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La scienza politica tomistica
don C. Nitoglia
29 Dicembre 2009
Politica e metafisica
La morale sociale o politica si fonda sulla metafisica «che ci fa
conoscere:
a) la vera natura dell’uomo, creatura spirituale e immortale
(metafisica psicologica), e quindi il fine ultimo (Atto puro) al quale è
destinato (metafisica ontologica), per rapporto al quale gli atti umani sono
moralmente buoni o cattivi, secondo che vi conducano o no (etica generale);
b) l’esistenza di un Dio personale e trascendente il mondo,
maestro, legislatore e giudice dell’umanità, autore della legge morale
oggettiva e obbligatoria» (teologia naturale) (2). Onde da una determinata filosofia
speculativa o teoretica (materialismo, individualismo) ne segue una determinata
filosofia morale (comunismo, liberalismo). Se la filosofia teoretica dalla
quale discendono la politica o scienza economica è falsa, anche queste due
ultime lo saranno. Ora il comunismo deriva dal materialismo storico e
dialettico, che nega l’esistenza dell’anima; il liberal-liberismo deriva
dall’individualismo sensista, che riduce la conoscenza umana a quella dei bruti
e nega la natura socievole dell’uomo, rendendo lo Stato o Società civile un ente
privato e non più morale (3). Quindi
comunismo e liberalismo-liberista sono due errori opposti per eccesso e per
difetto, che sprofondano come due burroni, a «sinistra»
e a «destra», sotto la vetta di una
montagna, la quale è la vera filosofia del «buon senso»
comune a tutti gli uomini dotati di retta ragione, eretto a scienza filosofica,
ossia l’«aris-tomismo».
Politica come «scienza architettonica»
«Da Aristotele in poi si
parla di polìtica come di una scienza architettonica, che (...) regge, coordina
e dirige tutte le altre scienze pratiche, quali il diritto, l’economia, la
medicina, l’edilizia, l’arte e così via, che essa applica per regolamentare
l’effettiva convivenza della comunità» (4). Onde risulta lampante la contraddittorietà tra la metafisica e
l’etica aristotelico-tomistica con il liberismo, che vorrebbe un’economia del
tutto «libera» (facendo erroneamente
della libertà un fine e non un mezzo) per agire libero da ogni intervento dello
Stato o della Polis e della morale; mentre Aristotele e San Tommaso ordinano e
subordinano sia il diritto che l’economia alla morale sociale o politica. I
teo-conservatori nostrani, che si erigono a paladini delle radici cristiane
europee dovrebbero «ire ad Thomam»,
come consigliava Pio XI nell’enciclica «Studiorum Ducem»,
invece di ire ad Popper, Myses, Hayek o Burke-Kirk, come invece fanno,
scambiando dei rivoli inquinati dal liberalismo sensista inglese, per la fonte
pura della metafisica dell’essere, sotto pena di divenire paladini delle radici
giudaico-calviniste dell’ «Am-europa».
Attenzione a non lasciarsi fuorviare dai prezzolati dal Mammona iniquitatis (il
«dio quat-trino» del teo-conservatorismo) e
prendere «lucciole per lanterne» in materia di filosofia
politica, scambiando Locke con San Tommaso.
Bene privato e
pubblico
San Tommaso insegna anche che «la prudenza
non s’interessa soltanto del bene privato di un singolo uomo, ma anche del bene
di tutta la collettività (…), così la prudenza in rapporto al bene comune si
chiama politica» (5). La
prudenza è una virtù cardinale, anzi è l’auriga di tutte le virtù cardinali,
che ci aiuta a scegliere i mezzi migliori per ottenere il bene comune, ossia
vivere virtuosamente, subordinatamente all’ordine soprannaturale. Padre Tito
Sante Centi O. P. scrive: «Basterebbe
quest’affermazione per fare della morale tomistica una regola di vita
eminentemente sociale» (6).
Politica e «partitica»
Come si vede la politica non ha nulla a che fare con la «partitica».
