indagine mi ha permesso
di vedere quanto la Santa Sede e di riflesso Papa Pacelli si siano prodigati
per gli ebrei. Quando si apriranno gli archivi penso si scoprirà ancor di più
quanto la luce del Pastor Angelicus meriti di brillare per quanto, a volte nel silenzio e fuori dai riflettori, si è prodigato per arginare il dramma della
Shoah» (19).
Padre Eszer ha fatto anche un accenno significativo che ci
permette di confutare anche l’ultimo dei pretestuosi capi d’accusa che il
nostro «Trio Lescano/Quaretto Cetra» ha elencato
nelle sue dichiarazione al Messaggero del 20 dicembre scorso, ossia il presunto
mancato intervento del Papa sul regime slovacco di monsignor Tiso: «Mi ha sorpreso - ha detto Ezsner - la diplomazia nascosta e parallela, soprattutto in Paesi come Cecoslovacchia o
Ungheria, messa in atto dalla Santa
Sede per salvare tante vite» (20).
Papa Pio XII alla festa di Natale dove i doni di cibo e indumenti sono stati elargiti a 2.500 bambini rifugiati, 1944, Università Gregoriana
Quello di monsignor Josef Tiso non fu affatto un regime
fascista o nazista. Tiso era il presidente del Partito Popolare Slovacco, una
formazione politica di tipo nazional-cattolica, che, difendendo i diritti della
popolazione slovacca contro gli abusi centralistici di Praga, godeva molto
consenso tra gli slovacchi durante il periodo di unificazione forzata
ceco-slovacca, seguita al disfacimento della compagine asburgica all’indomani
del primo conflitto mondiale. Il programma del partito di Tiso era di tipo
corporativista in linea con il magistero sociale cattolico dell’epoca («Rerum
Novarum» di Leone XIII e «Quadragesimo Anno»
di Pio XI). Tiso salì al potere nel 1938 a seguito dell’accordo di Monaco che
inaugurò l’indipendenza slovacca e segnò la fine dell’innaturale Cecoslovacchia
voluta dai vincitori di Versailles, francesi ed inglesi, come argine alla
Germania, a capo della quale era stato messo il massone Benes. Il regime di
Tiso fu inizialmente di tipo autoritario e nazional-cattolico, dunque nulla che
vedere con fascismo e nazismo. Hitler, potente vicino del piccolo Paese
mitteleuropeo si intrometteva volentieri nelle vicende interne della Slovacchia
e oltre all’adozione di una legislazione antisemita, impose a monsignor Tiso la
nomina a primo ministro del capo del locale partito nazista slovacco, Tuka, e
come ministro dell’Interno l’altro capo nazista slovacco, Alexandre Mach. Monsignor
Tiso tentò di portare avanti un programma sociale cattolico ed, ad contempo, di
contenere il radicalismo della formazione di Tuka e di Mach, ma senza grande
successo. Alla fine prevalsero i nazisti, capeggiati dai ministri Tuka e Mach,
e monsignor Tiso fu praticamente emarginato nel ruolo meramente simbolico di presidente
della repubblica.
Nel libro di padre Blet, da noi citato alla nota 8, l’intero
capitolo VIII, da pagina 223 a pagina 240, vi è il racconto analiticamente
documentato del braccio di ferro instauratosi tra la Santa Sede ed il governo
slovacco in ordine agli ebrei, strenuamente difesi in ogni modo da Roma, anche
facendo pressioni canoniche e disciplinari su monsignor Tiso, ed invece
subdolamente consegnati alle SS dai predetti ministri nazisti. Monsignor Tiso
cercò di salvare almeno gli ebrei battezzati, o falsamente battezzati, ma alla
fine non sempre si dimostrò all’altezza della situazione e spesso tentennò
ambiguamente tra i suoi doveri di sacerdote cattolico e la sua devozione
patriottica alla Slovacchia, che aveva appena raggiunto un simulacro di
indipendenza. In realtà, Tiso non si rese mai pienamente conto di essere
prigioniero dei nazisti e di, in tal modo, mettere a repentaglio i suoi ideali
di patriota slovacco nonché il suo status di sacerdote cattolico.
