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Venga il Tuo regno. Non il loro.
24 Febbraio 2010
Devo una risposta al lettore:
«Egregio Direttore,
A circa un mese dalla visita di Benedetto XVI alla Sinagoga, due vostri interventi hanno cercato di occuparsi del fatto, fornendo delle chiavi di lettura, l’uno abbastanza in contrasto con l’altro.
Il primo intervento, di Copertino, mi ha lasciato davvero l’amaro in bocca. In tale articolo l’autore sostiene che in materia dottrinale, dalle parole di Benedetto XVI - cardinale Ratzinger, si evince che, ‘nel rapporto tra cattolici ed ebrei, nulla è davvero cambiato nell’essenza.
Il secondo pezzo da voi pubblicato, di Savino, ha a mio avviso un taglio più veritiero, e tra le altre cose, il giornalista si chiede, se davvero ebrei e cattolici pregano lo stesso Signore. Cosa che tra l’altro potrebbe urtare anche un ebreo che prendesse sul serio queste parole.
Ritengo che proprio l’uso della ragione, così insistentemente richiamata dall’attuale Pontefice in relazione alla Fede, ci faccia escludere la coincidenza. E non mi pare un punto trascurabile.
Conseguenza: o gli ebrei stanno riconoscendo il valore di Gesù Cristo, la sua umanità e divinità, o i cattolici stanno slittando verso una rivisitazione del ‘cattolicesimo di oggi’ che trova senso se innestato sul percorso ebraico, anche contemporaneo. E in tal caso, però potrà sussistere solo, in una condizione di subalternità.
E’ un punto su cui varrà la pena di riflettere (recentemente anche lei, rispondendo ad una lettera di un lettore, ha fatto presente come le letture domenicali insistano su certe tematiche.)
Ma nella galassia del cattolicesimo odierno tutto tace. In un conformismo che ha dell’incredibile. Un appiattimento che fa paura.
Non credo che il silenzio giovi a nessuno. In primo luogo, spezzare il pane della Verità è un fatto di squisita carità. Proprio il soffocamento della Verità è la causa prima, di tante difficoltà odierne che la vostra rivista on line non manca di documentare con coraggio.
E per ultimo, nel testo del Pontefice, che Copertino ritiene discorso non infallibile e magistero non ordinario (e allora di che si tratta???), emerge chiaramente il senso che Benedetto XVI dà all’ermeneutica della continuità.
Un pilastro a cui tutta la sua Persona, è impegnata a dare forza e vigore, affinchà tenga in piedi l’impalcatura conciliare e post conciliare a detrimento dell’impianto dottrinale tradizionale. Tra i due è però il secondo che dovrà affrontare sacrifici e limitazioni.
Mentre monsignor Gherardini, con il suo ultimo lavoro, invita Pietro ad un esame dei testi del Concilio, per scremare ciò che è ambiguo da ciò che è chiaro, qui ancora una volta abbiamo una risposta negativa che va nel senso di una conservazione del Tutto. Anche se questo Tutto difficilmente è omogeneo.
La prego vivamente di riprendere l’analisi del testo di Benedetto XVI, del 17 gennaio, non per polemica ma per amor della Verità.
Marcel»
Benjamin Disraeli
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Nella sua casa a Dahlem, Berlino, Carl Schmitt teneva appeso davanti alla scrivania il ritratto di Benjamin Disraeli. Voleva aver sotto gli occhi lo statista anglo-ebraico, che riteneva insieme il suo alter ego e il suo avversario in quella che per lui era la questione, anzi la lotta fondamentale del nostro tempo: lo scontro tra le due visioni della storia umana, quella ebraica e quella cattolica. Nel nuo romanzo politico scritto nel 1847, Tancredi o la nuova Crociata, Disraeli illustra la tesi: la storia è un conflitto fra etnie, e il popolo superiore, quello ebraico, è destinato a prevalere, imponendo la sua visione o progetto per l’umanità: il progresso verso il regno di pace futuro, l’ordine mondiale senza più guerre, la Gerusalemme terrestre della prosperità, insomma il compimento della felicità umana nell’aldiqua.
