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Monti è un grande economista. Presto sarà grandissimo
08 Settembre 2012
Non dimentichiamo – non dimentichiamo mai – che il grande economista, il bocconiano, bilderbergheriano, trilateralista e commissario europeo Mario Monti, quando andò al governo, credeva che il solo vero ostacolo allo sviluppo economico italiano fossero i tassisti non liberalizzati, seguiti dai farmacisti. Insomma seguiva il programma suggeritogli da Bersani con le sue «liberalizzazioni» dei piccolissimi imprenditori. Monti – i media ce lo ripetono ogni giorno – è un grande economista. Abbiamo bisogno di un economista ancora più grande: uno, magari, che s’accorga che un forte intoppo alla competitività italiana è il fatto che l’elettricità qui da noi costa alle imprese il 30% in più che in Germania. Mario Monti sta diventando un economista ancora più grande. Grazie al fatto che i lavoratori sardi sono in agitazione, perchè la multinazionale Alcoa sta per chiudere la sua fabbricona in Sardegna e la trasporta in Arabia Saudita, dove l’eneregia costa niente, ha scoperto che non solo i taxisti sono il problema, ma anche il costo dell’elettricità. L’alluminio si estrae per elettrolisi, e il costo dell’elettricità è dunque cruciale per questa industria. Ma allora come mai – si dovrebbe chiedere un grandissimo economista, ma non ancora un economista solo grande – l’Alcoa per tanti anni ha prodotto alluminio in Sardegna, dove l’elettricità costa il 30% più che in Germania? La risposta è: per i sussidi pubblici. La canadese Alcoa ha ricevuto per decenni sussidi dalla politica italiana, perchè producesse alluminio anti-economico e «salvasse i posti di lavoro». Quanto? Secondo i vari media, noi contribuenti abbiamo pagato all’Alcoa, negli anni, oltre 3 miliardi di euro. Lo stesso vale per la miniera del Sulcis. «Se tutti i soldi spesi in sussidi in questi anni fossero stati messi in mano ai singoli minatori e lavoratori di Sulcis e zone limitrofe, sarebbero stati abbastanza per finanziare una casa, una seria formazione e una nuova attività economica a ciascuno di loro. E ne sarebbero avanzati per bonificare l´intera area» (da Repubblica). La miniera fu aperta ai tempi del Duce quando l’autarchia e le inique sanzioni (come quelle imposte oggi all’Iran) obbligarono a usare qualunque risorsa energetica: il carbone del Sulcis è così ricco di zolfo da essere quasi inutilizzabile. Centinaia e centinaia di miliardi (di lire) sono stati spesi in passato «per salvare i posti di lavoro» dei minatori. A fondo perduto. In cambio dei quali i nostri politici obbligano l’ENEL, per decreto, a comprare «per otto anni l’elettricità del Sulcis a 160 lire per kwh, quando il costo medio di produzione dell’Ente è di 72 lire. Saranno i consumatori a pagare per le miniere, sotto forma di sovrapprezzo in bolletta. Il Decreto stabilisce infatti che il carbone del Sulcis dovrà essere utilizzato per fornire almeno il 51% del fabbisogno termico richiesto nella produzione di elettricità, perché possa essere venduta a 160 lire» (dai giornali). Ora, i minatori del Sulcis vogliono continuare a fare i minatori, e propongono (coi loro sindacati) di trasformare la miniera «in magazzino geologico per lo stoccaggio di anidride carbonica», cioè di buttarvi dentro le emissioni che fanno l’effetto-serra – che bello, la green economy! E arriva proprio in Sardegna! Il che però richiede un investimento di 250 milioni (di euro) per 8 anni. Tanto quanto basterebbe per dare ad ognuno dei 40 minatori un assegno da 4 milioni e 250 mila euro, con cui potrebbero, che so, aprire dei grand hotel. Mario Monti è un grande economista, infatti pensava che liberalizzati i tassisti, i problemi d’Italia si sarebbero risolti. Adesso sta diventando un economista ancora più grande, perché ha scoperto che la canadese Alcoa, finiti i sussidi pubblici che compensavano la produzione anti-economica, se ne va e lascia a spasso migliaia di lavoratori. Forse anche Monti si sta accorgendo che l’elettricità che ci costa il 30% in più che in Germania c’entra qualcosa con la nostra «bassa competitività»? Speriamo, ma frattanto il governo dei tecnici – tutti grandi economisti – sta cercando di tenere aperta la miniera di zolfo-carbone e rifilare la ex Alcoa a un concorrente dell’Alcoa (1), promettendo i soliti sussidi perché se li accolli. «Per salvare