Successivamente catturato dagli americani, lo sfortunato prelato fu consegnato
ai sovietici e da questi processato, si può immaginare con quali garanzie
giuridiche, ed impiccato. La persecuzione antiebraica fu quindi opera non di
Tiso ma dei nazisti collaborazionisti guidati dai ministri Tuka e Mach. A Tiso,
casomai, si può imputare una troppo eccessiva arrendevolezza alle decisioni dei
suoi ministri, tenendo conto però che egli era nella non facile situazione di
essere a capo di un piccolo Stato sottoposto al pesante protettorato di un
potente vicino come la Germania hitleriana. Una cosa è sicura: al Vaticano di
Pio XII non può assolutamente rimproverarsi alcuna inerzia, nei confronti del
governo di Tiso, nel difendere gli ebrei slovacchi. A chi ne dubita diciamo, «leggete
padre Blet».
E l’Italia fascista?
Dall’indagine di Ambrosius Eszer sono emersi anche
interessanti particolari sul ruolo dell’Italia nel Patto d’acciaio: «Strano a dirsi, - ha dichiarato il domenicano - ma la presenza dell’Italia nell’Asse ha permesso di mitigare la ferocia nazista verso gli ebrei. Mi ha
colpito nella mia verifica scoprire una lettera preoccupata di Mussolini al
gerarca fascista Cesare de Vecchi sul fatto che Hitler desse poca importanza al
rischio di proteste dei cattolici tedeschi fedeli a Roma, perché costituivano solo un terzo della
popolazione» (21). In realtà la
cosa non è affatto strana, per chi, come storici e politologi, conosce le
differenze ideologiche, genetiche, politologiche ed istituzionali esistenti tra
fascismo e nazismo e che rendono i due regimi assolutamente non comparabili fra
loro, al di là delle superficiali apparenze. Che poi Mussolini in persona non
fosse affatto antisemita e che, anzi, odiasse, comunque ritenesse inaffidabile,
Hitler è cosa ormai ampiamente risaputa e comprovata. Tra le autorità italiane
e quelle tedesche vi furono veri e propri scontri, e non solo verbali, in
ordine alla questione ebraica. Lo storico ebreo Léon Poliakov ha riconosciuto
che ampia fu la protezione posta in essere da Benito Mussolini a favore degli
ebrei, non solo di quelli italiani: «Ovunque
penetrassero le truppe italiane, uno
schermo protettore si levava di fronte agli ebrei (…). Un aperto conflitto si determinò tra Roma e Berlino a proposito del
problema ebraico (…). Appena giunte
sui luoghi di loro giurisdizione, le
autorità italiane annullavano le disposizioni decretate contro gli ebrei (…)» (22).
