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Dedicato agli economisti. Cosiddetti
20 Gennaio 2010
La parola a Maurice Allais
Il punto di vista che qui esprimo è quello di un teorico insieme
liberale e socialista. I due concetti sono nella mia mente
indissociabili, la loro opposizione mi pare false e artificale.
L’ideale socialista consiste nell’interessarsi all’equità nella
ridistribuzione delle ricchezze, mentre i veri liberali si preoccupano
dell’efficacia della produzione della stessa ricchezza. Ai miei occhi,
sono due aspetti complementari della stessa dottrina. Ed è precisamente
in quanto liberale mi autorizzo a criticare le insistite posizioni
ripeture dalle grandi entità sovrannazionali in favore di un
libero-scambismo applicato ciecamente.
Il fondamento della crisi: l’organizzazione mondiale del commercio
La recente riunione del G-20 ha di nuovo proclamato la sua denuncia del
“protezionismo”, denuncia assurda ogni volta che viene espressa senza
sfumatore, com’è nel caso attuale. Siamo davanti a ciò che chiamo “i
tabù indiscussi” i cui effetti perversi si rinforzano e si moltiplicano
nel corso degli anni. Perchè liberalizzare tutto, come si comincia a
verificare, porta ai peggiori disordini. Al contrario, fra le tante
verità che vengono taciute si trova il fondamento vero dell’attuale
crisi: è l’organizzazione del commercio globale, che bisogna riformare
profondamente, e prima ancora dell’altra grande riforma altrettanto
indispensabile, quella del sistema bancario.
I grandi dirigenti del pianeta mostrano ancora una volta la loro
ignoranza dell’economia, in quanto confondono due generi di
protezionismo. Alcuni sono nefasti, mentre altri sono del tutto
giustificati. Nella prima categoria si trova il protezionismo fra
Paesi con salarii paragonabili, protezionismo non auspicabile. Ma per
contro, il protezionismo tra Paesi con livelli di vita molto differenti
è non solo lecito, ma assolutamente necessario. E’ il caso della Cina,
verso la quale aver soppresso le protezioni doganali alle frontiere è
semplicemente folle. Ma lo stesso vale anche verso Paesi più vicini,
inclusi alcuni in seno all’Europa. Basta interrogarsi sul modo di
lottare contro costi di produzione cinque o dieci volte inferiori per
capire che la concorrenza non è sostenibile in questi casi.
Specialmente di fronte a concorrenti indiani e cinesi che, oltre al
minimo costo della manodopera, hanno competenze e spirito d’intrapresa.
Dato che l’alta disoccupazione attuale è dovuta a questa
liberalizzazione totale del commercio, la strada presa dal G-20 è
altamente nociva. Essa sarà un fattore di peggioramento della
situazione sociale. E’ una scemenza di prima grandezza, che parte da un
controsenso incredibile; esattamente come attribuire la crisi del 1929
a cause protezionistiche è un controsenso storico. La sua vera origine
fu nello sviluppo sconsiderato del credito negli anni che l’hanno
preceduta. Le misure protezionistiche applicate dopo l’arrivo della
crisi hanno certamente contribuito a meglio controllarla.
Siamo dunque di fronte ad una ignoranza criminale. Che il direttore
generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (nel 2005) Pascal
Lamy abbia chiesto un’accelerazione delle liberalizzazioni globali mi
pare un equivoco monumentale, direi mostruoso. Gli scambi,
contrariamente a quel che pensa Lamy, non vanno considerati un fine in
sè; non sono altro che un mezzo. Questo individuo, che prima era a
Bruxelles come commissario europeo al commercio, non capisce niente,
purtroppo. Di fronte a questa ostinazione suicida, avanzo la mia
proposta: bisogna delocalizzare Pascal Lamy, una delle cause maggiori
della disoccupazione.
