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Rosarno, lo scontro di inciviltà
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Nello scontro di inciviltà, naturalmente, i più civili sono stati i negri. Spiace ammetterlo, ma ha ragione Saviano: i braccianti africani hanno avuto il coraggio di ribellarsi alla ‘ndrangheta, quel che i calabresi non fanno. No, non tutti i calabresi sono complici; però si giustificano: «Non possiamo reagire, qui, se ti ribelli alla criminalità, ti sparano». Sparano anche ai negri, infatti.

A Castelvolturno, l’anno scorso, di braccianti negri ne hanno sterminati sei, con il mitragliatore, per far capire chi comanda nel Meridione tutto anema e core: nel caso, i casalesi, clan inamovibile, perchè gli arresti e i processi non li spaventano, non bastano a liberarcene. Perchè la notizia  apparisse sui giornali nazionali, però, s’è dovuta attendere la «rivolta dei negri» il giorno dopo: allora le TV sono andate a riprendere i negri che bruciavano i cassonetti, tiravano pietre,  ribaltavano auto. Che paura! Ecco gli islamici che cosa fanno! Ecco l’«insicurezza» prodotta dalla «immigrazione»!

L’hanno rifatto a Rosarno, comune commissariato per mafiosità. E di nuovo, la notizia immediata diventa: «Le violenze dei negri».

Ebbene: la violenza è la sola risposta giusta allo strapotere della criminalità organizzata, come allo sfruttamento di chi lavora, e all’oppressione politica. La violenza dovrebbe essere monopolio dello Stato: ma se lo Stato non agisce, non protegge dai soprusi, allora il cittadino ha il diritto di difendersi con la violenza dalla violenza di chi «controlla il territorio».

I negri di Rosarno non sono cittadini. Però sono lavoratori, e in un Paese civile il lavoro dà diritti. Anzitutto quello alla dignità. In un Paese incivile, invece, i diritti si devono strappare con la lotta, rischiando le pistolettate e le sprangate: una lezione che i negri ci hanno insegnato.

I negri sono a Rosarno per la raccolta delle arance, 20 euro al giorno (500 al mese) per 12 ore di lavoro, e devono darne 5 ai caporali mafiosi che li «gestiscono», e li fanno vivere in fabbriche dismesse senza cessi e senz’acqua, e li trasportano da regione a regione per ogni raccolto. Sopportano e tacciono, ma quando per giunta gli sparano addosso, tirano le pietre, occupano le strade, spaccano finestre e vetrine. E fanno bene.

La TV ci ha fatto vedere le facce di quei negri mentre battono sui cassonetti come su tamburi, per sfida. Belle facce segnate, belli sguardi intensi di sfida in cui si legge la paura e la decisione di vincerla, perchè si deve «lottare». Belle facce di lavoratori indurite dal coraggio, dall’oppressione e dallo sfruttamento: tutte parole che abbiamo dimenticato. Come se ne vedevano un secolo fa, e in Italia non se ne vedono più. Facce da lotta per strappare il diritto. Di non essere ammazzati, come minimo. Nel corteo, dice la cronaca, «Uno agita un cartello: “Stop shooting blacks”», perchè quegli sfruttati sanno l’inglese, fra loro ci sono anche dei laureati in ingegneria.

Dall’altra parte, sempre secondo le cronache, la risposta è in dialetto: un calabrese dice: «Tutta l’Africa ‘sta ‘cca: senegalesi, polacchi, moldavi…». Un funzionario della Questura prova a trattare, proponendo un incontro con il commissario del Comune. Le priorità sono più spicce: «Vulimm c’a spariscono! (...)». In Comune qualsiasi tentativo di pacificazione da parte delle autorità viene bocciato per acclamazione: «Vergogna! Buffoni! Nun vulimm chiacchiere. Devono andarsene tutti e subito». Una delegazione di rosarnesi, in cui trovano posto due ex membri del Consiglio comunale sciolto per mafia, ottiene udienza ma la situazione non si sblocca. Alle 18, dopo l’annuncio della creazione di una task force, la folla dà un ultimatum alla polizia: «Risolvete la situazione in due ore o li lassat ind’e mani nostr».

Li lassat ind’e mani nostri, perchè «qui abbiamo tutte le armi che vogliamo». Non c’è da dubitarne, a Rosarno il porto d’armi è un regalo da prima Comunione, ed è la Questura a dare i porto d’armi come caramelle.

Ancora dalla cronaca: «Chi può imbraccia un’arma», «u frat d’Carmela» sale sul terrazzo e spara in aria un paio di colpi di fucile. Un’ambulanza viene fermata perché si sparge la voce che «porta un niro»… Uno torna a casa, sale su una ruspa e gira per le strade a caccia di neri: arrestato, è accusato di tentato omicidio.

Parte l’assalto al municipio, «Spingimm! Spingimm!» con ondate periodiche respinte dai poliziotti fermi all’ingresso, dietro l’accampamento Rognetta, colpi di arma da fuoco e due immigrati feriti alle gambe. Poco dopo, dall’altra parte della città, altri due extracomunitari s’imbattono in una ronda: il pestaggio li manda all’ospedale, uno in condizioni gravissime.

La polizia, ridotta all’impotenza, nota e segnala che a guidare le proteste dei rosarnesi contro «i niri» ci sono noti picciotti delle cosche locali.

Insomma, alle strette, la popolazione di Rosarno si stringe attorno alla sua mafia, fa corpo coi criminali da cui si è lasciata governare, al punto da dar loro il Comune. I braccianti negri chiedono protezione alla polizia, come si fa in un Paese che per equivoco credono civile; i rosarnesi in piazza invece si scagliano contro la polizia: «Sbirri! Lasciateli a noi!». E mandano qualche agente in ospedale.

E passi per i rosarnesi, cittadini votanti di Comune mafioso. Ma che mi dite di Maroni, il ministro dell’Interno?

La sua prima reazione: «Troppa tolleranza con i clandestini». Alle strette, quando si tratta di scegliere da che parte stare, anche Maroni  il nordico sta dalla parte della ndrangheta, dei caporali mafiosi che sfruttano i clandestini e li ammazzano pure, perchè non si ribellino. E lo dice a nome del Nord.

Quello che vuole «meno tolleranza coi clandestini», ma il cui ministro di Polizia «tollera» i caporali calabresi e ha lasciato Castelvolturno ai casalesi, l’edilizia ai mafiosi, le strade di Napoli ai  camorristi padroni della monnezza. In Campania come in Sicilia, i «disoccupati organizzati» bruciano cassonetti ogni settimana, bloccano le strade in manifestazioni «contro la chiusura» di questa e quella fabbrica inutile, e i ministri vanno a rabbonirli e a promettere loro «il lavoro». Ma quelli non sono lavoratori, basta vedere le loro facce, quanto sono diverse da quelle dei negri raccoglitori agricoli.

Non vogliono immigrati? Vadano a raccogliere loro i pomodori e le arance: a Sud il lavoro c’è per chi non sa leggere nè scrivere, e non sa parlare se non in dialetto, e crede che i moldavi vengano dall’Africa. Ci mandino i loro figli, «giovani disoccupati meridionali».

Macchè: meglio raccomandarsi per fare i portantini e anche i primari all’ospedale di Vibo Valentia, dove si entra per un’appendicite e si esce nella bara. A loro, a noi italiani, va bene così. Niente violenza, contro la delinquenza che occupa intere regioni e le governa.

Scontro di civiltà: vincono i negri 1 a 0. Troppe cose ci hanno insegnato a Rosarno. Come faremo a re-impararle tutte?



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