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A chi studia troppo Giavazzi
21 Gennaio 2010
La ‘crisi’, intesa come crollo dei mercati azionari, non è prevedibile
per definizione. Se io sapessi che domani il mercato crollerà, venderei
subito; se tutti lo sapessero, il crollo sarebbe di oggi, e non di
domani. Quando porta questo discorso alle estreme conseguenze, conclude
che i prezzi di oggi riflettono già tutta l’informazione disponibile.
Non è difficile, naturalmente, trovare persone che predicano crolli
repentini dei mercati azionari: ma queste previsioni vengono celebrate
solo quando si realizzano, mentre non vengono criticate quando non si
realizzano. Non mi dica, la prego, che sto cercando di difendere
qualcuno: avrei scritto la stessa cosa se i nomi che menziona avessero
sostenuto di aver previsto la crisi. Le sto solo riportando lo stato
dell’arte nella scienza economica su questo punto.
Sul contenuto dell’articolo, che parla principalmente della relazione
tra disoccupazione e integrazione internazionale, vorrei parlare un po’
più estensivamente. Credo di capire che Allais auspichi la creazione di
zone con livelli di sviluppo economico omogenei, all’interno delle
quali avere scambi liberi, e tra le quali avere scambi protetti. Mi
pare che questa soluzione non convenga a nessuno. Non conviene certo ai
Paesi in via di sviluppo, chiamiamoli ‘Cina’. Questi Paesi hanno
ottenuto enormi progressi nel tenore di vita dei loro abitanti
esattamente perchè sono in grado di produrre merci di qualità
comparabile a prezzi più bassi. Non conviene neppure ai Paesi
sviluppati, chiamiamoli ‘USA’, o Francia, per Allais, o anche Italia,
per noi. Il computer su cui io e lei scriviamo, per esempio, ci sarebbe
costato molte volte di più. Va bene, dirà, ma qui stiamo guardando a
noi come consumatori. Che succede al mercato del lavoro? Non c’è
evidenza empirica di una relazione positiva tra livelli di
disoccupazione di un Paese e livelli di integrazione commerciale su
orizzonti di lungo periodo, 20-30 anni per esempio. Il motivo è che
quando i lavori vengono distrutti in un settore particolare, i
lavoratori si riallocano in settori diversi con occupazioni simili; se
sono giovani, anche in occupazioni diverse - i lavori insegnano
qualcosa anche ai lavoratori stessi. Su orizzonti più brevi non c’è
molta ricerca empirica, ed il motivo è che - fino ad un periodo
relativamente recente - non c’erano molti dati, e gli avanzamenti
teorici sono stati limitati dalla complessità dei modelli necessari a
studiare questi fenomeni. Noti che in ogni caso, se voglio sostenere
che questi costi di breve termine sono ‘importanti’, devo dare un peso
relativo a presente e futuro da un lato, nuove e vecchie generazioni
dall’altro. Qual è il peso giusto? Non lo so. Ma non lo sa neppure
Allais (torno sotto su questo punto).
La disoccupazione in Francia - cosi come in Italia - è causata da un
mercato del lavoro estremamente rigido (mi perdoni, ma non capisco come
leggere il suo grafico: cosa sono i numeri negativi?). Su questo sì, ci
sono assodate ragioni teoriche ed evidenze empiriche. Le faccio un solo
esempio: se fa un istogramma della dimensione delle imprese italiane in
termini di numero di dipendenti, c’è un picco abnorme al numero 14. Il
motivo è che il 15esimo dipendente è estremamente costoso (si applica
lo Statuto dei Lavoratori su tutti e 15). Certo, saremmo tutti contenti
di avere la stabilità del posto di lavoro: ma non la otteniamo per
legge. Per legge, otteniamo che molte imprese si fermano a 14
dipendenti.
La storia che ho raccontato sul commercio è estremamente semplificata.
Sono tutte rose e fiori? No, ovviamente. Ci sono moltissimi studi,
pubblicati in tempi recenti e lontani, che parlano delle conseguenze
della globalizzazione. Non li sto riassumendo, e non vorrei essere
criticato per avere punti di vista ‘parziali’. Il campo di ricerca è
estremamente attivo, e si è rinvigorito negli ultimi 10-15 anni per via
di notevoli progressi teorici e maggiore disponibilità di microdati
(dati a livello individuale, di impresa e di lavoratori). Molti
studiosi hanno versioni non pubblicate dei loro lavori, molto vicine a
quella finale, sulle loro homepage. Lo dico perchè credo che un
approccio scientifico a queste questioni aiuterebbe tutti. E vorrei
assicurare che l’ideologia conta molto meno della reputazione: quando
uno studioso va in una università a presentare una ricerca, viene
facilmente ridicolizzato quando dice cose sbagliate.
