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Liturgia del nuovo culto mondiale?
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Il nuovo culto mondiale officiato dal Papa ad Auschwitz

Il 27 gennaio, come è noto, è stato proclamato «giorno della memoria». (1)
In realtà, più che una celebrazione storica, questa data è diventata il principale appuntamento liturgico del «nuovo culto mondiale». A scanso di ogni equivoco diciamo subito (così Mastella potrà dormire sonni tranquilli ed anche noi) che l’autore di queste note non si propone di negare la realtà storica dell’olocausto.
Anche le cifre non sono qui in discussione.
Lasciamo questo onere agli storici ben più competenti e ben più protetti di noi dai rigori della legge penale mastelliana.
Quel che, invece, da un punto di vista cattolico, si ha l’assoluto dovere di contestare è la «teologia dell’olocausto» ossia quel processo di «sacralizzazione» e di astorica «mitizzazione» del genocidio ebraico, finalizzato a far prevalere, anche all’interno della Chiesa e con seri rischi di apostasia, l’esegesi talmudica della Scrittura, l’esegesi senza prospettiva cristologica propria del giudaismo post-biblico.
E se la gerarchia, o perché giudaizzante o perché codarda ed incapace di affrontare lo spirito dei tempi, non adempie a tale inderogabile dovere, non resta che farlo a noi membri del laicato: se i pastori fuggono di fronte ai lupi, le pecore non possono far altro che difendersi da sole.
Oggi in Occidente la fede cristiana è quotidiano oggetto di impunita dissacrazione.
Tutto si può mettere in discussione.
Ogni dogma e credo cristiano può essere vilipeso ed offeso.
Possono circolare, liberamente, i veleni gnostici di Dan Brown o quelli razionalisti di Augias-Pesce e possono riesumarsi, barattandole per sensazionali scoperte, vecchi testi apocrifi come il vangelo di Giuda.
Insomma, in Occidente, Cristo può essere tranquillamente vilipeso e di nuovo crocifisso.
Insieme a Cristo, che rimane il principale obiettivo della dissacrazione, nell’Occidente odierno si può offendere qualunque credo, come insegna la vicenda delle vignette su Maometto.
Ogni credo, in Occidente, si può dileggiare salvo… il nuovo culto planetario della «shoah».
Chi lo facesse subirebbe l’immediato ostracismo civile, e nell’immediato prossimo futuro, grazie al democristiano Mastella, anche in Italia, la galera.
Senza avvedersene, i cristiani sono oggi costretti, ogni anno, puntualmente, il 27 gennaio, a fare atto di apostasia nel momento stesso in cui essi sono chiamati, pena l’obbrobrio generale, a celebrare il memoriale liturgico dell’olocausto.
Quel che è chiesto a noi cristiani, ogni anno, è di bruciare grani di incenso sull’altare del culto messianico auto-idolatrico del popolo ebreo.
Un culto che ha i suoi risvolti politici, in termini di fondamentalismo nazional-religioso, nell’incontro, avvenuto nel corso del XX secolo, tra il sionismo, che pure in origine era nato su basi laico-illuministe, e l’esegesi talmudica dell’Antico Testamento.