i posti di lavoro». «Salvare posti di lavoro» improduttivi è quel che in Italia si è sempre chiamata «politica industriale», almeno da 50 anni. I tecnici, e quel grande economista che si chiama Mario Monti, la stanno facendo di nuovo, anche se i soldi, disperatamente, mancano. A noi, resta un dubbio che esprimiamo con il più profondo rispetto: ma i nostri tecnici, il nostro grande economista, non sono dei fieri «liberisti»? Non esaltano il «libero mercato»? Non si insegna alla Bocconi la più intransigente, la più fiera contrarietà allo «statalismo»? All’«intervento pubblico nell’economia»? Lo domandiamo non per criticare, ma per imparare. Noi non siamo economisti. La Bocconi l’abbiamo vista da fuori. I Commissari europei, non ci conoscono. Per questo vogliamo capire com’è che, a forza di «privatizzazioni», in Italia il settore pubblico s’ingoia ancora il 52% della ricchezza nazionale, ed è ancora, anzi sempre di più, il massimo pagatore dell’economia, che ne viene distorta e resa inefficiente appunto come in un Paese comunista? Non si dice: «Meno Stato e più mercato?». Allora chiuda Carbosulcis, chiuda Alcoa e vada dove l’elettricità costa un decimo della nostra. O no? Come non-economista, mi chiedo se non viga da noi una concezione sbagliata dell’intervento dello Stato nell’economia. Ossia: sussidi per «salvare posti di lavoro» che non devono essere salvati, creazione di «posti di lavoro» nella scuola, nella burocrazia, nelle tante attività parassitarie del pubblico impiego. È questo lo «statalismo» contro cui si scagliano le anime eccelse di Von Mises e della Bocconi? Giusto. Giustissimo. Ma non vorrei che – da noi in Italia – l’adozione del liberismo di mercato sia una scusa per fregarsene dell’economia, per non studiare i problemi, per lasciare che vada a pallino da sè a forza di costi impropri, perchè «provvede il mercato». Insomma, ho il vago sospetto che il liberismo sia una delle solite maschere della irresponsabilità dei nostri politici. L’auto-esenzione dalla difficile responsabilità di fare politica industriale, che richiede competenze e studio (2). Perchè qui, sospetto, c’è un equivoco: si crede – si vuol credere che l’alternativa al «libero mercato» sia lo «statalismo», con lo Stato che gestisce direttamente le fabbriche. Ma c’è una terza via? C’è. Nei giorni in cui si è appreso che la Apple ha fatto una causa miliardaria contro la Samsung, accusandola di aver scopiazzato diversi brevetti del suo iPhone, ho chiesto in giro: sapete di dov’è la Samsung? I più ipotizzavano: giapponese. Alcuni: cinese. No. Ovviamente, la Samsung è sud-coreana. Come la Hyundai, che per chi non lo sapesse è la quarta casa automobilistica per vendite mondiali, e la prima al mondo per i profitti. La domanda è dunque: com’è che la Hyundai funziona mentre la Fiat fa schifo e presto chiuderà, lasciando a piedi decine di migliaia di lavoratori? Com’è che la Samsung riempie il mondo di TV a schermo piatto e milioni di smartphone Galaxy che rubano il mercato al gigante Apple, mentre da noi ci facciamo portar via dai cinesi il mercato dei divani Natuzzi (che, con tutto il rispetto, non è il massimo della tecnologia)? Eppure anche noi avevamo industrie elettroniche, facevamo TV e radio; tutto perduto, ora qualunque schermo in tutte le nostre case è Samsung o Sony. Perchè là fanno i computer e i tablet, e noi divani e carbone con lo zolfo? Perchè là hanno vinto con la tecnologia avanzata mentre da noi facciamo mestieri di poco valore aggiunto, che sanno fare in tutto il mondo? Eppure la Corea del Sud è un paesetto di 48 milioni di abitanti. Rimasto fino al 1945 sotto occupazione giapponese, che non era esattamente caritatevole; subito dopo, dal 1950 al 1952, devastato dalla guerra che americani e cinesi si scatenarono nel territorio coreano, che portò un paio di milioni di morti civili e regalò alla fine al Paese un PIL pro-capite pari alle contrade africane più derelitte. Voi credete che Hyundai, che Samsung siano fiori nati spontaneamente nelle selvagge praterie del «libero mercato»? Nient’affatto, amici miei. Sono il risultato vincente del più puro e duro «dirigismo», criticato più volte da Washington per la sua purezza e durezza anti-liberista. I governi coreani hanno «diretto» lo sviluppo: hanno fatto vera «politica industriale». Hanno scelto i settori più promettenti, hanno fatto scommesse su quelli che