E’ il contrario dell’escathon cristiano, per cui il senso ultimo della vita di ogni uomo è la salvezza nell’aldilà, nel regno che non è di questo mondo. Ciò che allarmava Schmitt era il fatto che - proprio come predetto da Disraeli – l’Europa cristiana sta, dalla rivoluzione francese alla secolarizzazione compiuta e la dissoluzione ultima, adottando appunto per sè la visione ebraica del destino umano. Duemila anni di cattolicesimo diventano per l’uomo europeo insignificanti. Anzi peggio: diventano l’interpretazione perdente della storia, un’approssimazione erronea da superare, utile solo in quanto aveva aperto la strada all’umanitarismo universale (come diceva Disraeli: «Il cristianesimo è ebraismo per le masse»). Per questo Carl Schmitt invocava nella Chiesa la funzione di katéchon, la «forza che trattiene» la manifestazione dell’Anticristo.
Vivesse oggi, Schmitt vedrebbe avverati i suoi peggiori timori. Non c’è dubbio che per gli ebrei come corpo, il ritorno in massa in Terra Santa, ogni vittoria armata sui nemici; ogni visita ossequiente di un altro Papa in un’altra sinagoga a battersi il petto; ogni nuovo statista occidentale che visita lo Yad Vashem e si fa fotografare penitente con la kippà in capo a dichiararsi colpevole di fronte al popolo-Vittima per eccellenza; e soprattutto il silenzio della Chiesa sul significato del ritorno degli ebrei in Palestina («segno» apocalittico, ma in quale senso: cristico o anticristico?), sulle vittime maciullate dal trionfo delle armi giudaiche, e l’accettazione della «via di salvezza» parallela e autonoma per gli ebrei senza Cristo - non c’è dubbio che in tutto questo gli ebrei vedano non solo un incredibile successo politico universale, ma il compiersi del Patto che hanno stretto con YHVH. Il trionfo della loro religione; si sta avverando la promessa del Patto Antico.
Quella che il Deuteronomio (VI, 10-11) prefigura così: «Ti introdurrà il Signore Dio tuo nel Paese che promise con giuramento ai tuoi padri, ad Abramo, Isacco e Giacobbe, di dare e te, con le città grandi e buone che non hai costruito tu, con le case ricolme di ogni bene ma non da te riempite, con i pozzi di pietra non da te scavati, e con le vigne e gli oliveti non da te piantate».
Proprio questo oggi si avvera. In Palestina, gli ebrei godono gli oliveti che non hanno piantato loro, abitano case da altri riempite, sfruttano terre da altri arate, prese con la violenza e il terrore. E’ già abbastanza spaventoso, se ancora ci fossero anime cristiane, vedere che l’Europa civile e laicista accetta come normale questo saccheggio, anzi come dovuto alla Vittima.
Sembra davvero che si avveri la profezia di Isaia (49,23): «I re ti manterranno e le loro principesse ti allatteranno; con la faccia a terra ti si prostreranno e lambiranno la polvere dei tuoi piedi». O di Isaia (60): «Le tue porte saranno sempre aperte giorno e notte, affinchè ti siano portati i tesori delle nazioni e ti siano condotti i loro re… Perchè la nazione e il re che non ti vorranno servire periranno, e tali nazioni saranno completamente distrutte».
E intanto, la Chiesa sembra farsi da parte, e dal lato della strada della storia applaudire, e incitarci ad entrare, nel regno di pace futuro basato su un potere terreno totale. Si legge nella Pacem in Terris: «Ai giorni nostri, il bene comune universale pone problemi di dimensioni mondiali. Essi non possono essere risolti che da un’autorità pubblica il cui potere, la costituzione e i mezzi d’azione prendano anch’essi dimensioni mondiali, e che possa esercitare la sua azione su tutta la Terra. E’ dunque l’ordine morale stesso che esige un’autorità pubblica di competenza universale».
E ancora nella Caritas in Veritate del 2009, il Papa invoca «una autorità politica mondiale», così come nel discorso di Natale 2005 aveva incitato gli uomini a impegnarsi «nella edificazione di un nuovo ordine mondiale».