Già il termine «olocausto» rivela che esso è stato oggetto di un processo di sacralizzazione dal quale deriva l’odierna pretesa della unicità allo stesso attribuita.
Una assolutezza «metafisica» che, nelle intenzioni degli officianti del nuovo culto mondiale, dovrebbe far sparire ogni ipotizzabile comparazione con altri genocidi.
L’olocausto non può essere, nella dogmatica del nuovo culto mondiale, un qualsiasi episodio di storia profana, come un genocidio qualunque, perché esso appartiene, secondo quella neo-dogmatica, alla manifestazione del divino nella storia.
Il nuovo culto mondiale, mediante la sua quotidiana ed annuale liturgia, produce, secondo uno stereotipo teologico «cristomimetico», la «vittimizzazione sacrificale» del popolo ebreo, finalizzata alla salvezza del mondo dal «Male Assoluto».
Il giudaismo post-biblico pretende di leggere la Bibbia senza l’unica vera chiave di accesso al senso autentico della Rivelazione: la luce di Cristo.
I Padri della Chiesa, al contrario, hanno interpretato la Scrittura nella convinzione che essa, dal Genesi all’Apocalisse, parla sempre e soltanto di Cristo.
Per i Padri, l’Antico Testamento contiene «prefigurazioni tipiche» di Cristo che diventano chiare soltanto alla luce del Nuovo Testamento ossia quando si passa dal tipo figurato alla realizzazione storica della realtà spirituale sottesa alla tipologia veterotestamentaria.
Così, per fare qualche esempio classico, il passaggio (pesach; pasqua) del popolo ebreo, in fuga dall’Egitto, attraverso il Mar Rosso è prefigurazione tipologica della Resurrezione di Cristo, del passaggio dalla morte alla vita; la manna che, cadendo dal cielo, sfama gli israeliti nel deserto è prefigurazione tipologica dell’Eucarestia.
Mentre, oggi, i teologi giudaizzanti, nella convinzione che il giudaismo post-biblico e la fede di Abramo siano la stessa cosa (2), sostengono che l’unico vero Israele è il popolo ebreo, del quale questi neo-teologi appoggiano acriticamente tutte le pretese territoriali a danno ed a discriminazione dei palestinesi (cristiani e islamici), per i Padri, invece, è la Chiesa cattolica ad essere il nuovo Israele che, nella continuità/adempimento/superamento dell’Antico nel Nuovo Testamento, ha sostituito il vecchio Israele.
Quest’ultimo, tuttavia, secondo i Padri, alla fine dei tempi sarà anch’esso reinnestato nell’olivo santo della rivelazione, come ha profetizzato san Paolo (Romani 11, 23-24).
Ma - si badi bene - solo alla fine dei tempi, e non prima, perché, ancora secondo l’infallibile magistero patristico, il ruolo di Israele fino alla Parusia sarà sempre ambiguo: da un lato esso con la sua permanenza è testimone della verità stessa della rivelazione definitivamente adempiutasi in Cristo, dall’altro lato, però, a causa dell’«indurimento del cuore», provocato dal proprio «auto-accecamento» di fronte alla divino-umanità messianica di Cristo, esso, in ogni momento della storia, corre il tremendo rischio di scambiare l’impostore per il Messia.
Secondo san Girolamo (3) è a tale rischio che Cristo alludeva quando disse ai sinedriti: «Io sono venuto a nome del Padre mio e non mi riceveste, un altro verrà di propria autorità e lo riceverete» (Giovanni 5, 43).

Ora, l’esegesi talmudica della Scrittura, che, come si è detto, è priva della prospettiva cristologica, dopo la catastrofe della distruzione del tempio nell’anno 70, ha finito per rinnegare la fede in un messia personale per sostituirvi quella nel ruolo messianico del popolo ebreo che così è diventato, per il giudaismo post-biblico, il «messia collettivo».
Si tratta, con tutta evidenza, di una auto-idolatria messianica che fa del popolo ebreo, disperso tra le genti, la vittima sofferente, per la salvezza del mondo, il cui sacrifico espiatorio, a favore dell’umanità, avrebbe raggiunto il suo inaudito culmine nell’«olocausto».
Il «servo sofferente» profetizzato da Isaia (Isaia 50,4-10; Isaia 52,13-15; Isaia 53), l’isaiano «uomo dei dolori», nel quale i Padri della Chiesa hanno visto l’annuncio profetico del Christus Patiens, nell’esegesi post-biblica dell’attuale giudaismo, è identificato con il popolo ebreo inteso come «messia collettivo».
Un noto esponente del giudaismo post-biblico, Dante Lattes, lo conferma.
Ha scritto Vittorio Messori, trattando delle attese messianiche che fremevano in ambito ebraico, e non solo, durante il primo secolo, indicato da tutte le profezie come quello dell’imminente era messianica: «E’ testimoniato con certezza che è sotto la spinta della delusione che pian piano i dotti d’Israele cambiano le interpretazioni con cui i loro antenati erano giunti a polarizzare l’aspettativa sul primo secolo. Poiché, come osserva lo stesso Talmud (Sanhedrìn, 97) ‘tutti i tempi sono ormai scaduti’ si cerca una giustificazione all’attesa delusa. Ecco, nelle parole di uno studioso ebreo recente, come si è trasformata infatti l’idea messianica: ‘Il messianesimo ebreo, raffigurato dapprima nella persona di un uomo, nel quale la giustizia si afferma e concreta, diventa ed è un’idea: l’idea dell’avvenire, l’idea dell’anelito umano, individuale e collettivo, verso l’effettuarsi della giustizia e della religione nella storia. La coscienza collettiva ebraica si raccoglie e si appunta in questa fede: che il travaglio umano deve confluire verso quell’alba di redenzione in cui il male non regnerà più sulla terra. Non è più la persona o le persone, ma il tempo e il fatto che contano. L’umanità si muove verso quella realtà con la sua fatica. Il Messia sta venendo continuamente.’ E’ Dante Lattes che così sintetizza (nella sua ‘Apologia dell’ebraismo’) i contenuti dell’attesa messianica nell’Israele di oggi. Continua Lattes: ‘ Il Messia-Uomo dei tempi eroici, l’uomo ideale del futuro, il Figlio di David (quello, cioè, atteso nel primo secolo, ndr) diventa il popolo-messia. Israele è il ‘servo di Dio’ che soffre per la salute del mondo, per la conversione del mondo’. Ma allora il ‘dominatore del mondo’ atteso ai tempi di Flavio Giuseppe? Risponde Lattes: ‘Fu una magnifica fantasia, un poetico sogno tessuto dall’immaginazione vivace degli scrittori ebrei (…). L’evangelo si ispira a queste fantasie popolari che avvolgevano l’idea messianica sulla persona del Messia». (4)