Il cristiano e l’essere umano non può non fare politica, ma non deve essere
neppure un «demo(nio)-cristiano» («Noi non
possiamo non fare politica», diceva San Pio X. «La
politica confina con l’altare», affermava Pio XI), poiché
egli è un animale sociale per natura; inoltre è stato elevato all’ordine
soprannaturale e deve occuparsi non solo del suo proprio bene, ma anche di
quello comune, in vista del fine «ultimo-prossimo»
o naturale (benessere comune temporale) subordinato a quello «ultimo-remoto»
o soprannaturale (Dio). In primo luogo perché il bene proprio non può
sussistere senza il bene comune della famiglia (chi avesse una famiglia
disastrata, condurrebbe una vita disgraziata o perlomeno molto difficile;
oppure un padre che non si occupasse dei figli, un marito che trascurasse la
moglie e pensasse solo a sé, da perfetto
liberal-liberista-libertario-libertino, sarebbe un pessimo marito e padre), e a
maggior ragione della città e dello Stato (chi dovesse vivere in una città ove
regna l’anarchia o la tirannia, avrebbe una vita dura davanti a sé, anche se è
un liberista puro; infatti «nessun uomo è un’isola»
e, perciò, dovrebbe soffrire i disordini della dis-società che lo circonda e
nella quale vive realmente anche se teoricamente pensa di essere un «isolato
d’oro», come il ricco povero Creso), poiché la famiglia (che è
una società imperfetta) non può fornire a tutti i suoi membri, tutto il
necessario per vivere bene naturalmente (salute, scienza, sicurezza, moralità)
ed ha bisogno ex natura rerum di unirsi ad altre famiglie, che così formano una
città e poi varie città unite formeranno uno Stato (società perfetta nell’ordine
temporale). In secondo luogo perché l’uomo, essendo una parte della famiglia e
dello Stato, nel valutare il proprio bene grazie alla virtù di prudenza, deve
farlo subordinatamente al bene della comunità; infatti «una parte che
non armonizza col tutto è deforme» (7), un piede slogato o un dito moncato, non sta bene lui e non fa
sentir bene tutta la persona. Il liberismo è il piede slogato o l’organo
deforme della società civile con la quale non vuol vivere in armonia, data la
filosofia individualista alla quale si rifà e che lo rende auto-lesionista o
masochista, slogato, s-locato, doloroso e addolorante gli altri.
Monastica, economia e politica
Nello stabilire la gerarchia della prudenza pubblica,
l’Angelico distingue specificatamente tra loro e mette al primo posto «la
politica, che è ordinata al bene comune dello Stato, Poi l’economia, che si
occupa del bene comune della casa o della famiglia e quindi all’ultimo posto la
monastica che si occupa del bene di una singola persona» (8). Padre Centi commenta: «E’
evidente che l’Angelico aveva un concetto molto serio della politica»
(9). Nel Commento alla Politica di
Aristotele, San Tommaso approfondisce la questione ed insegna che la politica è
una scienza necessaria, poiché scienza della città in quanto oggetto di
riflessione filosofica, finalizzata a dare un’organizzazione agli uomini.
Infatti la disorganizzazione produce disordine e lotta continua, mentre la pace
interna è la «tranquillità dell’ordine» (Sant’Agostino).
Essa è una scienza morale o pratica (conoscere per agire bene) e non una
tecnica empirica, ossia il politico non è il politicante-praticone o galoppino
porta-borse; anzi essa ha un ruolo architettonico nei confronti delle altre
scienze morali, poiché la città rappresenta la realtà più importante di tutte
quelle che la ragione umana è in grado di produrre, perciò essa occupa il primo
posto tra tutte le scienze pratiche (come l’architetto e il capomastro dirigono
tutti gli altri operai) (10). Indi
l’Aquinate, seguendo lo Stagirita, distingue l’economia o amministrazione della
famiglia (ricavare anche col risparmio le ricchezze necessarie per mantenere
convenientemente un focolare domestico, ove i mezzi sono ordinati al fine, la
ricchezza alla tranquillità temporale), dalla crematistica-pecuniativa (o
finanziaria-affaristica, in cui la ricchezza, ottenuta anche con
l’indebitamento, è il fine e non il mezzo, sino a che potrà pagare i mutui…),
che consiste nel produrre e nell’accumulare il massimo di ricchezza possibile,
senza porre limiti pecuniativi né morali alla libera iniziativa, una sorta di
idolatria del denaro o culto dell’oro, non più del dollaro, che oggi è in «libera»
caduta («w la libertà!»). San Tommaso la condanna
in quanto scambia i mezzi (le ricchezze) per il fine (il bene) e questa è la
natura del peccato. (11). Onde il
liberismo economico è un peccato né più e né meno come il liberalismo
filosofico, che fa della libertà il fine e non il mezzo per raggiungere Dio vero
Fine ultimo-remoto dell’uomo.
L’uomo è animale sociale
«Il singolo non basta a sé
per vivere» (San Tommaso, De regimine principum, Lib. I, cap. 1).
L’uomo è composto di anima e di corpo. Essendo la sua anima
razionale, egli è fatto per vivere a contatto con gli altri; non è un animale
silvestre e solìvago, un autistico o alienato (tranne casi patologici). Ad
esempio, la famiglia, che è una società imperfetta, suppone il corpo dell’uomo,
orientato alla generazione, fine primario del matrimonio; ma essa deve essere
seguita dall’educazione, che sorpassa la vita animale e corporea e riguarda
quella razionale e spirituale. Lo stesso dicasi per la Società civile o Stato.
