La fede in Abramo e la «Nostra Aetate»
07 Aprile 2008
Con un comunicato della sala stampa vaticana
(1) la
Santa Sede, di fronte al «dispiacere» espresso «da alcuni settori del
mondo ebraico» verso la revisione della preghiera in latino per la
conversione degli ebrei del Venerdi Santo contenuta nel Messale
tridentino di San Pio V, «assicura che la nuova formulazione non ha
inteso nel modo più assoluto manifestare un cambio nell’atteggiamento
che la Chiesa cattolica ha sviluppato verso gli ebrei», soprattutto dal
Concilio Vaticano II in poi.
Il comunicato interviene a seguito del disappunto espresso da diversi
esponenti della cultura e della religione ebraica secondo cui l’‘Oremus
et pro Iudaeis’ «non risulterebbe in armonia con le dichiarazioni e i
pronunciamenti ufficiali della Santa Sede, riguardanti il popolo ebreo
e la sua fede, che hanno segnato il progresso nelle relazioni di
amicizia tra gli ebrei e la Chiesa cattolica in questi quaranta anni».
Invece, «assicura la Santa Sede», la nuova formulazione «non è un
cambio nell’atteggiamento che la Chiesa cattolica ha sviluppato verso
gli ebrei».
Siamo alle solite: non appena i «fratelli maggiori» starnutiscono,
subito da parte della gerarchia cattolica ci si preoccupa oltre ogni
eccesso.
Noi semplici fedeli possiamo capire l’epocale necessità di prudenti
relazioni diplomatiche nei rapporti con gli ebrei, perché in fondo non
di altro si tratta nel comunicato di cui sopra che di diplomazia
religiosa, e possiamo capire come anche la «politica religiosa» abbia i
suoi diritti e che la stessa debba essere modulata, nel corso dei
tempi, a seconda dei rapporti di forza, i quali attualmente vedono
senza alcun dubbio i «fratelli maggiori» in posizione «dominante» per
via dell’eccessiva centralità di cui godono nell’immaginario degli
Stati Uniti e dell’Europa post-cristiana, persa nella sua irrefrenabile
apostasia.
Sappiamo anche molto bene che, e non è il caso che tra noi qualche
«infervorato» tradizionalista lo ricordi in modo esagitato, Sua Santità
Benedetto XVI, uomo di grande spiritualità e saggezza, pur tentando,
come sta facendo, di raddrizzare il timone della Barca di Pietro, non
può fare a meno di considerare quei rapporti di forza extraecclesiali
ma anche i rapporti di forza attualmente esistenti all’interno stesso
della Chiesa.
Gli attuali rapporti di forza intraecclesiali vedono, infatti, i
modernisti, sebbene in questo momento in difficoltà, conservare ancora
un considerevole peso nell’episcopato, come ha dimostrato la fronda
immediatamente scattata all’atto del Motu Proprio per la
liberalizzazione del Rito Tridentino.
Ma, sinceramente, e lo diciamo con il massimo affetto e la massima
devozione verso il Santo Padre, siamo davvero stufi di affronti
inammissibili non alle nostre persone in sé, perché cristianamente
siamo disposti a perdonare, ma alla nostra fede di cattolici, che è
come dire alla Santa Chiesa cattolica, sicché sarebbe ora che la
gerarchia iniziasse a reagire riassumendo finalmente le proprie
responsabilità connesse al ruolo di custode del gregge ad essa affidato
direttamente da Nostro Signore.
Sono ormai più di quarant’anni che noi cattolici, soprattutto se
semplici fedeli, non facciamo altro che prendere sonori schiaffi da
tutti, in particolare dai «fratelli maggiori» verso i quali, senza
ritegno, molta parte della gerarchia si umilia indecorosamente,
umiliando in fondo Nostro Signore stesso.