avevano più futuro, ed hanno agevolato le industrie che vi si dedicavano. Le industrie, là, sono conglomerati familiari tutt’altro che «trasparenti» al mercato, detti chaebol. Si occupano di tutto un po’ (la Samsung ha anche un settore-moda). Una volta scelto su come e cosa puntare, lo Stato ha favorito gli investimenti nei settori del futuro e li hanno aiutati con legislazione funzionale allo scopo, crediti diretti, restrizioni delle importazioni concorrenziali ed altri metodi non tutti trasparenti perchè assumessero le dimensioni di colossi capaci, appunto, di misurarsi con Apple e General Motors o Ford. I coreani sono simpatici, ma di origine contadina, come mostra la loro cucina che è una delle più saporose del mondo (se vi piace l’aglio). Bisognò elevare la loro istruzione al livello delle tecnologie in cui si intendeva trionfare. Sono state create università collegate alle grandi imprese, e mica per studiare «scienze politiche» o «scienze della comunicazione» o altri traccheggi per perdere tempo. Io le ho viste quelle università, a Seul, accompagnato da un simpatico studente che s’era offerto di farmi da guida: nella biblioteca, schiere di studenti dormivano sulle dure panche – cinque minuti di sonno (erano esausti) e poi via di nuovo a studiare, notte come il giorno, non c’era differenza: alle 2 del mattino, la biblioteca era egualmente sovraffollata, metà studiavano e metà erano crollati sfiniti sulle panche. Il sistema di studi – come quello nipponico, come quello di Taiwan – è terribilmente competitivo; si studia senza fiato per passare esami su esami; si seguono corsi complementari e ripetizioni con tutor; ci si batte con numeri chiusi spietati, severissimi concorsi a ghigliottina per le università più stimate, altrimenti si resta indietro nella scala sociale; è un sistema di terrore organizzato che farebbe ululare di dolore le mamme italiane, per «come trattano i nostri figli». Ma è un sistema che ha dato Samsung e Hyundai, mentre da noi il nostro, molto materno, dà disoccupati in Scienze della Comunicazione. Aziende sempre troppo piccole, troppo sottocapitalizzate, troppo arretrate tecnologicamente per competere con le multinazionali mondiali. E cos’altro? Ah sì, Grandi Economisti tipo Mario Monti, che non sapevano l’importanza del costo dell’elettricità come palla al piede dell’economia. Lo stesso tipo di scelta politica è stato fatto a Taiwan: diventare leader di mercato mondiale nella produzione di microprocessori. Anche lì, il governo ha creato università che sono tutt’uno con le grandi fabbriche di microchips, e sfornano il personale di cui hanno bisogno. Notoriamente si dice che se Taiwan sprofondasse nell’oceano, tutta l’industria elettronica, dai cellulari ai portatili, si bloccherebbe. Il dirigismo corre il rischio di sbagliare? Di puntare le risorse umane e finanziarie di un intero Paese su un settore che potrebbe rivelarsi un vicolo cieco? Certo. È per questo che esercitando la politica industriale, i governi dirigisti non solo sviluppano una cultura della lungimiranza, ma un senso di responsabilità verso la nazione che noi, qui, nemmeno ci sognamo: da noi i politici sono campioni di leggerezza, dei veri capiscarichi: troppi soldi e non sanno che fare, si annoiano. In Corea, quegli stessi studenti che ho visto crollare sulle panche dell’università, sono i primi a scendere in piazza a battersi contro governi che disprezzano, con bastoni di bambù affilati come lance. Naturalmente anche in Corea sono stati commessi errori, soprattutto un forte indebitamento rispetto al PIL, però non – come in Italia – allo scopo di pagare i lussi dei parassiti di Stato, bensì per l’importazione di tecnologia e materie prime. Ha preso in pieno la crisi del 1997-99 (anche quella nata in USA). Alcune fabbriche d’auto come la Daewoo, sono state acquisite (da General Motors) o fuse (la Kia con Hyundai); la cantieristica conosce alti e bassi. Ma nel complesso, il dirigismo statale, coltivato con costanza e coerenza, ha funzionato bene: un terzo e meno noto gigante, LG Group (già Lucky Goldstar) è tra i leader mondiali negli schermi al plasma e LCD, e sta sperimentando una tecnologia 3D di propria concezione. È il terzo produttore al mondo di cellulari, dopo Samsung e Sony Ericsson. Ovviamente la politica coreana ha agevolato i processi in altri modi: con 3 mila chilometri di autostrade, una