Un nuovo ordine mondiale. Un potere politico. Esteso nella sua capacità d’azione a tutto il pianeta. Dunque, l’istanza ultima, contro cui non si potrà appellarsi a nulla che la superi. Dov’è finita la speranza del Regno che non è di questo mondo? Che si ottiene non con «mezzi d’azione» capaci di «risolvere i problemi», ma con il rifiuto del peccato personale, la conversione, e la pratica dell’amore fino al sacrificio della vita? Carl Schmitt avrebbe giudicato queste frasi francamente agghiaccianti.
Questo è il passo a cui siamo, caro lettore. Una tragedia dello spirito, che non può non agghiacciare chi sia ancora cristiano. Come credenti, eravamo preparati all’apostasia del «mondo», all’adesione dell’umanità nei tempi ultimi all’utopia di una felicità compiuta nell’aldiquà, e al «progresso» verso una pace universale gestita da enti sovrannazionali ed alfine dal Governo Mondiale. Ma eravamo sicuri che la Chiesa, per quanto perseguitata e diminuita e senza forza propria, avrebbe continuato a ricordare ad un’umanità ridotta a gregge umano il suo destino eterno: ossia che il regno di Dio non è di questo mondo. Non ci aspettavamo che la Chiesa abbandonasse questo suo compito ultimo.
Sia Savino sia Copertino – sia don Curzio Nitoglia, di cui abbiamo pubblicato un saggio come sempre folgorante – esprimono questo sgomento, questo dolore, questo scandalo da ultimi cristiani. Sono persone che stimo, di cui conosco il nisus alla santità personale, e li ritengo tutti e tre necessari per lumeggiare quanti più lati possibili della crisi spirituale.
Lei dice che Copertino le ha lasciato l’amaro in bocca. Ma quanto più intimamente uno vive la fede cattolica, tanto più sente il desiderio di giustificare il Pontefice che ama e rispetta, l’istinto di illuminare le sue buone intenzioni dietro gli atti sgomentanti, di coprire le vergogne del padre; e di voler evitare le ultime conseguenze a cui quegli atti porterebbero, ossia a non riconoscere il Pontefice come Pietro. E’ un’esitazione che io, molto meno cristiano di Copertino, condivido in pieno, che sento anche mia.
Ciò che ammiro e mi commuove di Copertino è la sua bella disposizione al sacrificium intellectus - l’atto ascetico più eroico che può essere chiesto a un cristiano, il rinunciare alle proprie convinzioni, anche se le sente come verità, per aderire all’Autorità – e il suo ritrarsi e scartare di lato, perchè sente che dar ragione al Papa sugli ebrei, significa dar torto a Cristo. E che allora, in questo caso, il sacrificio dell’intelletto diventa il sacrificium fidei (1). Che non può fare.
E’ esattamente questa la tragedia di noi cristiani ultimi: avere, in questo tempo che richiede unità nella testimonianza, un pugnale nel cuore e la coscienza lacerata - e lacerata dalla Chiesa, dispensatrice della grazia, a cui era stato promesso che le porte dell’inferno non prevarranno.
Neusner e Benedetto XVI
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Consiglio di leggere a fondo il pezzo di don Nitoglia. Vi si apprende che persino il rabbino Neusner, con cui Benedetto XVI ama tanto dialogare, concorda con San Giovanni Crisostomo (!) che giudaizzare, per i cristiani, è «un atto di apostasia, incredulità e rifiuto di Cristo». E’ Neusner ad avvertire che il giudaizzare cattolico porta «a una lettura non cristiana del Nuovo Testamento».
E’ il rabbino Neusner, mica un tradizionalista lefevriano, a scrivere: «Il nostro secolo è stato testimone di un errore teologico fondamentale (…): presentare il cristianesimo come una riforma storica, una continuazione dell’ebraismo».
E’ il rabbino a spiegare che, aderendo a questo errore, «i cristiani (…), si trovano in una posizione subordinata (…), diventando non il vero Israele (…), ma semplicemente un Israele per difetto, cioè, per difetto del vecchio Israele».