Apertura, dunque, da parte cattolica e schiaffi da parte ebraica: e se
è vero che il cristiano deve porgere l’altra guancia e pur vero che di
guance il cristiano ne possiede soltanto due e che perciò, con ogni pur
volenteroso sforzo, non gli è possibile fare di più di quanto finora
fatto: ed è molto, anzi davvero troppo oltre ogni limite e decenza.
Per convincersi della becera chiusura fondamentalista da parte ebraica,
perlomeno da parte di alcuni esponenti ufficiali dell’ebraismo
italiano, basta leggere le dichiarazioni di certi personaggi che,
credendo di mettere alle strette la Chiesa cattolica, finiscono poi,
alla lunga, per fare immensi danni all’ebraismo stesso, presi come sono
da quel senso di «onnipotenza» che deriva loro dall’acritico
accreditamento internazionale, culturale e massmediatico di cui oggi
godono e dall’auto-convincimento che le proprie mal riposte speranze
messianiche [l’egemonia spirituale nel mondo di Israele, popolo
sacerdotale a servizio della ‘pace’ globale e presunto affidatario
della missione di portare Dio, senza Cristo, alle genti, a segnare
l’imminente ‘era messianica’ il cui inizio sarebbe da individuare nella
nascita dello Stato di Israele nel 1948, contrastata dal «satanico»
Islam] si starebbero avverando.
E così mentre la Santa Sede auspicava che «le precisazioni» del
predetto comunicato «contribuiscano a chiarire i malintesi» e ribadiva
«il fermo desiderio che i progressi verificatisi nella reciproca
comprensione e stima tra ebrei e cristiani durante questi anni crescano
ulteriormente», il rabbino capo della comunità ebraica di Roma,
Riccardo di Segni, dichiarava all’agenzia Apcom che: «La preghiera per
gli ebrei chiede la loro conversione e le precisazioni
della Santa Sede, purtroppo, eludono completamente questo problema. La questione, dunque, appare del tutto irrisolta».
Personalmente non nutriamo per il Di Segni alcuna simpatia: infatti lo
troviamo di un’arroganza estrema, persino in certe occasioni maleducata
(2), e tuttavia, cristianamente, non possiamo non amarlo, come del resto deve fare il cristiano nei confronti di ogni uomo.
Dobbiamo comunque riconoscere che il rabbino Di Segni, a differenza di certe gerarchie cattoliche, perlomeno parla chiaro.
Ed infatti: «Sull’argomento della conversione - egli ha precisato - non
c’è stata mai (da parte della Chiesa cattolica) nessuna chiarezza, ma
almeno una certa reticenza progressiva che è stata interrotta
bruscamente dalla nuova forma di preghiera per gli ebrei. Quello che
avremmo voluto sentire nella dichiarazione è che la Chiesa non prega
per la conversione degli ebrei o che almeno rinvia questo desiderio
alla fine dei tempi e alla sola decisione divina».
Più chiaro di così si muore.
Il problema da parte ebraica è, dunque, nel fatto stesso che si voglia
pregare, al di là delle formule utilizzate, per la conversione degli
ebrei.
Non sfugga neanche quella sottolineatura, fatta dal Di Segni, della
mancanza di chiarezza da parte cattolica, anzi della «progressiva
reticenza» di quarant’anni ora bruscamente interrotta dalla
liberalizzazione del Rito Tridentino da parte di Benedetto XVI.
Non va bene ai «fratelli maggiori» neanche l’addolcimento delle formule usate in loro favore
(3).
Non è possibile, come si è detto, negare ai «fratelli maggiori» di
avere una posizione di assoluta chiarezza nei rapporti con noi
«fratelli minori».
Sicché, diciamocelo francamente, il problema della «reticenza», spinta
a volte ad un punto tale da rasentare l’apostasia, è tutto nostro, cari
cattolici, dimentichi che nell’Apocalisse (3, 14-16) è scritto:
«All’angelo della Chiesa di Laodicèa scrivi: Così parla l’Amen, il
Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: Conosco
le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o
caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per
vomitarti dalla mia bocca».
