La dittatura dei cafoni
19 Ottobre 2007
Un’amica mi scogiura di scriverne: «Fai qualcosa», mi dice.
Così ne scrivo, senza alcuna speranza.
Che è successo?
La villa che lei ha ereditato dal marito in Sicilia (località Spartà, a nord di Messina) ha un nuovo vicino.
Un ex parlamentare, a quanto pare.
Questo figuro ha costruito la sua propria villozza, orribile e pretenziosa.
Ammassando tonnellate di terra di riporto sul muro della mia amica.
E’ un semplice muro di cinta, non di sostegno: il rischio di crollo è imminente, già con la pioggia l’acqua filtra.
Il muro, sepolto dalla terra, è ora alto meno di mezzo metro: già i cagnacci dell’individuo sono quasi in grado di saltare oltre e mordere i nipotini della mia amica.
L’individuo continua a costruire casotti («spogliatoi» per la sua «piscina», o quella che chiama tale) sempre più a ridosso, sempre vicino che può al terreno dell’altra.
Rubacchia metro dopo metro.
Preghiere, osservazioni razionali, discussioni, sono tutte inutili.
Vi si è risposto con minacce coperte, alla siciliana.
La mia amica s’è rivolta ai «vigili ambientali» (incredibile, esistono nella Sicilia devastata dalle villozze abusive, quell’orlo nero e sporco, come un’unghia di cafone, lungo tutta quanta la costa) con un esposto.
Dopo mesi, anzi un anno, nessuno si è fatto vivo.
Lettere di avvocati: non arrivano a destinazione, il figuro non ha un indirizzo certo.
Segue denuncia ai Carabinieri, che si muovono.
Hanno il cellulare del figuro: che dalla sua villa di Sicilia (è stato visto) risponde ripetutamente «Sono a Roma per il momento».
Infine i carabinieri visitano, constatano i danni, ammoniscono il tizio.
Il quale risponde: «Sono un ex parlamentare».
E’ il suo lasciapassare e il suo atto di immunità per le violazioni del codice patenti e palesi: è stato un uomo di De Mita.
Per di più, subito dopo, i Carabinieri ricevono una telefonata dall’«assessore»: telefonata intimidatoria, a protezione del suo «amico ex parlamentare».
A Milano, Genova o Parma, simile telefonata di simile «assessore» avrebbe per conseguenza un’immediata denuncia dei CC alla magistratura.
In Sicilia no.
Per me è chiaro che il figuro «vuole» provocare il crollo, ridurre la mia amica alla disperazione, e indurla a vendere la villa a lui per una miseria.
Perché la villa della mia amica è ovviamente più bella della sua: è bella non perché è ricca, ma perché è amata.
Il marito della mia amica, il mio più grande amico, oggi defunto, ci ha consumato una vita per farla così, ha piantato arbusti che sono ora alberi grandi e meravigliosi, l’ha dipinta come una villa pompeiana di sua mano, di sua mano ha posto i mosaici pavimentali, chino sotto il sole per anni.
E’ la sola villa della zona che non si scorga dal mare, che non sia un pugno in un occhio di scrostature abusive, il solo luogo dove tutto quel che si vede è vigorosa vegetazione mediterranea «naturale» (niente palmizi né abeti), il solo senza cumuli di spazzatura e plastica di rigetto in bella vista.
Il cafone arrogante non può farsi una villa così, non ci arriva con la testa e col cuore.
Però la invidia e la vuole, e ha messo in atto i metodi della dittatura cafonica italiota.
Sprezzo della legge, pressione e minaccia implicita.
«Scrivi qualcosa», dice la mia amica.
Ma che farci.
Spartà è il paese (poche anime) in cui davanti all’unico bar staziona una Ferrari di un figuro del luogo, mai nemmeno interrogato.
E’ il paesotto dove il direttore didattico della scuola s’è costruito la casa abusiva nel terreno destinato a parco-giochi, e invita gli amici per travolgenti gare di karaoke (si picca di essere un cantante).
C’è poco da fare.
Un’altra amica, molto anziana, mi chiama da Viterbo.
Ha preso una casa in affitto, e non riceve il gas.
Ha fatto domanda da tre mesi all’Enel: nulla.
Ora viene l’inverno, e la casa non ha acqua calda né riscaldamento.