Questo mi porta ad una ultimissima considerazione. L’argomento per il
quale Allais è un premio Nobel, ergo Allais ha ragione (ma viene
ignorato da tutti gli ideologi ufficiali), non è un argomento solido.
Allais ha vinto il premio Nobel per importantissimi contributi alla
formalizzazione matematica della scienza economica, il che non
garantisce che sappia parlare di tutta l’economia in generale, e di
integrazione internazionale in particolare. Tutti possono parlare di
tutto, per carità. Il punto di vista di Allais è legittimo come quello
di chiunque altro. Ma l’economia è specialistica (oggi molto più di
50-60 anni fa): se volessi curarmi l’ulcera, non andrei da un otorino.
Direttore, la rigrazio se avrà voluto leggere questa lettera fino in
fondo. Ho scritto senza animosità, per darle il punto di vista di una
persona che studia queste cose quotidianamente, e con il solo interesse
ad avvicinarsi alla verità.
La saluto cordialmente.
Ferdinando»
Caro Ferdinando di Trieste,
non sono d’accordo con le sue osservazioni. Nè Allais nè (molto più
modestamente) io intendiamo per «crisi» il crollo dei mercati azionari,
imprevedibile per definizione. Intendiamo la grande depressione che
abbiamo sotto gli occhi, col crollo epocale del commercio, del credito,
delle produzioni industriali, e le decine di milioni di disoccupati nei
Paesi (ex) sviluppati. E questa crisi è provocata proprio e
direttamente, come dice Allais, dal «commercio internazionale». Ossia
dalla globalizzazione, che a sua volta consiste nell’eliminazione
obbligatoria dei dazi sulle importazioni, e nel «libero movimento di
capitali».
Provo ad illustrarle il perchè.
Con la globalizzazione, il salario dell’operaio italiano, 1.200 euro
mensili, viene messo in concorrenza diretta con il salario cinese,
diciamo 70 euro mensili. Il calcolo delle multinazionali fautrici della
globalizzazione era questo: produciamo i beni in Cina, dove la
manodopera costa 70 euro, e li vendiamo in Europa e in USA, i Paesi ad
alto potere d’acquisto.
Il guaio è che l’alto potere d’acquisto tende a sparire da Europa ed
USA, perchè i posti di lavoro per gli operai a 1.200 euro sono emigrati
in Cina. Infatti, da noi, i salari stagnano o calano, e i lavori
diventano sempre più precari, e la disoccupazione giovanile aumenta.
Come vendere le merci prodotto a buon prezzo in Asia?
Ecco la «soluzione» trovata dai globalizzatori: l’espansione del
credito al consumo. Tu, lavoratore occidentale, con la tua paga non
puoi permetterti il televisore Sony, il telefonino Nokia, l’auto
coreana? Noi, banche, ti facciamo credito. Quel che il salario ti nega
in potere d’acquisto stagnante o calante, le banche ti offrono
facendoti prestiti facili. Ciò che perdi in busta paga, ti viene
compensato dal credito. Su cui s’intende pagherai gli interessi.
Il trucco è stato applicato col massimo rigore teorico in USA e in Gran
Bretagna, che non a caso sono i Paesi del massimo indebitamento
privato. Il rischio che americani ed inglesi consumatori alla fine non
riuscissero a pagare i ratei del mutuo o della carta di credito perchè
sovra-indebitati su salari calanti, non preoccupava le banche, perchè
avevano trovato un altro trucco: la cartolarizzazione, la
securitisation. Le banche hanno trasformato i debiti dei consumatori in
«titoli ad interesse», e li hanno rifilati a risparmiatori e fondi, che
cercano appunto titoli che rendano interessi. Insomma, le banche si
sono liberate dal rischio del prestare, e l’hanno passato ad altri.