Di Segni ha ragione, dal suo punto di vista, ad affermare: «Il
Vaticano… sembra tendere la mano per il dialogo ma il problema è: cosa
dialoghiamo a fare se serve la nostra conversione?».
Il fatto tragico in questa situazione è che ad esser diventati «né freddi né caldi» siamo proprio noi cattolici.
Ci crogioliamo, ormai da decenni, in una smodata tiepidezza che, sul
piano della fede (altro è il piano delle relazioni diplomatiche che
comunque non devono mai essere troppo autonome dal piano di fede), è
condannata dal Cielo.
La Chiesa, in passato, non ha mai nascosto ai discendenti di quella
parte del popolo ebraico che non ha accettato la Divino-Umanità
messianica di Cristo (perché invece un’altra parte, comunque cospicua,
di quel popolo, di cui sono esempi massimi la Madonna, le pie donne,
gli apostoli e discepoli, l’hanno riconosciuta) quale è l’invalicabile
giudizio cattolico ad essi relativo.
Giudizio invalicabile perché fondato sulla Rivelazione, nel suo
complesso di Tradizione e Scrittura, e che pertanto nessuna, pur
necessaria, strategia pastorale può smentire, né ora né mai.
Dal canto loro, quegli ebrei che ancora oggi rifiutano Cristo come
Messia hanno ben compreso la questione e onestamente, a differenza di
tanti cattolici «ecumenisti», non nascondono che la pietra di inciampo
nel dialogo ebraico-cristiano è la Persona di Cristo.
L’ex rabbino capo di Roma, Elio Toaff, su Repubblica del 1 agosto 1992
ebbe a dire con onesta chiarezza: «In che cosa consiste la grande
ferita teologica tra cristianesimo ed ebraismo?
Nel Messia, chiaramente. Loro ci credono e noi no. E non si possono fare passi in questo senso.
Se noi riconoscessimo la funzione messianica di Gesù, non saremmo più
ebrei. Noi siamo rimasti quel che eravamo anche dopo Cristo. Non ci
siamo dissolti, non ci siamo convertiti. Siamo continuati ad esistere
al di là della ‘croce’, non ci siamo accontentati di essere definiti
solo come premessa alla religione cristiana…»
(4).
Se, dunque, da parte ebraica c’è assoluta chiarezza, la domanda che
inevitabilmente si impone è la seguente: da dove viene l’ambigua
posizione cattolica degli ultimi quarant’anni?
Nel comunicato della sala stampa vaticana di cui sopra, mentre viene
ricordato che: «l’Oremus per gli ebrei contenuto nel messale romano del
1970 resta in pieno vigore, ed è la forma ordinaria della preghiera dei
cattolici», si afferma: «I principi fondamentali della ‘Nostra Aetate’
hanno sostenuto e sostengono anche oggi le relazioni fraterne di stima,
di dialogo, di amore, di solidarietà e collaborazione tra cattolici ed
ebrei».
La «Nostra Aetate» - continua poi quel comunicato - «ricorda il vincolo
del tutto particolare con cui il Popolo del Nuovo Testamento è
spiritualmente legato ALLA STIRPE DI ABRAMO e respinge ogni
atteggiamento di disprezzo e di discriminazione verso gli ebrei,
ripudiando con fermezza qualunque forma di antisemitismo»
(5).
Fa così capolino la fonte primaria di tutto questo dialogo tra sordi.
La «Nostra Aetate», infatti, ha finito per creare molti più problemi di
quelli che si proponeva di risolvere, perché essa da documento di un
Concilio che si è voluto solo pastorale, e che quindi doveva affrontare
soltanto il problema, per l’appunto squisitamente pastorale, di una
corretta prassi di carità e misericordia verso gli ebrei, quella
fortemente raccomandata da San Paolo nella «Lettera ai Romani» ed a
volte dimenticata nel corso dei secoli da parte cristiana a causa di
complicate vicende storiche e politiche
(6),
è stata in realtà trasformata in un documento di dottrina alternativa
alla tradizionale teologia della sostituzione di evangelica e
patristica origine.