E’ evidente che il clima dei nostri tempi è impregnato di questa esegesi giudaico-postbiblica.
Quel che, però, è molto più grave è che tale esegesi, dal post-Concilio in poi, è penetrata anche all’interno della Chiesa.
Alla tradizionale teologia della sostituzione è andata subentrando un po’ alla volta, quasi impercettibilmente per i fedeli non addetti ai lavori, la neo-teologia del «duplice soggetto messianico», una neo-teologia che, però, per usare le parole di Paolo VI confidate a Jean Guitton a proposito delle dottrine spurie («il fumo di Satana») che egli vedeva penetrare nel tempio, non rappresenterà mai, anche se dovesse diventare prevalente, l’autentico pensiero della Chiesa.
Per questa neo-teologia, l’antico Israele avrebbe conservato una sua via specifica ed esclusiva di salvezza, che ne fa un popolo privilegiato anche dopo l’Incarnazione e Resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo.
Una via speciale che si affiancherebbe, senza incontrarla, a quella cristiana.
Anzi, secondo la neo-teologia, il cristianesimo stesso altro non sarebbe che un sotto-prodotto del giudaismo, una «trascendente fioritura messianica dell’ebraismo del primo secolo» sostiene un esegeta giudaizzante come il Rossi De Gasperis, maestro del cardinale Carlo Maria Martini. (5)
In altri termini, il Cristo della storia apparterebbe integralmente al suo ambiente etnico-religioso e sarebbe ben altro dal Cristo della fede «inventato» dalla prima comunità cristiana. Augias e Pesce, nel loro recente libro intervista «Inchiesta su Gesù», affermano la stessa cosa quando dicono che Cristo è «ebreo» e «non cristiano».
L’ex cardinale di Parigi Jean Marie Lustiger, ebreo convertito, in linea con la neo-esegesi, sostiene che la funzione di Cristo sarebbe stata quella di portare il Dio d’Israele alle genti ferma rimanendo la via esclusiva e speciale riservata al popolo ebreo.
Viene da chiedersi, però, come mai Lustiger, che come ebreo godeva, per diritto di sangue, di una tal via privilegiata di salvezza, l’abbia poi abbandonata per la via cristiana così evidentemente subordinata e di rango inferiore.
La neo-teologia accetta, in sostanza, l’esegesi giudaica che pretende per gli ebrei una propria esclusiva via di salvezza, diversa e distinta da quella dei goym.
Una via speciale che non ha bisogno alcuno di Cristo. (6)
Da qui la diffidenza ebraica verso i cristiani, anche quelli giudaizzanti.

Da parte ebraica vi è il dichiarato timore che ogni apertura cristiana verso gli ebrei sia in realtà finalizzata alla loro conversione.
Sin dai tempi apostolici, i cristiani hanno, innegabilmente, sempre sperato nell’adesione del cuore ebraico al mistero di Cristo.
 Né potrebbe essere altrimenti per il cristiano che non può rinunciare a convertire a Cristo il prossimo, anche l’ebreo.
Ma più dell’auspicio della conversione, il quale tuttavia giustamente non può mancare, da sempre vi è, da parte cristiana, la convinzione che anche la salvezza del popolo ebreo, lo vogliano o meno gli ebrei, passa, con modalità magari a noi ancora ignote o non ancora storicamente manifestate, per l’olocausto salvifico della Croce, che è il vero ed unico sacrificio di redenzione dell’intera umanità. (7)
Questo perché l’unico olocausto che un cristiano può riconoscere come universale, autentico e salvifico è soltanto quello di Cristo, il Dio-Uomo crocifisso per amore.
Un Dio che non ha preferenze speciali per nessun popolo.
E’ scritto, infatti, che Egli, offrendo Se stesso in olocausto al Padre, di due popoli, del giudeo e del pagano, ha fatto un solo popolo.
Sicché persistere, come fa l’esegesi talmudica post-biblica, nel voler separare ciò che Dio ha unito è, innegabilmente, luciferino.
Ammettere da parte cristiana un altro «olocausto», al posto o parallelo a quello di Cristo, è aperta apostasia dalla fede cattolica apostolica romana.
Altri presunti olocausti non sono veramente tali perché, dopo quello della Croce, ogni sofferenza umana, di qualunque uomo, a qualunque popolo o epoca egli appartenga, dunque anche la sofferenza degli ebrei nei campi nazisti, è partecipazione e condivisione della sofferenza salvifica di Cristo, vera vittima immolata sulla Croce.
Nessuno, neanche gli ebrei, può pretendere, dopo la passione morte e resurrezione di Cristo, un ruolo privilegiato, o sostitutivo del sacrificio della Croce, nel disegno di salvezza universale.