Da qui la crisi dei mutui subprime. Una ragazza-madre negra, cameriera
in un bar, 800 dollari al mese di reddito, viene attratta a contrarre
un mutuo per una casa da 400 mila dollari. Ovviamente, la ragazza-madre
finisce per non poter pagare, e tutto va a pallino. Lo stesso con le
auto: in USA, i concessionari offrivano non solo la copertura al
credito al 100%, ma persino 3 mila dollari in contanti a chi comprava
l’auto nuova: torme di clandestini messicani si sono precipitati, non
foss’altro per quei 3 mila dollari in contanti mai visti. Ovviamente,
poi, non pagavano.
Che importa? Il loro debito era già in mano di decine di ignari «investitori», che volevano titoli per lucrare interessi.
Così l’insolvenza delle ragazze-madri e dei messicani clandestini, o la
prodigalità dei detentori di cinque o dieci carte di credito, ha
determinato il crollo dei mercati finanziari, dei titoli ad alto e
sicuro rendimento.
Da dove trae, caro amico, l’idea che la crisi economica «è
stata causata da una serie di interferenze politiche nel mercato dei
mutui americani, ed alcune altre concause nella regolamentazione dei
mercati finanziari»?
Queste sono giustificazioni alla Giavazzi, che accusa «lo Stato» e le
supposte interferenze politiche per assolvere i «mercati» finanziari.
Lei legge troppo i libri di Giavazzi. La vera causa, la causa di fondo
della grande crisi in corso, è la perdita del potere d’acquisto dei
consumatori-lavoratori occidentali, causata a sua volta dalla
concorrenza asiatica sui salari, e «compensata» con l’espansione
inverosimile, e irresponsabile, del credito facile.
Un insieme di trucchi che non era sostenibile. E la cui insostenibilità
era perfettamente prevedibile a menti intellettualmente oneste come
Allais.
Oggi viviamo la distruzione di intere economie reali avanzate che
finisce per nuocere alle banche stesse. Oggi, per esempio, in Italia, i
giovani entrano tardissimo nel mondo del lavoro o non ci entrano mai
(perchè i lavori sono emigrati in Asia), e restano precari a vita: e a
dei precari permanenti le banche non possono accendere mutui, nè fare
prestiti al consumo. Del resto, anche la richiesta di credito si è
ridotta al lumicino, nella grande depressione in corso.
Allais propone zone di libero commercio solo tra Paesi a tenore di vita
comparabile, come sarebbe l’Europa occidentale. Lei obietta: «Mi
pare che questa soluzione non convenga a nessuno. Non conviene certo ai
Paesi in via di sviluppo, chiamiamoli ‘Cina’. Questi Paesi hanno
ottenuto enormi progressi nel tenore di vita dei loro abitanti
esattamente perchè sono in grado di produrre merci di qualità
comparabile a prezzi più bassi. Non conviene neppure ai Paesi
sviluppati, chiamiamoli ‘USA’, o Francia, per Allais, o anche Italia,
per noi. Il computer su cui io e lei scriviamo, per esempio, ci sarebbe
costato molte volte di più».
Ancora una volta, lei fa il ventriloquo di Giavazzi. E’ il robot
Giavazzi che, di fronte ai disoccupati nazionali, che hanno perso i
posti di lavoro andati in Cina e in Romania, replica: «Ma i cinesi, i
romeni stanno meglio». E chi se ne frega dei cinesi, se qui i nostri
figli non trovano lavori qualificati. L’economia politica non è la
stessa cosa che l’economia aziendale. Le aziende possono
«esternalizzare» i costi, licenziare i lavoratori poco produttivi o in
sovrapiù. Uno Stato non può esternalizzare i suoi lavoratori, i suoi
vecchi, i suoi disoccupati, i suoi bambini in età pre-lavorativa: sono
«costi» che deve continuare ad accollarsi.
Lei si rallegra: «Il computer su cui scriviamo, senza la globalizzazione, ci sarebbe costato molto di più».
Anche i telefonini, se è per questo. Magari non tanto di più, visto che
avevamo industrie di questo settore, devastate dalla competizione
asiatica. Mettiamo il 10% in più. Un telefonino da 100 euro, Made in
Europe, 110 euro. Ma per risparmiare 10 euro su un telefonino, abbiamo
sacrificato generazioni di giovani ingegneri che non trovano lavoro
qualificato per il quale hanno studiato. Per risparmi sui consumi
elettronici, abbiamo ceduto competenze umane e professionali,
necessarie ad una nazione e all’Europa, e che sarà molto difficile
ricostruire, e forse non ricostruiremo mai più. Perchè oggi solo i
taiwanesi e i cinesi o gli indiani sanno ancora fabbricare computers,
TV hd a cristalli liquidi, software e microchip, mentre noi non li
sappiamo più fare. Ma li sapevamo fare, anzi in gran parte erano
invenzioni europee o americane.
