La via del ringraziare
Maurizio Blondet
16 Ottobre 2007
Mi ha colpito il Vangelo di domenica.
E’ quello sui dieci lebbrosi che, fermatisi a distanza, gridano: «Rabbi Gesù, abbi pietà di noi!».
E Gesù, senza nemmeno fermarsi: «Andate a presentarvi ai sacerdoti»: così era d’obbligo per far constatare la guarigione.
Quelli guariscono prima ancora di essere arrivati.
Prosegue Luca (17, 11-19): «Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un samaritano. Ma Gesù: «Non erano stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, se non questo straniero?».
E allo «straniero», «disse: «Alzati e va’ la tua fede ti ha salvato».
Impressionante, per molti motivi.
Torna lo «straniero», ed ancora una volta è un samaritano.
Un eretico per l’ebraismo, che (come Gesù ha confermato) «non adora in spirito e verità».
Eppure lui solo è salvato, e soltanto perché ha detto grazie.
Gesù ha guarito tutti e dieci nel corpo.
Ma a quello solo ha guarito l’anima eternamente, perché prima di andare a fare le pratiche burocratiche è tornato a ringraziare (a quanto pare, già allora gli ebrei non coltivavano la gratitudine).
Uno si chiede: basta così poco?
Basta ringraziare?
E subito: quanto poco ho ringraziato Dio nella mia vita, eppure mi ha dato tutto.
Bisogna ricordarsi di ringraziare.
I miei lettori non credenti penseranno (l’ho pensato anch’io qualche volta) che è imbarazzante che Dio voglia essere «lodato e ringraziato ogni momento».
Lo si immagina come un sovrano vanitoso, che vuole essere incensato.
Pretende che gli sia «resa gloria», espressione cui non sappiamo nemmeno dare un preciso significato.
E ci è detto che esiste una misteriosa corripondenza fra questa inimmaginabile «gloria» e la «pace». Alla Gloria a Dio nell’alto dei cieli corrisponde la pace in terra agli uomini di buona volontà: come se l’una fosse la condizione dell’altra.
Niente gloria, niente pace.
Che cosa vuol dire?
Ammetto che non lo so.
Ma so che dobbiamo rifiutare l’antropomorfismo del sovrano vanitoso: Dio non è una «creatura» solo più potente di noi.
E’ persona (libera volontà) ma non un «Tu» a cui ci si possa rivolgere come fosse distinto da «io», anche se la condizione umana in cui viviamo ci induce necessariamente a rivolgerci a lui come a un Tu.
Infatti è un Tu per noi, ma noi non siamo «tu» per Lui.
Per Lui non c’è la barriera che divide, nell’aldiquà, tutti noi altri «io» l’uno dall’altro, e che costituisce la nostra radicale solitudine: Lui è più intimo a ciascuno di noi di quanto siamo noi stessi, dice Sant’Agostino.
Più vicino a te della tua jugulare, dice il Corano.
Provo a spiegarmi, faticosamente.
Ciascuno di noi vive in un «qui» che è suo personale ed unico.
«La vita è intrasferibile», ciascuno deve vivere la propria.
Il mio mal di denti è solo mio e non posso passarne agli altri nemmeno un poco: nemmeno se alcuni di questi altri - la mamma, ad esempio - sarebbe ben disposta a prendere su di sé il mio mal di denti, per soffrire al posto mio, perché una mamma ama suo figlio fino a questo punto.
Eppure non può: ecco la nostra radicale, originaria solitudine.
Siamo chiusi nel «qui» in cui abitiamo come «io» in cui ci appare (e ci aggredisce) la «circostanza», ciò che chiamiamo il mondo che sperimentiamo, sia il proiettile che ci ferisce o l’esame che dobbiamo affrontare: tutte le cose toccano a noi, e non ad altri.
Il che significa fra l’altro che siamo totalmente costretti ad esercitare la nostra libertà, o responsabilità.
Le cose da fare, le dobbiamo fare «noi», ciascuno di noi.
Solo «io», e senza scampo.
Dio invece può.
Può superare la nostra barriera solitaria, ci è più vicino di noi stessi.
E ciò non a poco a poco, identificandosi con noi, ma fin dal principio, senza evoluzione.
Mi rendo conto che i non-credenti scuoteranno il capo.
Ma chi crede, «deve» credere che la sua radicale solitudine è tutta invasa da Dio.
Per lo più non lo sentiamo.
Non lo sentì Gesù sulla croce, che mai fu uomo come quando disse: «Perché mi hai abbandonato?», nella radicale solitudine.
I più grandi santi hanno vissuto la notte oscura.
Accade, accadrà anche a noi.
Ma la nostra fede è: Tu sei «qui», nel mio «qui».
Nell’oscurità e nella sofferenza più cieca, proprio allora Tu sei «qui».
Fai del mio corpo un tempio.
E soffri con me, e per me.
Sei Amore e Misericordia, e non c’è amore più grande di chi dà la vita per gli amici.
Forse, senza nessun obbligo, ma come una mamma, Dio «soffre» per noi?
Non so: certo Gesù ha sofferto per noi.