La protezione assicurata dalle autorità italiane agli ebrei si ergeva non solo
in Italia ma anche nei Paesi sotto occupazione italiana come la Croazia, la
Grecia, la Tunisia. Dopo il 25 luglio, naturalmente venne meno quella
protezione e la pressione nazista si fece pressante anche sulla Repubblica
Sociale. Il rastrellamento e la razzia del ghetto di Roma non sarebbe mai
potuta avvenire prima del 25 luglio 1943. Essa infatti avvenne il 16 ottobre
1943. La caduta del fascismo ebbe come conseguenza il fatto che i nazisti non
trovarono più nessun ostacolo, salvo quello della Chiesa, nel portare a termine
la persecuzione antiebraica anche laddove, ossia in Italia e nei Paesi occupati
dalle truppe italiane, dove prima non avevano potuto operare. Ciononostante, non tutto andò secondo i programmi nazisti. Un episodio,
relativo proprio agli eventi del 16 ottobre 1943, è in proposito altamente
indicativo. I tedeschi, la mattina del rastrellamento del ghetto di Roma,
trovarono a protestare e a tentare di fermarli non i partigiani o i politici
antifascisti, nascosti, anch’essi ed anche quelli di sinistra, nei conventi, ma
un uomo in camicia nera, Ferdinando Natoni. Un «dimenticato»
dalla storiografia che lo storico non professionista Filippo Giannini ha avuto
il merito di sottrarre dall’oblio raccogliendo la testimonianza della figlia
Anna. Il Natoli, mentre la retata era in corso, si precipitò in strada e,
avvalendosi della qualifica di «fascista»,
pretese dalle SS la restituzione degli ebrei catturati nel suo edificio. Cosa
che avvenne. Natoli è un nome che dovrebbe aggiungersi a quelli più noti di
Perlasca che salvò la vita ad alcuni migliaia di ebrei in Ungheria, Zamboni che
riuscì a far fuggire da Salonicco centinaia di ebrei, Palatucci che ne salvò
alcune migliaia a Fiume, Calisse che operò in Francia e fece fuggire diverse
decine di ebrei. Tutti, per lo scandalo dei benpensanti del «politicamente
corretto», fascisti! Persino un, pur radicale e fanatico, Farinacci
nascose una famiglia di ebrei nella sua tipografia. Almirante, il futuro
segretario del MSI, ne nascose alcuni nel ministero dove lavorava. La
testimonianza della figlia del Natoli è stata comprovata da quella delle
gemelle ebree Mirella e Marina Limentani, che furono salvate proprio da quel
fascista che secondo la storiografia, falsa e bugiarda, del «politicamente
corretto» non doveva essere lì: «Natoni - hanno testimoniato le sorelle Limentani - si fece avanti verso i tedeschi con
decisione, presentò me e mia sorella
come sue figlie e, mostrando la sua
divisa, li invitò con fermezza ad
andarsene, cosa che fecero scusandosi per il disturbo».
Questo dimostra due cose essenziali: la prima, già accennata, che il fascismo
non è assimilabile né avvicinabile al nazismo e la seconda che nel diverso
atteggiamento del regime mussoliniano verso gli ebrei, al di là delle posticce,
improvvisate e strumentali leggi razziali, un ruolo fondamentale lo svolgeva il
secolare carattere cattolico degli italiani che agiva anche oltre l’ideologia,
già di per sé non antisemita, del regime stesso. Due fattori che hanno
continuato a fare la differenza anche durante i mesi della Repubblica Sociale,
quando la ferocia della guerra civile ed il radicalismo dei più intransigenti
tra i fascisti avrebbe invece dovuto spingere ad un maggior allineamento alla
politica razziale degli «alleati» nazisti. In
realtà, anche durante quel tragico periodo nel quale l’Italia fu divisa,
occupata da Nord e da Sud e gli italiani si trucidavano tra essi, «Se si eccettua l’aspetto economico, - ha osservato Renzo De Felice - nei
mesi successivi all’emanazione dell’ordine di polizia numero 5, la politica antisemita della RSI fu in un
certo senso abbastanza moderata (…).
Il concentramento degli ebrei fu condotto poi dalle prefetture, in relazione al periodo in questione s’intende, con metodi e discriminazioni abbastanza umani ed esso non fu affatto
totale, come lascerebbe credere l’ordine del 30 novembre 1943. Oltre a ciò il
20 gennaio 1944 Buffarini Guidi, venuto
a conoscenza del fatto che in molte località i tedeschi prendevano in consegna
gli ebrei ivi concentrati, diede
istruzioni perché fossero fatti presso le autorità centrali germaniche i passi
necessari ad ottenere che, in
ottemperanza al criterio enunciato,
fossero impartite disposizioni atte a far sì che gli ebrei rimanessero in campi
italiani (…)» (23).
