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L’America come l’URSS, soffocata dalle sue armi
12 Febbraio 2010
La nuova dottrina militare russa prevede l’uso preventivo di bombe atomiche contro aggressori potenziali: così nel documento da poco firmato dal presidente Dimitri Medvedev, «Fondamentali della politica di Stato sulla deterrenza nucleare fino al 2020». La dottrina precedente, risalente ai tempio sovietici, dichiarava che le armi nucleari sarebbero state usate solo in risposta ad un attacco nucleare. Ma il cambiamento è una risposta persino tardiva alla mutata dottrina americana, dato che già nel decennio Bush, auspice il ministro Rumsfeld e i neocon, il Pentagono s’è dato il diritto di condurre guerre nucleari «limitate», e a questo scopo ha messo a punto testate di ridotta potenza. (Russia for nuke strikes against potential aggressors)
P.J. Crowley
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Il mutamento russo, del resto, replica alle nuove iniziative militari anti-russe della presidenza Obama. Non solo continua il programma Bush di dispiegamento di missili antimissile in Polonia, a ridosso dell’enclave russa di Kaliningrad (la sola differenza è che si pensa adesso a basi mobili, navali); anche in Romania saranno postate batterie di missili antimissile USA tipo SM-3 dal 2015, allo scopo «di proteggere le nostre truppe avanzate e i nostri alleati NATO contro le attuali e future minacce di missili balistici dall’Iran», come ha detto (senza ridere) P.J. Crowley, portavoce del Dipartimento di Stato. Un annuncio a cui «gli alleati NATO» hanno risposto facendo subito sapere che, loro, non hanno partecipato alla decisione, presa da USA e Romania. Una novità per la quale il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha detto di «aspettarsi spiegazioni» dagli americani.
Intanto, le prospettive di uno START-II, ossia di una riduzione concertata e reciproca degli armamenti nucleari, che Mosca aveva offerto ad Obama agli inizi della sua presidenza, hanno subito una improvvisa battuta d’arresto.
Il fatto è che Obama (o chi per lui), mentre ha promesso di congelare le spese pubbliche generali, ha aumentato quelle militari. Di una misura tale, che persino le industrie militari sono, benché compiaciute, stupefatte: «Ci dicevano da anni che quando un democratico va al potere, butta male per i programmi di armamento. Invece la spesa continua…». (The Defense Industry Is Pleased with Obama)
Sotto Obama, il bilancio totale del Pentagono sfiora gli 880 miliardi di dollari, a cui vanno aggiunti 70 miliardi per programmi segreti, l’aiuto militare ai Paesi «amici» (Israele anzitutto, poi Egitto e Pakistan), il costo dei 250 mila «contractors» privati. Senza dimenticare i 75 miliardi di dollari per le 16 (diconsi sedici) agenzie di intelligence, che contano 200 mila impiegati: una cifra, quest’ultima, che equivale da sola al quadruplo delle spese militari del Canada.
Eric Margolis, analista che scrive sul Toronto Sun, mette in prospettiva il peso mostruoso del gigantismo militare americano. Le spese militari USA divorano il 19% del bilancio federale, e il 44% degli introiti fiscali. Da solo, il Pentagono conta per la metà delle spese militari di tutto il mondo, che diventano il 75% se vi si aggiungono le spese dei ricchi alleati nella NATO e del Giappone.
Le spese militari di Cina e Russia riunite – le due superpotenze che gli USA dichiarano potenziali nemici – non sono che il 10% delle spese militari americane. Le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq sono costate finora mille miliardi di dollari, e quest’anno ne costeranno altri 200-250 mila.
E il tragicomico è che gli USA si pagano questa immane armatura bellica a credito: «Il deficit di bilancio di Washington, ossia la differenza fra spese e introiti delle tasse, toccherà la cifra vertiginosa di 1.600 miliardi di dollari quest’anno; somma enorme che sarà prestata da Cina e Giappone, ai quali peraltro gli Stati Uniti devono già 1.500 miliardi di dollari. Il servizio del debito da solo costerà 250 miliardi di dollari».
E l’anno prossimo, il deficit sarà di altri 1.300 miliardi che si addizioneranno ai debiti precedenti. Altri 8.500 miliardi di dollari di debiti si accumuleranno nel decennio prossimo. Questa cifra va messa in proporzione con il bilancio federale annuale appena firmato da Obama: 3.800 miliardi di dollari.
«Una fattura che dovranno pagare le prossime generazioni (che non potranno)», tuona Margolis: «Ciò di cui l’America ha bisogno è un’imposta di guerra, onesta e trasparente, perchè le guerre vanno finanziate con le tasse, non con le frodi contabili. Ma se i contribuenti americani avessero dovuto pagare le guerra in Afghanistan ed in Iraq con le imposte, sarebbero già finite da un pezzo».
Le spese militari e il servizio del debito «cannibalizzano l’economia americana che è la base reale della sua potenza mondiale; gli USA hanno raggiunto il punto di rottura delle loro ambizioni imperiali. Somigliano ogni giorno di più all’impero britannico agonizzante nel 1945, schiacciato dai debiti immensi contratti per combattere la Seconda Guerra Mondiale e divenuti incapaci di difendere l’impero, pur mantenendo tutte le loro pretese».