Telefonate insistenti al numero «assistenza-clienti», un 800, non hanno alcun esito.
Dall’altra parte rispondono signore o ragazze sparse per l’Italia, sempre diverse, che ascoltano sgomente la storia, non capiscono come possa essere successo, e dicono: «Non possiamo far altro che segnalare il suo caso».
La signore dei call-center, si sa, non hanno potere alcuno: sono lì solo per finzione di modernità.
La mia amica viterbese ha scoperto che la centrale generale per tutte le forniture e i contratti è stata posta dall’Enel…a Potenza, Basilicata.
E’ Potenza che non risponde e non avvia la pratica.
Perché l’Enel, questo orrendo monopolio oggi «privatizzato», abbia posto la centrale-totale non a Roma o Milano ma a Potenza, è evidente di per sé. Ha a qualche uomo di panza locale che voleva «posti di lavoro» per le sue clientele di cafoni.
O per i suoi camorristi, o ’ndranghetisti.
Costoro, ottenuto «il posto», si guardano bene dallo svolgere un qualunque servizio al cliente. Probabilmente non vanno nemmeno in ufficio.
Cerco sulle Pagine Bianche.
Esse mi assicurano che la centrale Enel di Potenza esiste.
Ma non c’è indirizzo.
Solo «85100 Potenza», tutto lì.
Quanto ai numeri di telefono, sono i soliti «800» a cui rispondono signore e ragazze impotenti, che non abitano nemmeno a Potenza ma sparse per l’Italia.
C’è, in compenso, «Arca, Associazione dipendenti Enel», in via Tirreno 9, e anche al n. 63, a Potenza.
Immagino la sala-giochi, i manifesti sindacali, il viavai stracco e gli affari sporchi: bisogna pur occupare il tempo.
C’è anche il telefono, 0971 56007.
Ma inutile telefonare per servizio: «si rivolga all’800», rispondo i marpioni.
La centrale assoluta Enel, quella di Potenza, è assolutamente irraggiungibile.
Un buco nero.
In cui sono asserragliati camorristi e cafoni per prendere lo stipendio, a posto fisso, senza far nulla.
Alla fine, la mia amica viene consigliata: chiama il Gabibbo.
Forse, il tuo caso può interessare «Striscia la notizia».
Lo trovo facilmente il numero del Gabibbo, Medisaet, Milano.
Per avere servizi, per avere giustizia, nell’Italia sotto il tallone dei cafoni, l’unica speranza è rivolgersi al Gabibbo.
Perché almeno, i cafoni, il Gabibbo sanno chi è e ne hanno po’ di paura di fare brutta figura davanti «a sei milioni di teleutenti».
Le trasmissioni di denuncia migliori – della Gabanelli, ad esempio – restano lettera morta, perché i cafoni e i loro referenti politici non le guardano e se ne fregano, sicuri dell’impunità garantita dalla rete cafona-camorrista-parlamentare.
Per cui è inutile il giornalismo di denuncia.
Su La 7 mi è capitato di vedere un’inchiesta sul degrado di Pompei (1) Più precisamente, del sequestro operato dalla camorra-cafona su questo sito archeologico unico al mondo, con 3 milioni di visitatori l’anno, il cui profitto turistico da solo potrebbe far prosperare la Campania e dare lavoro a centinaia di migliaia di napoletani, dai più colti e preparati (turismo culturale, pubblicazioni, artigianato) ai camerieri e ristoratori.
Grandi alberghi lucenti, parchi tematici…
Invece niente.
Ci sono pochi alberghi, piccoli, molti chiusi, tutti scrostati e con cumuli di rifiuti sulle porte.
Un consigliere comunale con faccia da camorrista dice: il turismo è solo di passaggio, perché i charter e le comitive richiedono alberghi da almeno 50 posti.
Bella scoperta, l’hanno capito persino in Kenia.
Il servizio mostra una zona destinata a nuovi alberghi: ci sono invece casette pretenziose e abusive, a ridosso dell’area archeologica, perché i cafoni hanno sentito dire che gli scavi sono «di pregio» e dunque vogliono starci sopra.
Qualcuno spiega che la camorra ha scelto di fare case, non alberghi, perché non ha il livello per gestire le cose grandi, non ha la testa.
E’ la testa di cafoni, dopotutto.