Insomma, il sospetto che il cardinale Agostino Bea, imbeccato
dall’esponente del «B’nai B’rith» Jules Isaac, abbia, non sappiamo se
inconsapevolmente (a Dio il giudizio in interiore homine), innescato
sotto il Concilio una bomba ad orologeria che a suo tempo è esplosa
facendo tremare le fondamenta stesse della Chiesa non è, purtroppo,
facilmente fugabile.
Infatti, l’espressione ambigua utilizzata, sulla scorta della «Nostra
Aetate», dal predetto comunicato della Santa Sede circa il legame
spirituale che tiene unita la Chiesa alla «stirpe di Abramo» è il
nocciolo del problema epocale sul quale la Chiesa stessa sta o cade,
proprio perché un legame spirituale con Abramo effettivamente esiste e
sussiste.
Si tratta infatti di capire se quel legame intercorre con la Fede di
Abramo intesa come cristianesimo ante litteram («Prima che Abramo
fosse, Io sono» Giovanni, 8,58), e quindi continuata, adempiuta e
superata nella Fede in Cristo Signore (ed in tal senso e solo in tal
senso può parlarsi di «Alleanza non revocata» come del contratto
preliminare ricompreso ed assorbito in quello definitivo) oppure se
esso sussiste con la fede abramitica intesa come fede sostanzialmente
identica all’attuale giudaismo post-biblico, talmudico, sicché tra
quest’ultimo e la fede dei Patriarchi e dei Profeti non vi sarebbe
differenza e rottura ma continuazione: ed, in tale ultimo caso, in
rottura con la fede di Abramo sarebbe il cristianesimo che, in tal
modo, paleserebbe - affermano gli esegeti giudaizzanti - la sua natura
di eresia giudaica di second’ordine
(7).
La soluzione al dilemma l’ha data direttamente Nostro Signore Gesù
Cristo quando disse, polemico, ai sinedriti:«Abramo, vostro padre,
esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne
rallegrò» (Giovanni, 8,56), facendo così intendere che l’antico
Patriarca ebbe la grazia di vedere misticamente, ossia per visione
intellettiva come direbbero i mistici, il Messia venturo, che gli era
stato rivelato e nel quale, come hanno insegnato poi anche i Padri
della Chiesa e San Tommaso D’Aquino
(8), egli credeva.
San Paolo, a proposito della fede di Abramo in Cristo, unica fede che
rende veri israeliti, dice: «Quelli che hanno fede, sono benedetti con
Abramo che credette» (Galati 3, 9).
Ed è in questo credere al Messia venturo, che aveva visto misticamente
per una speciale grazia di Dio, che consisteva, appunto, la Fede di
Abramo.
L’ambiguità della «Nostra Aetate» sta nel sostenere un legame
spirituale della Chiesa con gli ebrei intesi come depositari della Fede
di Abramo in quanto discendenti carnali del Patriarca (ma -
stranamente, sulla base della logica «naturalistica» di «Nostra Aetate»
- non viene contestualmente rivendicato un analogo legame con gli arabi
che pure discendono da Ismaele,
il figlio avuto da Abramo con la schiava Agar).
Ma le cose, per la Tradizione apostolica, non stanno così: la maggior
parte dei figli di Abramo secondo la carne non accetta la divinità di
Cristo e solo «un piccolo resto» (Romani, 9, 27; 11, 15) lo ha
accettato come Dio e Messia.
Cristo stesso, dicendo ai sinedriti:«Voi non avete per padre [secondo
lo spirito o la fede] Abramo, ma il diavolo» (Giovanni 8, 44), ha
indicato che non è la discendenza etnica a far entrare o a far rimanere
chicchessia nell’Alleanza ma sempre e soltanto la fede in Lui, già
coltivata misticamente da Abramo, Mosé, gli altri Patriarchi ed i
Profeti.