Più concretamente, le regole da applicare sono di una semplicità
assoluta: la disoccupazione viene dalle delocalizzazioni, a loro volta
dovute a troppo grandi differenze salariali. Dunque, ciò che si deve
fare risulta evidente di per sè: è necessario stabilire una legittima
protezione. Da più di un decennio ho proposto di creare degli insiemi
regionali più omogenei, unendo in una zona economica diversi Paesi
quando questi presentano le stesse condizioni di reddito e le stesse
condizioni sociali. Ognuna di queste “organizzazioni regionali”
dovrebbe essere autorizzata a proteggersi ragionevolmente contro le
disparità dei costi di produzione che assicurano vantaggi indebiti a
certi Paesi concorrenti; ciò, pur mantenendo allo stesso tempo,
all’interno di ogni zona, le condizioni di una sana e reale concorrenza
tra i suoi membri associati.
Il sistema che propongo non costituirebbe un danno per i Paesi in via
di sviluppo. Oggi, le grandi imprese li utilizzano per i loro bassi
costi, ma partirebbero se i salari aumentassero troppo. Questi Paesi
hanno interesse ad adottare il mio principio e ad unirsi ai loro vicini
dotati di un livello di vita simile, per sviluppare anche loro un
mercato interno abbastanza ampio da sostenere la loro produzione, ma
anche abbastanza equilibrato da far sì che la concorrenza interna non
si fondi soltanto sul mantenimento di salari bassi.
Ciò potrebbe applicarsi ad esempio ai Paesi dell’est dell’Unione
europea, che sono stati integrati senza riflessione sufficiente, ma
anche a quelli dell’Africa e dell’America latina.
L’assenza di tale protezione porterà alla distruzione di ogni attività
di ogni Paese con reddito più elevato, ossia di tutte le industrie
dell’Europa occidentale e quelle dei Paesi sviluppati. Mi sembra
scandaloso che le imprese chiudano dei siti redditizi in Francia o
licenzino, mentre ne aprono nelle zone a costi minori (...). Se non è
posto alcun limite, possiamo già annunciare ai francesi quanto segue:
un aumento drammatico della distruzione di posti di lavoro, della
disoccupazione - non soltanto nell’industria, ma anche nell’agricoltura
e nei servizi.
Non faccio parte degli economisti che usano il termine “bolla”. Sono
d’accordo che ci sono movimenti che si generalizzano, ma la parola
“bolla” mi sembra sbagliata per descrivere la disoccupazione prodotta
dalle delocalizzazioni. In effetti la sua progressione riveste un
carattere permanente e regolare da oltre trent’anni. L’essenziale della
disoccupazione che subiamo risulta precisamente da questa
liberalizzazione sconsiderata del commercio su scala mondiale, senza
preoccuparsi del livello di vita. Non è una bolla, ma un fenomeno di
fondo, com’è la liberalizzazione degli scambi.
Crisi e mondializzazione sono legati
I grandi dirigenti mondiali preferiscono riportare tutto alla moneta;
ora, questa è solo una parte del problema. Crisi e mondializzazione
sono legati. Regolare solo il problema monetario non basterà, non
regolerà l’essenziale, che è la nociva liberalizzazione degli scambi
internazionali. Il governo attribuisce le conseguenze sociali delle
delocalizzazioni a cause monetarie: è un errore folle.
Per quanto mi riguarda, ho combattuto le delocalizzazioni nei miei
scritti pubblicati, sicchè il mio messaggio è noto. Mentre i fondatori
del mercato comune avevano previsto dei ritardi di diversi anni prima
di liberalizzare gli scambi con i nuovi membri accolti nel 1986, in
seguito abbiamo aperto l’Europa senza precauzione e senza lasciare
delle protezioni esterne di fronte alla concorrenza di Paesi dotati di
costi salariali tanto bassi, da rendere illusorio difendersene.
Se il lettore vorrà riprendere le mie analisi sulla disoccupazione, che
ho pubblicato nei due decenni passati, constaterà che gli eventi che
viviamo oggi sono stati non solamente annunciati, ma descritti nei
particolari. E tuttavia, le mie analisi hanno goduto di un’eco sempre
più limitata sulla grande stampa. Questo silenzio obbliga a
interrogarsi.