Di gente della zolla, anche se ha la Mercedes argento.
Si vedono «guide autorizzate», con il badge che li qualifica «archeologo», e che parlano in dialetto stretto e minacciano la giornalista.
«Si qualifichi, dica chi è», intimano torreggiando minacciosi sulla ragazza.
Chiedono, queste «guide», 150 euro per far visitare i siti: si fanno anche 15 mila euro al mese, la paga dei loro cafoni e complici deputati e senatori.
Persino i venditori abusivi di bibite, in baracche sporche e raffazzonate, intimano: «Si qualifichi, lei chi è?», come fossero loro poliziotti.
E lì lo sono: lì sono loro la legge.
Hanno pagato il pizzo alla camorra per la baracca, quindi sono sicuri del loro diritto.
Per tre milioni di turisti, non ci sono che quattro o cinque toilettes, potete immaginare in che stato. Così, per pisciare, il turista deve rivolgersi a quei baracchini di bibite abusivi, che chiedono un euro o mezzo euro.
Uno dei baracchini si è appropriato dell’unico WC comunale: ci ha messo i lucchetti, chi vuole usarlo deve bere una coca e pagare 0,50 per la pipì.
Quando la giornalista chiama i vigili, e questi arrivano (con la faccia di camorristi che devono far finta di lavorare perché «c’è la tv»): il baracchino abusivo è chiuso sprangato, non c’è nessuno.
E sprangato anche il cesso pubblico, col lucchetto.
I vigili camorristi non possono farci niente.
Ma da quel momento la giornalista è ancor più minacciata, fisicamente: «Vai via di qui!», grida una barista.
«Via di qui, hai fatto l’imbasciata», minaccia un «archeologo», usando il termine della delinquenza («imbasciata» per «fare la spia»).
Poi si vede dove portano, queste presunte guide, i turisti: nel famoso lupanare di Pompei, dove ci sono le figure zozze.
Gliele mostrano come fossero chissà quale segreto: di tutto lo splendore e il dolore di Pompei antica, di tutta la vita romana del primo secolo, i cafoni capiscono solo quelle.
Le figure che scopano, le posizioni.
Sogghignano gli «archeologi», lasciano entrare i turisti a centinaia, scattano a migliaia i flash che rovinano gli affreschi.
Ciò che colpisce al cuore non è solo l’arroganza dei criminali-cafoni, l’aria da pregiudicati delle «guide» e degli »archeologi» a 150 euro l’ora, indistinguibili dai parcheggiatori abusivi e dai costodi abusivi che a pagamento aprono le zone chiuse al pubblico.
Ciò che colpisce è la sporcizia, i bar che sono baracche di assi, la volontà di miseria e di micragna che regge il tutto.
E’ questa l’aria che vogliono i cafoni.
L’hanno scelta deliberatamente perché è al loro livello.
E’ tutto quello che sanno pensare come «sfruttamento» di Pompei: baracchini, cessetti abusvi a mezzo euro, niente alberghi, niente parchi.
Perché sono stupidi.
Stupidi subnormali, a forza di ignoranza e di arroganza.
Basta pensare a come la criminalità vera, la mafia americana, abbia sfruttato Las Vegas.
I grandissimi alberghi scintillanti.
La pulizia.
Gli immensi parcheggi gratuiti.
E nessun borseggio, altrimenti si finisce in qualche fossa nel deserto.
La malavita italo-americana almeno ha capito qual è l’affare e vi si concentra: fa’ miliardi a Las Vegas col gioco, non pensa a guadagnare mezzo dollaro per pisciata nelle toilettes a pagamento.
Il livello del cafone napoletano invece è il mezzo euro, il borseggio, il bilocale abusivo da vendere ai cafoni.
Si sente a suo agio in quella micragna, in quella rumenta, fra quelle baracche.
E non vuole Hilton e Sheraton fra i piedi.
Pompei ha una disoccupazione del 25%.
Apprendo che uno studio Merrill Lynch ha appurato che l’indotto degli scavi rende il 5% delle sue potenzalità.
Apprendo che sono stati stanziati enormi fondi europei per lo sviluppo moderno dell’area: centinaia di miliardi di vecchie lire per costruire un parco tematico accanto agli scavi (non ben comprensibili se non da specialisti, e che gli «archeologi» e le «guide» che parlano in napoletano malavitoso non sono certo in grado di far comprendere) dove si riproduca una Pompei falsa ma attiva, con suoni e luci, proiezioni si grande schermo, ricostruzioni di ambienti.