L’altro confronto che viene alla mente ad altri analisti è quella dell’URSS: si dotò di un carapace di armi così pesante per l’economia sottostante (un prodotto interno lordo all’incirca pari a quello del Messico), che il regime finì schiacciato dai suoi stessi armamenti quando Ronald Reagan la sfidò in una ulteriore corsa agli armamenti con le «guerre stellari».
«Le spese militari americane sono raddoppiate nel decennio in cui, a forza di perdere un punto all’anno nel PIL globale, l’economia americana s’è ristetta tanto da passare dal 32% al 23% della produzione mondiale», scrive Loren B. Thompson, noto analista strategico del Lexington Institute: «Il 5% della popolazione mondiale non può sostenere la metà del totale delle spese militari mondiali mentre genera solo un quarto della produzione globale. Siamo arrivati ad un punto della storia in cui il solo modo di mantenere la nostra attuale posizione militare è di chiedere in prestito il denaro all’avversario che dobbiamo temere di più, la Cina». (The Obama Budget: More Debt Makes America Weaker)
Già. E’ il passo storico in cui il super-armamento americano riduce – anzichè aumentare – la sicurezza degli Stati Uniti. Lo denuncia con allarme persino l’esperto militare del Wall Street Journal, Gerald F. Seib, nel blog del giornale finanziario «Capital Blog». Il debito astronomico è la vera minaccia per la sicurezza nazionale, esordisce Seib:
«Il governo quest’anno si farà prestare un dollaro per ogni tre che ne spende, per lo più da Paesi esteri. Ciò indebolisce la posizione dell’America e la sua libertà d’azione; rafforza la Cina e le altre potenze mondiali, inclusi i Paesi petroliferi che dispongono di liquidità; mina la forza del sistema americano come modello per i Paesi in via di sviluppo (sic) e riduce l’aura di potenza che è stata l’intangibile, grande potere per più di un secolo... la potenza della Cina cresce in proporzione». Ma poi Seib aggiunge: «Questi bilanci per la sicurezza nazionali sono sacrosanti nell’era del terrorismo». (Deficit Balloons Into National-Security Threat)
Il virtualismo americanista ha il sopravvento.
Eppure questo esito fatale era stato previsto. Contro di esso aveva messo in guardia il presidente Eisenhower nel suo discorso d’addio il 17 gennaio 1961:
«Questa sera vengo a voi», disse il presidente, il generale della Seconda Guerra Mondiale, «con un messaggio di addio, e per condividere alcune riflessioni con voi, miei concittadini.
(…) Siamo stati obbligati a creare un’industria permanente di armamenti e di grandi dimensioni. A ciò si aggiungono i tre milioni e mezzo di uomini e di donne impiegati direttamente nella Difesa. Spendiamo ogni anno nella sicurezza militare più del reddito netto di tutte le imprese degli Stati Uniti. I fabbricanti americani di aratri possono, quando necessario, fabbricare anche spade. Ma oggi non possiamo rischiare più l’improvvisazione d’emergenza nella difesa nazionale, sicchè siamo stati obbligati a creare una industria militare permanente di vaste dimensioni».
«Questa congiunzione di un immenso establishment militare e di una grande industria di armamenti è nuova nell’esperienza americana. La sua influenza totale – economica, politica, anche spirituale – si fa sentire in ogni città, in ogni governatorato, in ogni ufficio federale. Riconosciamo il bisogno imperativo di questo. Però non dobbiamo mancare di comprendere le sue gravi implicazioni. Tutte le nostre fatiche, risorse e sistema di vita ne sono coinvolte, e anche la stessa struttura della nostra società».
«Nei consigli di governo, dobbiamo guardarci contro l’indesiderabile influenza, sia voluta o no, del complesso militare-industriale. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i processi democratici. Non dobbiamo dare nulla per acquisito.
Soltanto cittadini consapevoli e informati possono obbligare al giusto equilibrio del grande apparato industriale militare con i nostri metodi e scopi di pace, in modo che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme».
E’ un discorso notissimo. Lo insegnano nelle scuole. Ma non è servito a nulla.
Il mostro sta per morire sotto la sua corazza irta di armi, ma intanto fa stragi e semina rovine fumanti. In Iraq, dall’invasione del 2003 ad oggi, ha massacrato 1,2 milioni di abitanti (secondo un istituto di sondaggi britannico, Opinion Research Business) e ridotto alla condizione di profughi altri 2,4 milioni di iracheni, di cui un milione e mezzo sono riparati in Siria, un Paese con 20 milioni di abitanti. Morti e distruzioni incalcolate continuano ad avvenire in Afghanistan e nella frontiera del Pakistan; lo Yemen è il nuovo teatro; e Daniel Pipes (il neocon) sta dicendo ad Obama che «il solo modo di salvare la sua presidenza è bombardare l’Iran».
Una volta fabbricate in tale mostruosa quantità, le armi cercano le loro guerre.
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