Conferma il giudizio del compianto storico, socialista ed ebreo, reatino, la
testimonianza di Primo Levi rilasciata nell’intervista a L’Espresso del 27
settembre 2007, nella quale ricorda del suo arresto, il 13 settembre 1943, e
del suo trasferimento ad Aosta nella caserma della Milizia Fascista. Qui Levi e
altri ebrei arrestati, come lui, furono consegnati al centurione Ferro, poi
ucciso dai partigiani nel 1945, il quale li trattò tutti con estrema
benevolenza: «Il Centurione -
rammenta Levi - appreso che eravamo ebrei
e non dei veri partigiani ci disse: ‘Non
vi succederà nulla di male; vi
invieremo al campo di Fossoli, presso
Modena’. Ci veniva regolarmente
distribuita la razione di vitto destinata ai soldati e alla fine di gennaio
1944 ci portarono a Fossoli con un treno passeggeri. In quel campo si stava
allora abbastanza bene; non si
parlava di eccidi e l’atmosfera era
sufficientemente serena; ci permisero
di trattenere il denaro che avevamo portato con noi e di riceverne altro da
fuori». La convergenza tra la posizione della Chiesa cattolica
assolutamente favorevole alla tutela degli ebrei, posizione condivisa anche da
quei suoi settori, come i gesuiti di Civiltà Cattolica, che raccomandavano
politiche prudenziali verso le pretese di assoluta libertà ed eguaglianza
religiosa avanzate dall’ebraismo, e l’ideologia del regime originariamente del
tutto aliena da qualsiasi razzismo, comportò persino un’applicazione soft delle
leggi razziali, quando l’innaturale alleanza con la Germania, maturata anche
per via dell’atteggiamento anti-italiano assunto da Francia ed Inghilterra
nella questione della guerra d’Etiopia, costrinse l’Italia, e che fu un atto
forzosamente strumentale alla politica estera italiana di quel momento è ormai
riconosciuto la maggior parte degli storici, ad iniziare dal De Felice, a
dotarsi di leggi di quel genere.
La prova palmare di questa applicazione soffice della
legislazione razziale, che dimostra tutta l’inconsistenza dell’operazione «razzismo»
in Italia, sta nel fatto che decine di migliaia di ebrei, fuggendo dalla
Germania e dai Paesi caduti sotto l’occupazione tedesca, si rifugiavano nel
nostro Paese nonostante le leggi razziali all’epoca vigenti. Fuggivano, ebrei e
perseguitati politici, nell’Italia fascista e non nei Paesi democratici. Questo
perché la Svizzera li rifiutava, Roosevelt fece intervenire la Marina per
respingere le navi dei fuggiaschi e l’Inghilterra minacciava il siluramento delle
navi cariche di ebrei esuli.
Lo ricordava il 20 luglio 1993, su L’indipendente, Daniele Vicini, citato da
Filippo Giannini, scrivendo: «Ebrei e
comunisti sciamavano verso il Brennero,
frontiera che possono varcare senza visto a differenza di altre (americana, sovietica, ecc.) apparentemente più
congeniali alle loro esigenze». Altra conferma giunge da Klaus Voigt,
anch’esso citato dal Giannini, che nel libro «Rifugio
precario» afferma: «Fino all’entrata in guerra dell’Italia non risulta neppure un caso di
condanna o allontanamento di un migrante per attività politica (…). Eppure dal 1936 (?), la Germania è il
principale alleato e quegli emigranti sono suoi nemici. Polizia e carabinieri
ricevono disposizioni dal Duce, chiare
ed essenziali, anzi ridotte ad una
sola parola: ‘Sorvegliare, non arrestare’».
Giannini ricorda, sulla scorta del Vicini, anche un ebreo d’eccezione che trovò
salvezza nell’Italia fascista. Si tratta di Edward Luttwak, il noto opinionista
e politologo americano. Infatti la profonda conoscenza della lingua e della
cultura italiana che Luttwak, spesso ospite nelle nostre trasmissioni
televisive, dimostra risale proprio al periodo trascorso in Italia quando con
la sua famiglia fuggì dalla Romania per rifugiarsi da noi.