E’ l’idea giusta: fra l’altro, per alleggerire il carico di tre milioni di turisti su quelle povere macerie devastate, per fare della cultura divertimento, per creare un indotto potente con migliaia di posti di lavoro.
E sicuramente, profitti anche per lo stato, proprietario (in teoria) del sito unico al mondo che ha ceduto ai pregiudicati napoletani in comodato.
E’ stata identificata anche l’area, una vasta area industriale dismessa.
Ma lì, appare un «assessore» (in gessato doppiopetto, di sfarzoso taglio camorrista) il quale dice che i fondi, sì, erano stati dati dalla UE per il parco tematico.
Ma «nella nostra autonomia», gli amministratori locali hanno deciso un’altra destinazione: faranno invece »un «percorso gastronomico», dove i turisti svedesi e americani vedranno, lo vogliano o no, come si fanno le mozzarelle e gli spaghetti.
Alla giornalista sgomenta, il camorrista-assessore replica con sfida: «Perché, non è forse cultura anche questa?».
E’ infatti la cultura del cafone.
Mostra in modo esemplare che il cafone ha un limitatissimo repertorio di curiosità ed esigenze. Quando arricchisce, quando pensa a come occupare il suo tempo liberato dalla zappa, al cafone non viene in mente altro: «Mangiare».
Mozzarelle, spaghetti, pizze, ora che se le può permettere.
Il «mangiare» è il suo solo divertimento, la sola occupazione da tempo libero che riesce a immaginare.
Lui, quelli che vanno a vedere gli scavi, li disprezza, come disprezza ed odia l’archeologia unica di Pompei, che non capisce e che è troppo sopra le sue esigenze: ma cosa perdete tempo con quelle cose, vedete gli affreschi zozzi e poi venite qui a mangiare la mozzarella.
Micragna.
Meschinità di vita e di idee, che è ancor peggio dell’arroganza e della minaccia che fanno pesare sui turisti, ancor peggio dei borseggi e taglieggi che sono l’opera dei pregiudicati che, a torme, a folle, hanno occupato il più splendido tesoro italiano.
E in studio?
A La 7, la bella conduttrice Ilaria d’Amico chiede conto al sottosegretario del Ministero per i Beni e le attività Culturali.
Questa persona, che si chiama Daniela Gattegno Mazzonis, dice in sostanza: è scandaloso che si voglia guadagnare dall’archeologia, l’arte in Italia dev’essere un costo e non un profitto, altrimenti non è cultura.
Il fatto che a guadagnarci (coi cessi a pagamento e i baracchini abusivi) sia la camorra, non la scandalizza affatto.
Questa Gattegno Mazzonis è una cafona anche lei: perché solo in Italia esistono anche cafoni del tipo «culturale», per i quali l’arte e la cultura devono essere noia, burocrazia da sovrintendenza, costo e perdita – e per il popolo, «notti bianche» con i rockettari e la pizza dai baracchini unti.
Di fronte a lei, c’è l’assessore al turismo e alla cultura della regione Campania.
Nome: Marco Di Lello.
Anche lui doppiopetto gessato d’ordinanza, da cafone risalito.
Ovviamente, difende i camorristi-occupanti.
Dice che il comune di Pompei ha deciso di cancellare il parco tematico, e di far costruire abitazioni al posto dei grandi hotels, «nella sua autonomia», e che la regione non può certo violare quella «autonomia».
Del resto, la Regione ha fatto il peggio che poteva fare di Pompei, in base alla sua «autonoma decisione» che nessuno deve sindacare.
E’ a questo che servono le «autonomie regionali», dopotutto: a consegnare i tesori italiani a una casta di cafoni risaliti in gessato e ai loro clienti, pregiudicati e camorristi.
E’ la secessione alla meridionale: migliaia di secessioni corpuscolari, noi qui facciamo tutti come pare a noi, la camorra ci addita la strada e ci lasciamo comandare solo da lei, e voi polentoni non venite qui a fare l’imbasciata.
Qualificatevi, date nome e cognome, che poi vi tagliamo le gomme.