E’ Neusner che ci esorta a non seguire la dottrina secondo cui «Gesù era ebreo e dunque, per capire il cristianesimo, i cristiani debbono venire a patti con l’ebraismo», andando a chiedere ai rabbini e al Talmud chi era veramente Cristo.
E’ ancora e sempre Neusner a precisare: «I cristiani comunemente suppongono che l’ebraismo sia la religione dell’Antico Testamento, ma ciò è vero solo in parte, perciò completamente falso. (…) l’ebraismo si richiama alla Torah scritta in dialettica con quella orale», ossia alla Cabbala e al Talmud, che sono i vangeli dell’ebraismo attuale.
Il Pontefice ha tutto il diritto di non ascoltare i tradizionalisti; ma il fatto è che non ascolta nemmeno il rabbino Neusner, con cui si scambia corrispondenza e cordialità, e che gliele canta chiare. Ma chi ascolta, allora? Si ha paura di rispondere alla domanda.
Quanto a me, non sono un teologo e men che meno un santo. Sono solo un cronista dei tempi presenti – che presento apocalittici – e le dirò alcuni miei semplici stupori riguardo all’ennesima visita papale in sinagoga. Non occorre essere un credente, basta essere un antropologo culturale universitario, per capire che quell ebraica non è nemmeno una religione.
Religione è, per definizione minima (antropologica), un insieme di credenze, metodi e riti che pretendono di rispondere alla domanda che assilla ogni uomo: che sarà di me dopo morto? Come raggiungere la salvezza e l’eternità? In questo senso, è religione l’induismo delle Upanishad, che invita l’anima individuale all’identificazione con l’Incondizionato. E’ religione il buddhismo, perchè il principe Siddharta non si contentò del giardino di delizie in cui l’aveva rinchiuso suo padre e, visto una volta un lebbroso, un vecchio e un morto portato alla cremazione, si accorse che l’aldiquà non gli bastava, e si mise a cercare l’uscita, il guado. E’ religione l’Islam, perchè chiama ogni uomo a salvarsi, senza distinzione di razza, convertendosi al credo musulmano.
Ma non è religione un insieme di riti e credenze che non ha nulla da dire sul destino post-mortem dell’uomo, e indifferente ad esso. Un rituale che abbia come scopo ultimo non già la salvezza eterna, ma la riconquista di una precisa porzione geografica di territorio da parte di un popolo ad esclusione di tutti gli altri, non è religione. Bisogna trovargli un altro nome, e il nome è ideologia: un’ideologia di conquista, di auto-adorazione di un popolo, e di suprematismo razziale.
E proprio il mondo contemporaneo, che aderisce alla vaga religione civile del diritto universale umanitario, non può nè deve rispettare come religione la pretesa di un gruppo umano di impossessarsi di «pozzi non da te scavati, di olivi e vigne non da te piantati». Non è religione un programma di dominio sul mondo da parte di una comunità etnica che intende e sogna di asservire tutte le altre. Nella modernità ultrasecolarizzata che vuol farla finita con verso le religioni storiche, a cui contesta l’esclusivismo e l’intolleranza, dovrebbe essere derisa e condannata l’idea, incredibilmente rozza e primitiva, che il Dio unico esista per una sola razza, geneticamente intesa, a cui ha promesso il dominio sulle altre. Un mondo laicizzato dovrebbe esigere da quel popolo di abbandonare quell’idea di religione così rozza, primordiale, perchè fonte di malvagità e di oppressione.
Nel terzo libro di Esdra (un testo apocalittico giudaico, non accolto nel canone biblico) si legge (6,56): «Degli altri popoli discendenti da Adamo Tu hai detto che sono nulla; simili alla bava Tu li hai fatti, alle gocce che cadono da un piatto... Se per noi è stato creato tutto questo, perchè non ne riceviamo l’eredità? Fino a quando?».