Per concludere
La storia è una cosa molto complessa e non si può mai
ridurla a slogan. E’ necessario sempre indagarla a tutto tondo. Cosa che da
parte della Chiesa di Benedetto XVI è stata fatta, proseguendo un’opera di
verifica storica che riguardo a Pio XII era iniziata sin dai tempi di Paolo VI,
sicché le lamentele del «Trio Lescano/Quartetto
Cetra» dell’ebraismo italiano non solo appaiono del tutto
pretestuose ma anche tragicamente ridicole. Si è appreso che la comunità
ebraica di Roma ha convocato il «Sinedrio»
appositamente per discutere se annullare o meno la visita di Benedetto XVI alla
Sinagoga di Roma prevista per il 17 gennaio prossimo. Pare che alla fine abbia
prevalso la linea favorevole alla conferma, anche - hanno detto i maggiorenti
della comunità - per lasciare aperto il dialogo. Sembra però che vi saranno
proteste anche ufficiali per la decisione del Papa di sbloccare l’iter che
porterà alla canonizzazione di Pio XII durante quella visita. Si sentono
offesi, gli ebrei, per il fatto che il dialogo da parte cattolica sarebbe
ambiguo e temono che sotto sotto i cattolici vogliano la loro conversione. Non
si capisce perché mai noi cattolici non dovremmo augurare anche ai «fratelli
maggiori» il Sommo Bene che è l’incontro e l’adesione a Cristo.
Vogliamo dirlo chiaro direttamente agli interessati: la vostra conversione, «fratelli
maggiori», è sempre, ogni giorno, nelle nostre preghiere.
Certamente sappiamo anche noi che la vostra conversione è un evento
escatologico riservato al Disegno di Dio e che dunque non è a noi che spetta
stabilire quando e come essa avverrà. Ma è sicuro che essa avverrà. E lo sapete
anche voi perché da duemila anni la vostra ansia messianica, quella che vi
turba e vi ha portato e vi porta ancora a sbagliare sull’identificazione del
Messia (da ultimo, e con quali tragiche conseguenza gli eventi di Terra Santa
lo stanno provando a tutto il mondo, lo avete identificato nell’Israele
medesimo), è rimasta inappagata e tale rimarrà fino a quando non riconoscerete
la Divino-Umanità di Gesù Cristo. Noi possiamo attualmente solo testimoniarvi
Cristo e ricordarvi la vostra posizione teologica imperfetta ed arretrata. Ciò
non può né deve impedirci di riaffermare, come nel caso di Pio XII, la verità
storica oltre che quella teologica. Benedetto XVI è un Papa che pur dialogando
con tutti e pur procedendo con estrema carità nel proporre la Verità, non si
lascia intimorire da nessuno quando si tratta di tenere alta la fede della
Chiesa nel Suo Signore. E cosa sulla quale anche tanti cattolici, sovente
critici da «destra» e da «sinistra»,
di Papa Ratzinger dovrebbero riflettere. Certo, poi, ci sono anche le
prudenziali ragioni della diplomazia, anche di quella religiosa, e quindi non
deve meravigliare la nota di Curia, diffusa il 22 dicembre scorso da padre
Lombardi, nella quale si dichiara che la canonizzazione di Pio XII è questione
solo teologica e non anche storica. Si sostiene in quella nota che la santità
di Papa Pacelli è stata valutata sulla base del grado, appunto eroico,
dell’esercizio delle virtù cristiane teologali di Fede, Speranza e Carità,
indipendentemente dalle decisioni che lo stesso prese nel governo della Chiesa
in un periodo sicuramente difficile.