Un Nobel telespettatore
I commentatori economici che vedo parlare regolarmente alla TV per
analizzare le cause della crisi attuale sono gli stessi che prima
venivano ad analizzare la buona congiuntura con perfetta serenità. Non
avevano annunciato l’arrivo della crisi, e non propongono niente di
serio per uscirne. Ma li si invita ancora ai talk show.
Quanto a me, non sono stato mai invitato in televisione quando
annunciavo e scrivevo, oltre dieci anni fa, che si sarebbe prodotta
presto una crisi di prima grandezza accompagnata da disoccupazione
incontrollata. Faccio parte di coloro che non sono stati ammessi a
spiegare ai francesi quali sono le origini reali della crisi, mentre
venivano spossessati di ogni potere reale sulla loro moneta, a profitto
dei banchieri. In passato ho fatto arrivare a certe trasmissioni
sull’economia - alle quali assistevo come telespettatore - che ero
disposto ad andarvi a parlare: di cosa? Di quel che sono divenute a
poco a poco le banche attuali, del ruolo veramente pericoloso dei
traders, e del perchè certe verità nei loro confonti vengono taciute.
Nessuna risposta, nemmeno negativa, è mai venuta da alcuna catena
televisiva in questi anni.
Questo atteggiamento ripetuto solleva un problema sui grandi media in
Francia: certi esperti vi sono autorizzati, altri invece proibiti.
Benchè io sia un esperto internazionalmente riconosciuto sulle crisi
economiche, specie quelle del 1929 o del 1987, io resto un
telespettatore. Un premio Nobel... telespettatore.
Mi trovo di fronte alle affermazioni degli specialisti che sono
regolarmente invitati in TV, e che garantiscono di capire bene quel che
accade e che cosa bisogna fare. Invece in realtà non capiscono nulla.
La loro situazione somiglia a quella che constatai nel 1933 negli Stati
Uniti, dove ero andato con lo scopo di studiare la crisi che vi
infuriava, coi suoi disoccupati e i suoi senza-tetto. Vi regnava una
incomprensione intellettuale totale. C’è chi si inganna doppiamente in
quanto ignora la propria ignoranza; ma altri, che conoscono e perciò
dissimulano, ingannano i francesi.
Questa ignoranza, e soprattutto la volontà di nasconderla grazie a
certi media, dimostrano un imputridimento del dibattito e
dell’intelligenza, a causa di interessi particolari legati al denaro.
Sono interessi che vogliono che il sistema economico attuale perduri
tal quale, in quanto funziona a loro vantaggio. Tra questi interessi si
trovano le multinazionali che sono i principali beneficiari, con gli
ambienti borsistici e bancari, di un meccanismo economico che li
arricchisce nel momento stesso in cui impoverisce la maggioranza della
popolazione, francese ma anche mondiale.
Ciò pone la domanda: quanto sono veramente liberi i grandi media? Parlo
della loro libertà riguardo al mondo della finanza e alle sfere della
politica. Seconda domanda: chi detiene il potere di decidere che un
esperto è autorizzato o non autorizzato ad esprimere un libero commento
sulla stampa? Ultima domanda: perchè le cause di tale crisi sono
presentate ai francesi da queste personalità che non comprendono
profondamente la realtà economica? Si tratta di ignoranza da parte
loro? Quelli che detengono il potere di decisione ci lasciano la scelta
tra ascoltare degli ignoranti o degli ingannatori.
di Maurice Allais
Traduzione di Maurizio Blondet
Fonte > Il faut protéger le travail contre les délocalisations, par Maurice Allais, prix Nobel d’économie
Un premio Nobel francese - dunque coi titoli “giusti” per il
conformismo mediatico, e per l’orgoglio nazionale - non è mai stato non
si dice consultato in questi anni dai governi francesi, ma nemmeno
invitato in TV a fare da innocuo controcanto all’ideologia unica;
nemmeno come personaggio “strano” con strane idee. E’ veramente un caso
singolare di censura. Nel mondo della “libertà”.
Risultato: ecco com’è progredita la disoccupazione in Francia.

(Maurizio Blondet)
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