Come sappiamo, i rabbini d’oggi teorizzano questi stessi propositi, ad alta voce: è lecito a noi razza eletta strappare gli organi di un non giudeo per salvare un giudeo, è lecito uccidere i bambini dei nostri nemici, perchè crescendo diverranno nemici; noi non mangiamo la carne insieme al formaggio, e dunque abbiamo acquistato il diritto di espellere una popolazione dalle sue case e dai suoi campi, con un genocidio al rallentatore. Basta essere non si dice cristiani, ma umanisti secolarizzati e universalisti umanitari, per sentire un certo ritegno – per non dire orrore – a frequentare individui con una simile «religione». Almeno per istinto di conservazione, dovremmo averne spavento.
E invece vediamo non solo i laicissimi capi di Stato di questo mondo, ma i Pontefici aver intrapreso con simile gente «un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia», dichiarare che non cercheranno di convertirla. Ma quale fraternità e amicizia è possibile con gente che rifiuta ogni fraternità, e che ci vuol ridurre a suoi servi-pastori, e considera questo asservimento il compimento delle sue aspirazioni religiose?
Essi hanno essenzialmente bisogno di essere convertiti, prima ancora che al Messia Gesù, all’universalismo umanitario e al diritto universale (jus gentium) dominante in questo secolo. Il secolo che dà ogni giorno lezione di anti-razzismo a tutti, e a suon di bombe umanitarie lezioni di civiltà ai musulmani perchè «aderiscano ai nostri valori» di pluralismo delle opinioni, libertà personale, uguaglianza, specie delle donne, eccetera, com’è che non chiede ai rabbini e agli israeliani di aderire ai nostri valori universali?
Stiamo parlando di un gruppo umano che, guardando ai nostri beni, case, campi, industrie e riserve auree, sospirano: «Se per noi è stato creato tutto questo, perchè non ne riceviamo l’eredità? E fino a quando?». Gli si può almeno chiedere quello che esigiamo dai musulmani: cambiare mentalità, aderire ai valori della civiltà secolarizzata.
Naturalmente, costoro ci grideranno in faccia: antisemitismo! Ma qui, cosa c’entra il razzismo? Non si può rimproverare a un negro il colore della pelle, però gli si può rimproverare – poniamo – la pratica del cannibalismo. Non si può cambiare razza, ma si può cambiare cultura. Ed è imperativo cambiarla, se questa cultura è suprematista, razzista e punta ad asservire, sfruttare o sterminare altri uomini.
Invece, i rabbini hanno convocato il Papa in sinagoga per ergersi a giudici della nostra storia: non si deve beatificare Pio XII, non fare questo non quell’altro. Si sono comportati da padroni del mondo, quali già sentono di essere. Eppure, sa che cosa ha colpito me, non teologo ma semplice cronista? Il vestiario dei rabbini. Paramenti di fantasia, copiati da non so quale look protestante o da qualche telefilm. I cipigliuti si fingevano sacerdoti della loro religione, ma sanno benissimo di non esserlo, nemmeno secondo la loro fede: non sono discendenti per sangue di Aronne, nè di Levi. Sono dei signori qualunque che hanno incontrato il discendente di Pietro e gli hanno fatto la lezione, atteggiandosi ad Hanna e Caifa. Una sinistra, ma ridicola mascherata. Da poveracci.
Questo mi ha fatto intuire come sono miserabili e incerti nelle loro speranze tutte chiuse nell’aldiqua. Sì, i capi di Stato fanno la fila per visitare Yad Vashem e dichiararsi colpevoli davanti a loro; sì, sono essi a decidere – dopo visita a Yad Vashem – di chi deva e possa governarci. Sì, il loro Paese «sacro» è armatissimo, fa paura a tutti, e può commettere atrocità sotto gli occhi del mondo, impunite.
Sì, presto magari ricostruriranno il Tempio e rifaranno il rito con una vacca rossa ottenuta per manipolazioni egnetiche e sacerdoti geneticamente modificati, e della Gerusalemme terrestre faranno il tribunale dell’umanità previsto da Ben Gurion, e ci giudicheranno in base alla loro Legge. Ma ad ogni nuovo successo diventano sempre più insicuri, e per questo moltiplicano le loro aggressioni, le loro pretese, e pretendono sempre più atti ufficiali di sottomissione.