A nome della comunità ebraica romana,
rabbi Riccardo Di Segni si è detto «soddisfatto»
del gesto di apertura del Vaticano verso la loro sensibilità. Ma, con la
cristallina ironia che lo caratterizza, padre Gumpel, che - ricordiamo - è il
postulatore della causa di beatificazione di Pio XII, ha fatto notare che la
virtù teologale della Carità, per l’appunto, si manifesta proprio nella storia
e nelle decisioni che il cristiano prende nella propria vita, sicché scindere
l’aspetto teologico da quello storico non è, non può essere, e non è stato
neanche nella fattispecie relativa a Papa Pacelli, il metodo seguito dalle
commissioni canoniche preposte a vagliare della santità dei candidati agli
altari (24). Questo giusto per
raffreddare la «soddisfazione» di rabbi Di Segni, e degli
altri suoi correligionari, e per ricordare che, in vista della visita del Papa
in sinagoga il prossimo 17 gennaio, un atto di diplomatica distensione era
dovuto. Che poi questo, come molti hanno pensato, sia un dietro front rispetto
alla dichiarazione sulla eroicità delle virtù di Pio XII non corrisponde ai
fatti. L’iter di Papa Pacelli verso la beatificazione è ormai irreversibilmente
aperto e prima o poi lo vedremo sugli altari, lui che è già santo in Cielo.
Forse si dovrà aspettare ancora del tempo, nel caso dell’attuale beato Carlo
d’Asburgo tra la dichiarazione di «Servo di Dio»
e la beatificazione è passato quasi un secolo, ma Pio XII sarà beato. Piaccia o
non piaccia al «Trio Lescano» ed accoliti.
Luigi Copertino
1) Il noto gruppo vocale degli anni
trenta e quaranta era costituito da tre giovani cantanti di origini ebraiche
che si misero in mostra per il loro indubbio talento canoro, spesso
accompagnando come «spalla» altri noti
cantanti dell’epoca. Esattamente come hanno fatto, nelle recenti polemiche a
proposito della dichiarazione dell’eroicità delle virtù di Pio XII, Riccardo Di
Segni, Riccardo Pacifici e Renzo Gattegna che hanno agito di «spalla»
al direttore del museo della shoah di Roma, Marcello Pezzetti. Da qui il nostro
scherzoso definirli «Trio Lescano»
dell’ebraismo italiano. Non tutti sanno che, nel periodo successivo alle leggi
razziali in Italia, il noto trio dovette cambiare il nome in «Trio
Cetra». Denominazione ripresa, nel dopoguerra, da un altro noto
gruppo canoro, il «Quartetto Cetra».
Sicché, dal momento che nell’occasione in questione, i suddetti tre
rappresentanti della comunità ebraica romana hanno agito all’unisono con il
Pezzetti, ci è sembrato scherzosamente simpatico chiamarli anche «Quartetto
Cetra».
2) Rimandiamo in
ordine alla pulizia etnica sionista sulla inerme popolazione palestinese, che è
costata non solo l’espulsione della popolazione palestinese dall’attuale
territorio di Israele ma anche centinaia di migliaia di vittime innocenti tra
vecchi, donne e bambini, al fondamentale libro dello storico israeliano Ilan
Pappe, dell’università ebraica di Gerusalemme dalla quale, dopo la
pubblicazione delle sue ricerche, è dovuto emigrare alla volta di una
università inglese. Il libro è intitolato «La pulizia etnica della
Palestina» ed è stato pubblicato in Italia per i tipi della Fazi
Editore di Roma nel 2008. Pappe, che è figlio di genitori sfuggiti alla
persecuzione nazista, è uno degli storici israeliani cosiddetti «revisionisti»,
appartenenti alla giovane generazione dei «nuovi storici»,
ma a differenza di altri noti nomi di tale corrente storiografica non ha mia
giustificato, come fanno gli altri, con presunte ragioni di Stato o di
sopravvivenza di Israele la mattanza ai danni dei palestinesi. Anche perché,
sostiene Pappe, la mattanza è iniziata ben prima della guerra del 1948 e
soprattutto perché la parte forte, quella che aveva la totale superiorità
militare, politica ed economica, come l’esito della successiva guerra ha
dimostrato, era proprio Israele e non certo la popolazione palestinese
autoctona. Il fatto che poi i palestinesi sono stati spesso usati cinicamente
come pretesto politico dai Paesi arabi, che perseguivano a loro volta altri
obiettivi geopolitici, nulla toglie alla responsabilità criminale che i vertici
israeliani e sionisti si sono assunti di fronte al giudizio morale ed a quello
storico. Anche se nessun tribunale di nessuna Norimberga li condannerà mai (il
che poi non è mica detto: spesso la storia riserva amare sorprese a chi si
sente intoccabile!).