E’ questa, tuttora, nonostante ogni dialogo ecumenico, la «pietra di inciampo» nei rapporti tra cristiani ed ebrei post-biblici.
Celebrare un altro preteso «olocausto» è per i cristiani un atto di apostasia dal quale i pastori dovrebbero mettere in guardia i fedeli.
Ma per fare questo i pastori dovrebbero avere ancora una fede salda e, purtroppo, essi, oggi, salvo un «piccolo resto», non hanno più una fede di tal fatta.
L’apostasia interna alla Chiesa ha assunto, negli ultimi secoli, molte forme, da ultima quella della neo-teologia giudaizzante.
Questa è, forse, la più pericolosa.
Perché se l’esegesi esatta fosse quella talmudica, quella del giudaismo post-biblico, e il «servo sofferente» non fosse Gesù Cristo ma il popolo ebraico rivestito di una funzione salvifica messianica, allora la Chiesa, ad iniziare dagli Apostoli e dai Padri, per duemila anni si sarebbe sbagliata ed avrebbe illuso generazioni di cristiani, ingannando l’intera umanità con la pretesa della divino-umanità messianica di nostro signore Gesù Cristo.
L’apostasia, nonostante lo sforzo di tenere dritta la barra del timone del pontefice Benedetto XVI, il quale più di una volta, con prudenza e carità anche nella sua visita ad Auschwitz, ha ricordato che l’esegesi cristiana è fondata sulla prospettiva cristologica inaugurata dai Padri, avanza purtroppo inesorabile nella Chiesa e tra i cristiani, sempre più tiepidi nelle cose di fede, e questo non può non richiamare alla memoria l’inquietante, ammonitrice, domanda di Cristo: «Ma il Figlio dell’Uomo quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Luca 18,8).

Luigi Copertino


Note
1) Il 27 gennaio 1945 i sovietici arrivarono ad Auschwitz. Da qui la data scelta per la giornata in questione. E’ emblematico il controsenso che segna la scelta di questa data: si celebra come memoria di «liberazione» il passaggio di una porzione di umanità dolente ad un totalitarismo, quello sovietico. I gestori del Gulag svelano le atrocità del Lager!
2) Invece l’ebraismo di Abramo, di Mosé e dei Profeti, che è la radice santa di cui parla san Paolo nel capitolo 11 della «Lettera ai Romani», ed il giudaismo talmudico, elaborato dal Sinedrio, non sono affatto la stessa fede, perché il primo era nient’altro che il cristianesimo ante litteram («Prima che Abramo fosse Io sono», Giovanni 8,58), mentre il secondo è un coacervo di «dottrine umane» («Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini», così Cristo ammonisce i sinedriti in Marco 7,8).
3) Epistole,CLI, Ad Algasium; Comm. In Dan., II, 24.
4) Confronta Vittorio Messori «Ipotesi su Gesù», SEI, Torino, 1976, pagine 98-99.
5) Confronta F. Rossi De Gasperis «Ma Cristo non ha cancellato Israele. Le Chiese di Palestina e l’ebraismo» in «Mondo e Missione», febbraio 2002.
6) In tal senso si è chiaramente espresso, con l’arrogante franchezza che gli è propria, rivolto ad ammutoliti cardinali durante un incontro ecumenico, il rabbino Riccardo Di Segni. Confronta il resoconto pubblicato su «Shalom» numero 2/2002.
7) Quanto detto a proposito della salvezza ebraica mediante la Croce di Cristo vale anche per i mussulmani, come per tutti gli uomini. Anche la salvezza degli islamici passa per la Croce di Cristo. Per la croce di quell’Isa che, stando al Corano, è superiore allo stesso Maometto perché, a differenza di quest’ultimo, egli è il «Verbo di Allah», nato da Miriam sempre Vergine, e perché è a lui, ad Isa, e non a Maometto, che, secondo l’escatologia coranica, sarà affidato da Dio il ruolo messianico fondamentale: tornare alla fine dei tempi, come giudice universale, per sconfiggere l’Anticristo, l’impostore.


 
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