Il fatto è che il regno dell’aldiquà, per quanto inimmaginabilmente potente, e ormai prossimo a compiersi, li gonfia di angoscia e di rabbia. Ha un bel dire Neusner, «Israele provocherà la caduta di Roma». Ha un bel dire: «I saggi (o rabbini) affermano che Israele secondo la carne (…) permane in uno stato incondizionato e perenne. Non si smette mai di essere figli (fisici) e figlie dei propri genitori. Così Israele secondo la carne costituisce la famiglia, nella sua forma più fisica, di Abramo, Isacco e Giacobbe (…): la totale e completa genealogizzazione di Israele».
Il regno che hanno fatto venire, l’hanno voluto nel tempo. E ciò che è nel tempo, è passeggero. Un impero comincia a decadere dal culmine del suo trionfo. Ogni successo nell’aldiqua, finirà. Il nuovo sovrano collettivo ha un bell’immaginarsi incondizionato e perenne: per il solo fatto di esistere qui, è soggetto a condizioni – anzitutto quella del tempo – e quindi, a sfaldarsi nel tempo. E i paramenti dei rabbini sono una mascherata, che rivela tutta l’inautenticita della loro religione dell’aldiqua.
Può anche tacere il Papa. Nessuno si oppone più al loro progetto di dominio totale. Proprio per questo, non potranno accusare nessuno quando il Regno d’Israele cadrà: e cadrà, per il solo fatto di voler esistere nel tempo, ossia quaggiù. Sono sicuro che il loro successo totale ha dentro le basi del loro totale scacco: e allora a chi si rivolgeranno, se non a «Colui che viene nel nome del Signore»?
Noi, come credenti in Cristo, dobbiamo sopportare, sapendo che anche questo abbandono è volontà di Dio: ci è dato imitare il Cristo abbandonato. Del resto, ci soccorre il monito di Giovanni della Croce: «Guardati dal rattristarti degli eventi avversi del secolo, perchè tu non sai il bene che Dio intende ricavarne».
Ci opprimeranno come sanno fare loro (chiedete ai palestinesi), ma – come le gioie passano, passano anche i dolori. Chiediamo a Dio la grazia di ricordare che proprio il contrario del successo terreno, la malattia, la persecuzione, il carcere, la disgrazia, sono la porta stretta per cui si passa verso il Regno. Passerà la lacerazione dell’anima che ci infligge la Chiesa giudaizzante. Passano le torture, la persecuzione, le malattie e la fame – se non altro, perchè è la morte a farle finire.
E allora comincia l’altra storia, per noi cristiani: quando scopriremo che non esiste aldilà, perchè esso è sempre stato qua. Quella davvero incondizionata e perenne, sottratta al tempo e al suo verme che scava sotto ogni impero mondano. Rafforzamoci l’un l’altro nella fede in questi tempi ultimi di apostasia, ma anche di rivelazione o apocalisse.
«Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo solo in questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini», dice San Paolo. Ma noi preghiamo «venga il Tuo regno», sapendo che non sarà il loro, rapido a passare, pieno d’angoscia, insicurezza, odio e rabbia.
1) Nella visita alla sinagoga del 17 gennaio, Benedetto XVI ha parlato addirittura di «identità spirituale» tra Chiesa ed il popolo ebraico attuale. Da non-teologo, attendo che tale identità spirituale si manifesti, poniamo, con l’emergere di una Madre Teresa ebraica che, in base a quel che ha appreso dal Talmud e dalla Kabbalah, si dedichi a curare le piaghe di poverissimi appartenenti a un’altra religione. Non basta: il Santo Padre ha detto che questa identità spirituale offre ai cristiani l’opportunità di «promuovere un rinnovato rispetto per la lettura ebraica dell’Antico Testamento». La lettura ebraica dell’Antico Testamento è che Dio ha fatto un patto con un solo popolo, da cui tutti gli altri sono esclusi, e che questo patto consiste in una terra, da prendersi anche con la violenza, l’astuzia e lo sterminio dei precedenti abitanti. Mi rifiuto di rispettare questa lettura, ancor prima che come cristiano, come uomo civile.
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