3) Confronta L.
Copertino, «Le giravolte pseudo-storiche di Gianfranco Fini»
e «Pio XII ed il nazismo», in www.effedieffe.com,
rispettivamente del 19 e 26 dicembre 2008.
4) Riportiamo a
mo’ di esempio le dichiarazioni del rabbino americano Silver tratte da un
articolo di Avvenire del 14 giugno 2009 «Un rabbino americano chiede
la canonizzazione di Pio XII»: «Roma, venerdì, 12 giugno 2009 (ZENIT.org) E’ un rabbino statunitense, fino al
settembre del 2008 aveva sollevato dubbi sull’idoneità per la beatificazione di
Pio XII, mentre adesso prega per il Pontefice e propone di riconoscere Papa
Pacelli come santo. Nella prefazione all’ultimo libro di suor Margherita
Marchione, ‘Papa Pio XII. Un antologia di testi nel 70° anniversario
dell’incoronazione’, edito in italiano e inglese dalla Libreria Editrice
Vaticana, il rabbino americano Erich A. Silver del Temple Beth David in
Cheshire…, racconta il perché del suo cambio di opinione. ‘Credevo – ha scritto
Silver nella prefazione al libro della Marchione - che poteva fare di più.
Volevo sapere se, infatti, fosse stato un collaboratore, un antisemita passivo,
mentre milioni furono uccisi, alcuni in vista del Vaticano’. Poi - ha
raccontato il rabbino - nel mese di settembre del 2008 venne a Roma, invitato
da Gary Krupp a partecipare ad un simposio organizzato dalla Pave The Way
Foundation, in cui si voleva esplorare il ruolo di Pio XII durante l’Olocausto.
In quell’occasione il rabbino Silver conobbe suor Marchione e una cinquantina
tra rabbini, sacerdoti, studiosi e giornalisti che avevano studiato e indagato
a fondo sul tema. Per Silver, quel simposio è stata una folgorazione: ‘Le prove
che ho visto - ha scritto - mi hanno convinto che la sua sola motivazione (di
Pio XII ndr) è stata di salvare tutti gli ebrei che poteva’. E l’immagine
negativa contro Pio XII? Secondo Silver, tutto è cominciato con la
pubblicazione del libro ‘The Deputy’ con la diffusione di bugie e l’abitudine a
non indagare i fatti storici. Così molte persone sono diventate ‘strumento di
coloro che detestano Pio XII perché fu sempre anticomunista’. ‘E’ da notare -
ha rilevato Silver - che, dopo la fine della guerra, e fino alla sua morte gli
ebrei lo hanno lodato continuamente riconoscendolo come salvatore’. ‘Io spero -
ha auspicato il rabbino - che la canonizzazione di Papa Pio XII possa procedere
speditamente, affinché non solo i cattolici, ma tutto il mondo possa conoscere
il bene compiuto da quest’uomo di Dio’».
5) Confronta Lorenzo
Fazzini, «Pio XII per gli ebrei, ecco la prova», in Avvenire
del 4 marzo 2009. Nell’intervista contenuta nell’articolo ora citato, padre
Gumpel così significativamente continua: «C’è stato qualche nemico della Chiesa
che ha detto: siccome non ci sono ordini scritti di Pio XII di salvare gli ebrei,
vuol dire che non l’ha fatto. Ma è la stessa motivazione con cui lo studioso
David Irving ha negato la Shoah, ovvero che non esiste un documento firmato da
Hitler che attesti lo sterminio degli ebrei; e quindi l’Olocausto non sarebbe
avvenuto... Questo delle Agostiniane è uno dei pochi casi di testimonianza
scritta della volontà di Pio XII di aiutare gli ebrei».