San Tommaso spiega che «agli animali la natura ha
dato i peli, i denti, le corna, la velocità per fuggire. L’uomo, invece, dalla
natura non è stato formato con nessuno di questi mezzi (12) già pronti; ma al posto di quelli gli è stata data la ragione,
per mezzo della quale può procurarsi tutte queste difese (13). Ma per far ciò non basta il lavoro di un solo uomo, perché il
singolo non basta a sé per vivere. Perciò è naturale all’uomo vivere in società
(...) affinché uno aiuti l’altro, e diversi uomini siano occupati nella ricerca
di cognizioni diverse» (14).
La società civile è l’unione morale e stabile di più famiglie, che tendono al
benessere comune temporale subordinato a quello spirituale. Essa nasce dalla
necessità per l’uomo di conseguire il fine ultimo prossimo e remoto, che non
potrebbe ottenere se vivesse isolato.
Il diritto naturale
Per cogliere il fine ci vuole una strada che conduca ad
esso: essa è il diritto naturale (15),
che Sofia Vanni-Rovighi definisce «il complesso di ciò che si
deve rispettare perché un uomo sia e resti autenticamente uomo»
(16). Dunque un diritto naturale
come règola suprema delle leggi civili, significa il dovere di subordinare ogni
attività umana alla finalità morale, ossia al fine dell’uomo. Perciò, se una
legge umana non contrasta con la legge morale o il diritto naturale, osservarla
è doveroso moralmente («chi vuole il fine, prende i
mezzi»). Mentre la legge ingiusta se è contraria al diritto
naturale non deve essere obbedita (per esempio aborto, divorzio, eutanasia,
bruciare l’incenso agli idoli); invece se esige dall’individuo un sacrificio
non necessario al bene comune ma superfluo, come quando il capo impone ai
sudditi leggi o imposte troppo onerose (17)
e che non giovano al bene pubblico, esse non obbligano in coscienza, ma per
evitare uno scandalo o una sedizione, si possono ottemperare.
Conclusione
1) Nobiltà della politica:
La politica è una virtù, non una passione o peggio un vizio,
anzi la più nobile delle virtù cardinali-morali, che riguarda il ben agire
dell’uomo in campo sociale, poiché l’uomo è stato creato da Dio come animale
socievole e non deve disinteressarsi della res publica, societas o polis.
2) Necessità della politica:
E’ una scienza («scire per causas»)
e non una «mascherata» o «grande
abbuffata». Una scienza architettonica, che serve a coordinare tutte
le altre scienze pratiche, affinché nella società regni l’ordine e non il caos.
3) Errori da evitare:
a) L’errore per difetto: essere «a-politici»,
che significa essere «a-sociali»
ossia «a-normali».
b) L’errore per eccesso: per la Chiesa e gli ecclesiastici,
la «partitica». Infatti partito viene da «parte»
e la Chiesa e l’ecclesiastico cattolico debbono essere madre e padre di tutti.
La Chiesa dà i principi della scienza politica, interviene ratione peccati
quando il governante erra, ma non si infeuda in nessun partito o parte, essendo
essa cattolica ossia universale. Tuttavia attenzione al peccato di catto-liberalismo,
il quale consiste nel volere che la Chiesa pensi solo alle singole anime e non
alla forma politica data alla società, dalla quale, se buona, dipende la
salvezza di molte anime, invece - se cattiva - la perdizione (Pio XII).
4) Falsi sistemi politici:
a) Il collettivismo social-comunista: è erroneo, in quanto l’uomo è un
individuo razionale e libero creato ad «immagine e somiglianza di
Dio» e perciò è ontologicamente superiore alla collettività,
mentre moralmente o nell’agire pratico ne è parte integrante, dovendone
rispettare le regole, tuttavia mantenendo sempre la sua natura individuale,
ossia «ens indivisum in se et divisum a quolibet alio».
Non è dunque una anonima rotella del grande ingranaggio che si chiama Stato,
contro ogni collettivismo social-comunista, ma un essere intelligente e libero,
distinto da ogni altro uomo e dallo Stato, ordinato a conoscere il Sommo Vero e
ad amare il Sommo Bene, vivendo onestamente e moralmente in società, contro
ogni individualismo liberal-liberista.
b) L’individualismo liberale: è falso, poiché Dio ha creato
la natura umana come socievole e fatta per vivere non isolata, ma assieme agli
altri. Menenio Agrippa nel suo celeberrimo apologo spiega nella maniera più
semplice e ricca di buon senso che in un corpo umano (analogamente alla società
civile) la testa non può disprezzare i piedi, le mani e credersi
autosufficiente; sarebbe una testa liberisticamente folle, poiché condannata a
restare chiusa in se stessa; così come il piede non può fare a meno della testa;
sarebbe un piede socialisticamente pazzo ed incapace di camminare. Ma il
liberisti anglosassoni ed americani e i socialcomunisti sovietici hanno
dimenticato e smarrito il buon senso comune al mondo greco-romano/antico e
cristiano/pre-conciliare.