Già da questa ipotesi dovremmo trarre la necessità di ringraziare.
Gesù stesso, del resto, nel Vangelo, ringrazia continuamente il Padre.
E’ lo stesso Gesù che ordina alla samaritana: «Dammi da bere», asciutto, senza dire per favore né grazie.
Si usava così con le donne allora: dunque il grazie di Gesù al Padre non è una formula di cortesia, il galateo non esisteva ancora.
E’ un grazie solenne, un «gloria».
Infatti Gesù prega continuamente, e questo è impressionante: se è Dio, seconda persona della Trinità, che bisogno ha di pregare?
L’inferiore prega il superiore.
Ma lui è un pari-grado.
Può rivolgersi al Padre da collega a collega.
Anzi, può far tutto da sé, onnipotente come il Padre, senza bisogno di chiedere.
E invece, Gesù si dichiara, volontariamente, eternamente Figlio.
Che è stato «generato».
Si può persino indovinare questo: che la vita intima della Trinità non sia altro che preghiera di ogni persona verso l’altra, assumendo la parola «preghiera» come una pallida metafora di ciò che i Tre danno l’Uno all’Altro, tutto Sé, senza residuo, senza tenersi niente - nemmeno un briciolo di maestà e di onnipotenza.
Volontari Nulla che ricevono l’uno dall’altro Tutto, il Divino.
Con gratitudine infinita.
Chi lo sa?
Siamo saliti ad un piano che non ci compete.
Torniamo giù ai nostri «io» bisognosi.
Alle poche cose che sappiamo.
Sappiamo che ogni preghiera comincia con un grazie e con una lode: il Padre nostro con «sia santificato il Tuo nome» ossia (se capisco) non gettato nel fango, ma elevato là dove deve.
E l’Ave Maria è per la prima metà una lode esaltata: «Benedetta tu fra le donne».
Hanno bisogno di essere ringraziati?
Ne ha bisogno la verità.
Non si tratta di fare una cortesia o un’adulazione.
«Ringraziare» esprime la verità oggettiva del rapporto fra noi e la divinità.
Come dirlo?
Il monaco buddhista ha un esercizio che consiste nel considerare ogni cosa sua - un braccio, una gamba - e riflettere che gli può essere tolto, amputato, strappato.
Dunque «non è mio», «non sono io», e vi rinuncia.
Il cristiano che ringrazia si pone sulla stessa via: Ti ringrazio della mia intelligenza, della mia salute, del mio essere nel mondo, di questo piatto di buona pastasciutta, perché di mio non ho niente, tutto lo devo a Te.
Ed è la pura verità.
Il «tono» è più gioioso che nel buddhismo.
E’ festoso: grazie di questo, grazie di quello, grazie di Te.
Si può cominciare e intuire perché dieci lebbrosi sono stati guariti dalla malattia, ma solo quello che ringrazia è stato salvato in eterno.
Se riuscissimo a ringraziare per ogni pastasciutta, saremmo sulla buona strada per vivere sempre la presenza di Dio, e per seguire il consiglio di Paolo di Tarso: «Ricordati di pregare incessantemente».
E può essere anche una «via facile».
La preghiera più famosa di San Francesco è una sola lode.
Comincia a ringraziare per sora acqua, «umile, et utele et pretiosa et casta» (e già la prosaica acqua che conosciamo di qua diventa paradisiaca, una gemma che contiene una virtù morale, la castità, come sono le pietre preziose del paradiso) e finisce per ringraziare per «sora nostra morte corporale».
Si comincia a ringraziare per le cose per cui è facile ringraziare - la salute, poniamo, o per il buon pane - e con l’esercizio magari si diventa capaci di ringraziare per le cose umanamente dure, dolorose: per l’ingiustizia subìta, per la malattia che ti distrugge, per il cancro, per l’avversità, perché tutto è grazia, e tutto ciò che chiamiamo ventura e croce è Dio che ci chiama a cambiar vita, è espiazione e intercessione.
Santa Bernadette giunse, sfinita, a ringraziare Dio per le sue «piaghe di fumo e di fuoco», per quando suo papà, vedendola vestita da suora, intimidito le diede del voi invece di abbracciarla…
Ogni dolore e mortificazione le appaiono ormai, vicina alla morte, perfetti.
Ogni cosa è stata così come doveva essere.
Ogni sciagura, ogni fitta al cuore, ogni abbandono, è, nella verità oggettiva delle cose, una fortuna (l'’occasione di salvezza), una necessità e una grazia.
E’ la visione stessa che ha Dio, la perfezione oggettiva della verità, l’oggettivo amore verso tutte le sue creature.
E’ che all’apice della santità, «io» sono ormai «Tu».
«Non sono più io che vivo, ma Dio che vive in me», dice san Paolo.
Quando il samaritano ex lebbroso torna a ringraziare, non è che «viene salvato» perché ha compiuto un atto di cortesia: è che ha cominciato a percorre la strada verso il mutamento ontologico, da uomo («io») al Tu che è più prossimo all’io dell’io stesso.
E’ sulla strada per divenire l’Identico.