Questo è il «costo» che i Giavazzi non calcolano mai, caro lettore:
l’impoverimento delle risorse umane, delle intelligenze e delle
competenze professionali, tecniche e scientifiche, che l’Europa (e
l’America) hanno perso cedendo le produzioni industriali ai Paesi a
basso salario. Una perdita irreversibile dopo due o tre generazioni che
si abituano ad non aspettarsi nessun altro lavoro se non i call center
o le veline in discoteca.
In Italia, l’ignoranza dei giovani diventa ogni giorno più abissale –
lo constato dalla lettere che ricevo – ma il motivo di fondo è sempre
quello: la globalizzazione. Perchè dovrebbero studiare ingegneria
elettronica, faticare a imparare la chimica fine, l’ingegneria nucleare
o la matematica avanzata, o anche il latino e il greco antico, se poi i
posti di lavoro per queste competenze rare non si trovano più? Se gli
sbocchi sono solo lavori precari nel «terziario»?
Questa perdita è immensa, perchè porta gli europei a ridursi al livello
degli indios peruviani, a vivere di stracci e di pannocchie, da
residuati di una civiltà migliore e superata.
Se l’Europa avesse messo i dazi sui televisori hd, sui telefonini e i
laptop, caro amico, per un po’ li avremmo pagati di più, ma avremmo
sviluppato e lasciato crescere le nostre industrie in questo settore.
Avremmo impiegato competenze e professionalità e creatività; e col
tempo, anche i nostri computer sarebbero diventati competitivi. E
avremmo dato dignità e fiducia in sè a generazioni che oggi si sentono
prive di futuro, senza scopi nella vita, e invecchiano da bamboccioni
senza spina dorsale e senza carattere: perchè è il lavoro che dà
dignità e carattere, è la coscienza del senso della propria fatica che
fa maturare e diventare adulti.
I Giavazzi non tengono conto di questi costi – i costi della
distruzione delle speranze e prospettive di intere generazioni – perchè
non sono monetizzabili, e non vengono quotati in Borsa. Ma sono proprio
i valori non quotati quelli più inestimabili.
E’ per questo che non sono d’accordo quando mi dice che «l’economia è specialistica» e «ha fatto grandi progressi»
da quando Allais ha preso il Nobel. Negli ultimi decenni, gli
«economisti» che hanno preso i Nobel erano tutti matematici,
specialisti in sistemi per vincere in Borsa, praticamente di sistemi
per vincere nel gioco d’azzardo; privi dell’esperienza umana,
umanistica, che richiede l’economia politica, l’economia a cui deve
guardare lo Stato, inteso come il garante nei secoli di una comunità. A
questi Nobel non importava nulla se l’America e l’Europa si
impoverivano di competenze e di dignità e di intelligenze. Inoltre, per
loro, il «rischio» di credito era solo un parametro, utile a chiedere
maggior interessi: tutta una «scienza» economica, dei derivati e dei
CDS (Credi Default Swaps), è nata per valutare questo «rischio» inteso
come occasione di maggiori interessi.
Piccolo particolare: questi genii ignoravano che nell’economia reale,
un «rischio di credito» che si avvera significa la chiusura di aziende
per fallimento, il licenziamento di lavoratori, il collasso del potere
d’acquisto e alla fine, anche la bancarotta degli «operatori
finanziari» che avevano assicurato il «rischio».
Ed oggi, a che si riduce tutta la scienza di questi genii dei mercati?
In USA, si riduce a prendere a prestito dalla Federal Reserve denaro a
tassi dello 0,5%, e a investire questo denaro in Buoni del Tesoro
americani al 3,75%. Capirai. Ovviamente, questa operazione non porta
alcun valore aggiunto all’economia, anzi avviene a spese dei
contribuenti. E’ un comportamento criminale, ancorchè «scientifico».
Studi anche un po’ di economia politica, caro giovane lettore
Ferdinando. Studi i testi di Friedrich List, il grande avversario di
Adam Smith, che insegnò a tutti gli Stati europei a creare ricchezza,
modulando i dazi.
Lo dico a lei: perchè temo molto che le «competenze» che lei sta
acquistando con lo studio quotidiano dell’economia liberista
«scientifica», presto non varranno più molto sui «mercati».
Maurizio Blondet
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