vasta rete di treni ad alta velocità, energia a basso costo prodotta col nucleare: il 45% dell’elettricità viene dalle centrali, e il nucleare è diventato un business d’esportazione, grazie ad un attivissimo settore di ricerca-sviluppo in reattori avanzati, fra cui un reattore modulare di piccole dimensioni e un tipo a metallo liquefatto. È stato il primo Stato a dotare le scuole, primarie e secondarie, con banda larga a fibra ottica; l’anno prossimo distribuirà a tutti i suoi scolari il primo libro di testo digitale del mondo. I risultati dei suoi studenti nei concorsi di valutazione internazionali sono una sorta di campionato seguito con ansia da tutta la nazione, il governo ci tiene moltissimo che i suoi figurino ai primi posti – come regolarmente avviene in matematica e problem solving. Non si tratta di «intervento statale nell’economia» per «salvare i posti di lavoro». Si tratta di una politica industriale a cui l’amministrazione si applica coerentemente, a forza di lungimiranza e per intero. Con una conoscenza profonda a ravvicinata delle risorse della nazione, delle sue forze e delle sue debolezze da correggere. È un vero peccato che da noi il grande economista e i suoi tecnici siano «liberisti», ossia ignoranti di come funziona l’economia nazionale privata, perchè «ci pensa il mercato». È un vero peccato che il loro liberismo si consideri il contrario dello «statalismo», e nemmeno sappia in cosa consista il dirigismo economico, che senza sostituirsi al mercato e all’iniziativa privata, la guida verso scopi nazionali (3). Sicchè manchiamo di una politica industriale – i nostri tecnici non sanno nemmeno che cosa e dove sono le industrie italiane produttive (e quando ne identificano una, la stroncano con burocrazia e tasse) – e oscilliamo ogni tanto, sotto la spinta dei manifestanti e dei sindacati, in «difese dei posti di lavoro» tipo Sulcis, difese «spot», che durano ormai lo spazio di un mattino. Mi viene persino un dubbio: che le misure prese dai tecnici, su indicazione degli altri grandi economisti europei, per uscire dalla crisi (o anche solo per salvare l’euro) siano tutte sbagliate. E producano l’effetto contrario: le tasse più feroci riducono, anzichè accrescere, il gettito fiscale (infatti il gettito, in Italia, sta flettendo). I tagli alle pensioni e alle prestazioni sociali provocano un immediato aumento della propensione al risparmio nelle famiglie, il che contrae i consumi ancora di più, invece di rilanciarli – con conseguente flessione del gettito tributario, aumento dei disoccupati e chiusura di imprese per mancanza di consumatori solvibili. Il grande economista ha aumentato l’imposta sulla casa proprio mentre il mercato dell’immobile è stato paralizzato dalla mancanza di credito delle banche (quando lo fanno, le banche italiane chiedono il 4,8, in Germania il 3), con quel che ne deriva per l’indotto parimenti paralizzato. L’idea che a forza di tagli sociali e inasprimenti fiscali si possa ottenere la famosa «crescita» e il «rilancio», pare suggerita da un grande economista detto il Cappellaio Matto in Alice nel Paese delle Meraviglie. Tra luglio ed agosto hanno chiuso altre 41 mila imprese, altri 150 mila a spasso. Il nostro grande economista vuole «salvare l’euro» mentre Bulgaria e Turchia non ci vogliono più entrare. Il ministro bulgaro delle Finanze Djankov ha detto: «La Bulgaria vede nell’Europa e nella crisi attuale, un vero e proprio fallimento politico ed economico con prospettive di crescita nulla e sacrifici richiesti per milioni di cittadini europei, costretti a vedere peggiorare la propria situazione economica a spese di istituzioni incapaci di governare». Questo Djankov, certamente, non è un grande economista. Il nostro, Mario Monti, ha detto: «L’Italia è fuori dalla crisi. La ripresa non si vede nei numeri, ma è dentro di noi». Dentro di noi, come insegna Scientology. Vuoi vedere che ci porta dalla recessione alla Grande Depressione? Tipo 1929? L’economista francese Jacques Sapir (non è un grande economista, è solo normale: chiede l’uscita dall’euro) ha allestito una tabella che paragona le politiche di rigore che il cancelliere Bruening applicò in Germania (Allemagne) tra il 1930 e il 32 – e che provocarono la deflazione più tragica, i milioni di disoccupati e infine la vittoria di Hitler alle elezioni, e le austerità imposte oggi come «compiti a casa».