6) Citato in
Paolo Mieli, «La storia renderà giustizia a Pio XII», in
L’Osservatore Romano del 19 settembre 2008. Si tratta di una importante
intervista all’ex allievo di Renzo De Felice ora disponibile anche sul sito di
Sandro Magister www.chiesa.espressonline.it del 10 ottobre 2008.
7) Confronta Andrea
Tornielli, « ‘Civiltà Cattolica’: così Pio XII soccorse gli ebrei»,
in Il Giornale del 6 marzo 2009. Vedasi, sempre di Tornielli sull’argomento,
anche «Il museo dell’Olocausto rivede la leggenda nera»,
in Il Giornale del 16 marzo 2009.
8) Confronta Pierre
Blet, «Pio XII e la seconda guerra mondiale negli archivi
vaticani», edizioni San Paolo, Milano, 1999, pagine 281-284. Quando
i giornalisti lo interrogavano sui presunti silenzi di Pio XII, Giovanni Paolo
II, riferendosi a quest’opera, rispondeva loro «Leggete padre
Blet».
9) Confronta
Diego Vanzi, «Luglio ‘43,
Hitler voleva eliminare Pio XII», in Avvenire del 16
giugno 2009.
10) Confronta Filippo
Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», in Avvenire del 22
dicembre 2009.
11) Confronta Paolo
Mieli, «La storia renderà giustizia a Pio XII» opera citata.
12) Il
riferimento è in particolare al capitolo 53 del Libro di Isaia. Il «Servo
del Signore» è descritto come l’Uomo più innocente, eppure percosso e
umiliato, tormentato fino alla morte, a causa dei peccati degli altri: «…
Eppure, egli si è fatto carico delle nostre infermità e si è addossato i nostri
dolori. Noi lo abbiamo ritenuto un castigato, un percosso da Dio e umiliato. Ma
egli è stato trafitto a causa dei nostri peccati, schiacciato a causa delle
nostre colpe. Il castigo che ci rende la pace si è abbattuto su di lui, per le
sue piaghe noi siamo stati guariti…».
13) Il libro del
Zolli su «Il Nazareno» è stato ripubblicato
quest’anno per le edizioni San Paolo.
14) Confronta E.
Zolli, «Prima dell’alba», edizioni San Paolo,
Milano, 2004.
15) Confronta Antonio
Airò, «Pio XII: ‘I documenti ci daranno ragione’ »,
in Avvenire del 9 dicembre 2008.
16) Confronta Filippo
Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», opera citata.
17) Confronta Filippo
Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», opera citata.
18) Confronta Filippo
Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», opera citata.
19) Confronta Filippo
Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», opera citata.
20) Confronta Filippo
Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», opera citata.
21) Confronta Filippo
Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», opera citata.
22) Confronta Léon
Poliakov, «Il nazismo e lo sterminio degli ebrei», pagine
219-220. Riprendiamo questa citazione, come altre che seguono, nonché l’argomentazione
dell’intero paragrafo in questione da due notevoli contributi dell’erudito
Filippo Giannini «Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire - I casti
divi e l’olocausto» e «La regina
delle menzogne: Mussolini sterminatore di ebrei?». I due
contributi sono stati fatti girare dal loro autore per posta elettronica. Ma
sono anche disponibili nelle sue opere storiografiche, reperibili sempre presso
l’autore o editrici non conformiste come Effedieffe.
23) Confronta Renzo
De Felice, «Storia degli ebrei sotto il fascismo», pagina 447.
24) Confronta intervista
a padre Gumpel su Il messaggero del 22 dicembre 2009.
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