Per gentile autorizzazione di don Curzio Nitoglia a EFFEDIEFFE.com
www.doncurzionitoglia.com
1) In Ethicorum Aristotelis, lib. I, lect. 1ª, n° 3.
2) H. Collins, Manuel de philosophie thomiste, vol. III, Téqui,
Paris, 1927, pagina 183.
3) Proprio come i
liberisti pratico-pratici o «praticoni»
erigono delle società, che de jure appaiono come associazioni morali, cioè
composte da più persone fisiche, ma che de facto sono associazioni private a
delinquere di un singolo individuo «assoluto»
(dal latino «ab-solutus»), ossia «sciolto
da» da ogni regola etica, perché liberisticamente l’etica non
deve interferire con l’economia o meglio affaristica, il quale si serve dei
nomi (essendo anche «nominalista»
come ogni buon liberale) degli altri poveri associati imbrogliati per far
apparire la sua entità privata come fosse una società morale, mentre in realtà
essa è al 98% privata e individuale, a-sociale e a-morale.
4) V. O.
Benetollo O.P., «Morale e società, principii di etica sociale»,
ESD, Bologna, 1999, pagina 56.
5) S. T., II-II,
q. 47, a. 10, in corpore.
6) La Somma
Teologica di San. Tommaso d’Aquino, Commento a cura dei Domenicani italiani,
Firenze, Salani, 1966, volume XVI, pagina 242, nota 2.
7) Sant’Agostino,
«Confessioni», lib. III, capitolo 8.
8) S. T., II-II,
q. 47, a. 11, sed contra.
9) Ivi, pagina
245, nota 1.
10) Confronta San
Tommaso d’Aquino, «Commento alla Politica di
Aristotele», Bologna, ESD, 1996, pagine 38-39.
11) Ivi, pagina
74-75.
12) Tranne certe
spiacevoli volte, le «corna morali»
per le quali il liberalismo ha trovato come rimedio il «libero
divorzio», che è divenuto così l’arma dei «liberi
cornuti»…
13) Per evitare le
«corna» e il divorzio.
14) De regimine
principum, Libro I, capitolo 1.
15) Confronta H.
Rommen, «L’eterno ritorno del diritto naturale», Studium,
Roma, 1965.
16) S. Vanni
Rovighi, opera citata, pagina 239.
17) «Dal
punto di vista amministrativo si distinguono le imposte indirette, che
colpiscono alcuni oggetti di consumo: essi non devono essere oggetti necessari,
come il pane o la carne, altrimenti l’imposta sarebbe ingiusta, specialmente
per le famiglie numerose; mentre i super-alcolici o le sigarette, per esempio,
sono tassabili. E le imposte dirette che colpiscono delle situazioni
permanenti; ad esempio le imposte sulla proprietà, l’imposta sul guadagno, che
per piccoli guadagni è ingiusta. Normalmente l’imposta è proporzionale, vale a
dire che mantiene una proporzione costante sul guadagno ingente, per esempio il
5%; e sarebbe ingiusta sui piccoli guadagni. Oppure può essere progressiva (ma
si preferisce comunemente la proporzione costante), aumentando proporzionalmente
con il guadagno, per esempio il 5% sino a un guadagno di 150.000 euro; 10% sino
a un guadagno di 1.500.000 euro; 20% sino a un guadagno di 15.000.000 euro»
(H. Collins, «Manuel de philosophie thomiste», Téqui,
Paris, volume III, pagina 359). I moralisti in genere insegnano che l’imposta
giusta, a proporzione costante, non deve superare circa il 10% -20% del
salario. «Bisogna riconoscere che in pratica gli Stati abusano del
loro diritto di imporre i tributi, elevandoli a dismisura, senza un’adeguata
ragione di bene comune, per cui facilmente i cittadini si convincono della poca
giustizia dei tributi (...). Per questo oggi i teologi parlano di rieducazione
dello Stato e dei cittadini alle proprie responsabilità (imporre imposte
giuste, e dovere di pagare le imposte giuste, nda) ...»
(Enciclopedia Cattolica, volume XII, 1954, Città del Vaticano, col. 512).
Confronta B. H. Merkelbach O.P., «Summa Theologiae moralis»,
tomo II, «De virtutibus moralis», edizione IV, Desclée,
Parigi, 1942, numeri 623-625. Confronta Pio XII, «Allocuzione
al Congresso dell’Associazione fiscale internazionale», 2 ottobre
1956, in «La pace interna delle nazioni. Insegnamenti pontifici»,
a cura dei monaci di Solesmes, 2ª edizione, Paoline, Roma, 1962, pagine
677-679.
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