Mi pare che sia questa una «via facile», l’ascetica del ringraziamento.
Il giogo che Cristo dice «soave», anche se al fondo ha la croce.
E’ una lotta atroce, ma lo è perché la nostra visione non è quella di Dio, è parziale e soggettiva: il nostro «io» ci duole, ci dolgono le membra, la nostra reputazione, la nostra povertà, il carcere, la malattia incurabile.
Tutto ci fa male, ciò che chiamiamo «mio».
Alla visione di Dio non arriviamo, non nell’aldiquà; dobbiamo solo crederci per fede.
Per questo Gesù dice al lebbroso: «La tua fede ti ha salvato».
E’ lì, e non aspetta altro per accoglierci.
Personalmente sono molto lontano.
Proverò a ringraziare dalle cose facili.
Per esempio: grazie per avermi fatto arrivare a questa età.
Un tempo pensavo che la morte migliore fosse da giovane: in guerra, soldato, un colpo e via, dalla buona salute alla morte, senza farla lunga.
Non lo penso più.
Ho vissuto una cattiva giovinezza e una cattiva maturità, in carriera e perciò arrivista, egoista, insensibile a chi mi amava e si aspettava da me qualcosa, per non parlare delle donne…
Ora, la vecchiaia cui sono giunto per grazia di Dio (la mia vita poteva essere troncata prima mille volte, in autostrada, in Bosnia, o di melanoma) ha palesi opportunità e fortune.
E mi spiace moltissimo che Massimo Fini, che è tanto migliore di me, abbia scritto in quel suo bel libro (non a caso l’ha intitolato «Ragazzo») tutta la sua rivolta contro l’età dei sessanta, contro il vedersi invecchiare.
Perché è verissimo ed ha ragione, dentro siamo ancora ragazzi, con le voglie e le furie di ragazzi (l’anima non invecchia mai), e lo specchio e i muscoli ci smentiscono.
Temo che l’errore sia nel rifiuto di arrendersi.
Il bello della vecchiaia è nella resa.
Surrender.
Non essere più in carriera: oltre a questo non puoi arrivare, quello che hai avuto hai avuto e non crescerà.
Ciò ti dà più tempo di occuparti della verità, di cercare di diventare più saggio.
E di aspettare l’eternità, se possibile, preparati.
Le donne?
Posso avere ancora delle donne, anzi gustarle di più come gusto di più il vino vecchio, dice Mughini…
Questo si sa, e Fini lo sa benissimo (non è Mughini); ma sicuramente ha letto quel libro tremendo di Schnitzler, «L’ultimo amore di Casanova», dove il vecchio marpione si propone di sedurre a freddo una amante matura di un tempo, e insieme la giovanissima figlia di lei.
E ci riesce eccome, sa tutti i trucchi della seduzione, e i giovani corteggiatori della fanciulla sono, al confronto di lui, così bietoloni.
Ma quel «successo» è amarissimo: il vecchio avventuriero si deve ammettere che ha schifo di sé e il vuoto amaro dentro.
Forse intuisce che, per quella bravata, ha perso definitivamente l’anima sua.
Che è un distruttore che ha fatto il suo tempo.
Perché ogni cosa ha «il suo tempo», e le ragazze meglio lasciarle ai ragazzi.
Bietoloni o no, la speranza fondata in loro è che fioriranno di figli; noi vecchi non più, non è da noi.
Certo, quel pungolo ci resta sempre.
Ancora un ricordo letterario, in Proust: Swann che, malato e quasi morente, si china a baciare la mano di una signora, e il suo sguardo si ficca nel décolleté…
Lo stesso Swann si scandalizza di sé: ho un piede nella fossa, eppure ancora…
Swann è saggio, con quel pensiero.
Swann non è Casanova, come Fini non è Mughini.
Ma arrendersi, rassegnarsi anche al pungolo della vecchia carne - che ben conosciamo - e prenderne congedo, è il segreto semplice.
Non è più il tempo, per noi.
Non sono per noi i giovani fiori da cogliere.
La malinconia dell’autunno viene compensata, se ci si arrende, da altri doni imprevisti.
Io devo ringraziare voi, cari lettori.
Non ho avuto figli, ed ora grazie ad internet faccio il nonno, e provo a trasmettervi la mia cosiddetta esperienza, che poi non è altro che la serie degli errori che ho commesso io e che da cui spero di esentarvi, senza troppo crederci.
Grazie a voi, ho l’impressione che la mia vita non sia stata inutile, anzi più utile di prima, quando ero «in carriera», e di ciò vi ringrazio.
Per di più, ho la via facile: non devo darvi la paghetta e comprarvi le scarpe come a figli carnali, né angosciarmi se fate tardi la sera.
Mi manca che Massimo Fini, che fa tanto di più, voglia essere ancora un ragazzo.
Ma spero che accetti la resa, naturalmente a modo suo - lui solo può essere un vecchio ragazzo, per questo è scintillante, e lo sarà anche più dopo la resa.
Vi ringrazio, e scusate se sono stato lungo.
Ma c’è da imparare parecchio, da questi samaritani.
Nessun commento per questo articolo
Aggiungi commento