Come si vede, è vero che Monti non ha fatto tutti i compiti a casa. Del resto, non è colpa sua: non ha tagliato gli assegni familiari (allocations familiales) perchè in Italia praticamente non esistono (prima, bisogna pagare i 15 mila euro a Rosy Bindi). Non ha tagliato d’autorità i salari, perchè i nostri sono già tra i più bassi d’Europa (e poi non vuole tagliare i salari dei parassiti politici, quelli sì molto grassi). Non è ancora un grandissimo economista, ma sta per diventarlo. Come Bruening. Post Scriptum. Mentre concludo questo articolo, giovedì sera, la finanza, la Borsa, le banche, la speculazione e i TG esultano perché Draghi ha annunciato che la BCE comprerà i Buoni del Tesoro spagnoli e italiani a 3 anni senza limiti prefissati. Lo spread cala! Meraviglia, la ripresa è dentro di noi! L’EURforia delle banche è ben spiegabile: Draghi gli ricompra i titoli ubblici che queste hanno comprato a strafottere con il miliardo che Draghi ha prestato loro all’1%, da restituire – guarda la coincidenza – entro 3 anni. Quei soldi le banche non li avevano, ora li avranno. A pagare saranno Stati e cittadini, a cui le BCE imporrà dure «condizionalità», ossia altro rigore e altre cessioni di sovranità. L’esultanza dei media è dunque meno spiegabile. Quanto alla cosa in sè, un acquisto massiccio di debiti pubblici non darà che un respiro temporaneo, che durerà – ad essere ottimisti – sei mesi. Non è una cura della crisi, è morfina data al malato. Come ha notato non ricordo quale tedesco, la BCE si sta trasformando in una «bad bank» strapiena di titoli-spazzatura, invendibili: Grecia, Portogallo, Spagna non potranno mai rimborsare i titoli che la BCE comprerà: quei Paesi sono insolventi all’attuale tasso di cambio dell’euro-marco. E l’Italia? Con Monti ci proverà, costi quel che costi (a noi, mica a lui e nemmeno ai politici). Poi fallirà come gli altri, manon prima di aver fatto terra bruciata di quel che resta delle nostre imprese. Un grande economista sta diventando grandissimo.
1) Il bello è che la Alcoa non vuole cedere la fabbrica sarda alla Glencore, appunto perchè è sua concorrente diretta: dopotutto, la fabbrica è ancora di sua proprietà e non vuole danneggiarsi. Ma il governo dei tecnici, per la precisione il ministro Passera, fa pressione. Da parte di un fiero assertore del «mercato», un bell’esempio di «intervento dello Stato sull’economia» e calpestio della proprietà privata, che certo invoglierà altre imprese straniere a insediarsi da noi. 2) È superfluo ricordare che l’Italia ebbe una politica industriale. Nacque ai tempi del Male Assoluto, ed una delle sue massime realizzazioni fu l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Per questo la democrazia italiana si trovò tra le mani un Paese che produceva radio, TV, registratori, aerei, chimica... tutto andato. La democrazia dopo aver trasformato l’IRI in un organismo per «salvare posti di lavoro» (e distribuire tangenti ai partiti), se l’è fatta privatizzare da quelli del Britannia: anche le competenze per fare una politica industriale sono svanite da quel dì. Come dobbiamo chiamare il nuovo regime che ci è stato imposto da fuori, ma è sostenuto dai partiti che noi abbiamo eletto: il Peggio Assoluto? 3) La differenza l’ha spiegata limpidamente Friedrich List (1789-1846), l’inventore dell’economia politica. «Lo Stato non solo ha il diritto, ma il dovere di imporre dazi sul commercio estero nel miglior interesse della nazione Coi dazi protettivi non detta agli individui come debbano usare il loro potere produttivo e il loro capitale (come sostiene Adam Smith che List considerò il grande avversario ideologico, ndr): non ordina a questo ‘tu devi investire il tuo denaro in navi o edifici’ né impone all’altro ‘tu devi essere un capitano navale o un ingegnere’. Lo Stato lascia ad ogni individuo il giudizio su come investire il suo capitale e impiegare il suo lavoro. Semplicemente, esso dice: ‘È a vantaggio della nostra nazione che noi fabbrichiamo questo o quest’altro bene; ma siccome per libera competizione con i Paesi stranieri non potremo mai giungere a disporre di questo vantaggio, abbiamo imposto restrizioni a questa concorrenza, finché ci parrà necessario, per dare a quelli tra noi che investono i loro capitali in questi nuovi settori dell’industria, e a quelli che dedicano ad essi le loro capacità fisiche e mentali, la garanzia che non perderanno il loro capitale e la loro vocazione di vita».
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