Una secessione perfettamente riuscita e protetta, coi soldi dei contribuenti del nord.
Questi coglioni che le tasse le pagano.
Dimenticavo: in studio a La 7 c’era anche Vittorio Sgarbi.
Ripetutamente indicato come «l’onorevole» Sgarbi.
Ha letto un libro che s’era portato, ostentatamente.
Quando ha dovuto dire qualcosa, di malavoglia, ha difeso i custodi abusivi che si fanno pagare per mostrare ai turisti le aree chiuse, ha preso le parti dei baracchini che danno il pizzo alla camorra, ha difeso i cessi pubblici lucchettati dai cafoni, e il mezzo euro per pisciare.
Non so se l’abbia fatto per fare l’originale, o se è stato pagato.
So che il suo comportamento è stato inqualificabile, da stronzo e cafone.
L’«onorevole» Sgarbi è parte integrante di questa dittatura di cafoni che ci schiaccia tutti.
Confesso che quel servizio su La 7 mi ha dato voglia di morire, per quello che significa Pompei, per quello che significa la dignità di Napoli gettata nei cessi (a pagamento) dai napoletani.
Mi viene in mente un solo rimedio: dare l’area alla malavita americana di Las Vegas, chiedere una percentuale su quello che guadagnerà, e lasciarla fare.
Con la speranza che ammazzino tutti gli «archeologi» e i gestori di toilettes, tutti i camorristi di piccolo cabotaggio che si sono presi l’area e non sanno nemmeno come guadagnarci.
Raffiche di mitra risanatorie contro gli «assessori alla cultura» in doppiopetto e mozzarella che non sanno far altro che dare mano alla camorra, e riducono così quell’area.
Abbiamo bisogno, almeno, di una grande criminalità.
Che pensi in grande e porti a Pompei gli Sheraton, come a Las Vegas.
Quel che ci uccide è la criminalità alla Mastella, alla De Mita, alla Sgarbi: piccina e occupata a fregarci in piccinerie, di cranio microscopico, che vuole esercitare il potere sulla miseria permanente, altrimenti teme di perdere il controllo sulle clientele.
Se no, non ci resta che un’ultima speranza: che il Vesuvio si riprenda Pompei, e tutti i camorristi che la infestano come pidocchi, coi loro assessori pidocchiosi in gessato-pregiudicato.
Spero che succeda un giorno o l’altro.
Forza Vesuvio.
Forza Etna.
1) La trasmissione si chiama «Exit» ed è andata in onda il 15 ottobre. Dal comunicato-stampa de LA 7: «L’Italia è il paese con il più importante patrimonio artistico del mondo. Tanto da essere considerato da molti il ‘petrolio’ italiano. Da una denuncia sullo stato di degrado di Pompei, la città antica che l’eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo ha conservato intatta fino ad oggi, parte la puntata di Exit. Ilaria D’Amico ne parla con diversi ospiti in studio: Danielle Gattegno Mazzonis, sottosegretario Ministero Beni e Attività culturali, Marco Di Lello, assessore al Turismo e alla Cultura regione Campania On. Vittorio Sgarbi, assessore alla cultura Milano. L’inchiesta della nostra Lisa Iotti, è inquietante. Parcheggi e guide abusive, nessun controllo sui visitatori, assoluto disprezzo delle regole. Ci imbattiamo nella vergogna delle zone interdette al pubblico che dietro pagamento vengono aperte dai custodi, dei ristoranti abusivi e della carenza di servizi igienici. La Merryl Lynch ha calcolato che I’indotto prodotto dagli scavi di Pompei è il 5% del suo potenziale. In studio ci si domanda se non sia il caso, come proposto recentemente dal presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo di privatizzare la gestione di questo importante sito turistico. Dalla discussione in studio si ha l’impressione che l’individuazione delle responsabilità sia dovuta soprattutto ad una scarsa chiarezza nell’individuazione delle diverse competenze. Siamo il paese col maggior numero di luoghi e monumenti protetti dall’UNESCO come Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Eppure l’Italia spende per la cultura lo 0,29%. Inoltre, dal 2000 al 2007 gli investimenti sono crollati del 45%. E scopriamo che dei due miliardi di euro previsti la metà viene utilizzata per il funzionamento del Ministero dei Beni Culturali».
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