Basandosi sulle ambiguità linguistiche e concettuali della «Nostra
Aetate», la «Lettera ai Romani» di San Paolo è oggi oggetto di una
esegesi deviante.
Infatti si tende a mettere in evidenza che i gentili sono rami
selvatici innestati su Israele ma non si spiega cosa si deve intendere
per Israele.
Ora, è assolutamente chiaro che nella mente di San Paolo il riferimento era alla Fede di Israele, dunque alla Fede di Abramo.
Non solo: il fatto che nella stessa Lettera l’Apostolo delle genti dica
chiaramente che gli israeliti sono rami recisi dall’Olivo-Israele
dimostra che questo «Olivo» non può essere né l’Israele «carnale»,
ossia il popolo ebreo in senso etnico, né, in particolare, il credo
talmudico che è una interpretazione della Torah elaborata dai rabbini,
discendenti dei farisei, a partire sicuramente dal I secolo dopo
Cristo, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, ma risalente
addirittura già al I secolo avanti Cristo come sembra testimoniare la
dura polemica di Cristo con il Sinedrio. Ora, proprio questa polemica,
nella quale Cristo giunge a dire che farisei e dottori della Legge si
sono assisi sulla cattedra di Mosé e si sono impadroniti della chiavi
del Regno non entrando essi ed impedendo agli altri di entrare (Luca
11, 52 ; Matteo 23, 1-3), sta a dimostrare, ed è qui che la
neo-teologia cade, che tra ebraismo veterotestamentario, la Fede di
Abramo, e giudaismo post-biblico non vi è affatto continuità ma rottura.
La continuità invece vi è tra ebraismo e cristianesimo, tra Antico e
Nuovo Testamento null’unità dell’Alleanza che, come detto, per questo e
solo per questo, può dirsi, come ha affermato Giovanni Paolo II, «non
revocata»
(9).
Alleanza, quella del Vecchio Testamento, che, appunto, è adempiuta e
continuata nel, pertanto superata e perfezionata dal, cristianesimo.
Al momento il giudaismo post-biblico è fuori da questa continuità: ed ecco perché Paolo parla di «rami recisi».
Bisogna assolutamente integrare la «Lettera ai Romani» di San Paolo con
l’altra, la «Lettera agli Ebrei», dove si spiega quale relazione
intercorra tra il Sacerdozio Universale di Cristo, al modo di
Melchisedek, ed il sacerdozio levitico, definito quest’ultimo, da
Paolo, imperfetto e pertanto ormai abolito.
Ora, non è un caso che la neo-teologia abbia messo da parte la «Lettera
agli Ebrei» con la scusa che essa è certamente di ambiente paolino, e
dunque riporta senza dubbio gli insegnamenti di San Paolo, ma non
sarebbe stata scritta direttamente dall’Apostolo
(10).
Tuttavia, anche la «Lettera agli Ebrei», che la Tradizione assicura
essere di San Paolo (e nella maggior parte dei casi Essa ci coglie:
quante volte certezze «scientifiche» storico-critiche sono poi state
smentite da successivi studi e scoperte?) è stata accolta nel Canone
dei libri sacri ed ispirati.
Può dunque la Chiesa non farne giusta memoria nella sua funzione docente?
Del resto, pur volendo trascurare - ma si ripete non è possibile né
corretto - la «Lettera agli Ebrei», non può esserci nessuna «Nostra
Aetate» interpretata contro quanto afferma san Paolo nella «Lettera ai
Romani» (9, 1-13): « Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia
coscienza me ne da testimonianza nello Spirito Santo; ho nel cuore un
grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io
stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei
consanguinei seconda la carne. Essi sono israeliti e possiedono
l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto,
le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne,
egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen. Tuttavia la
parola di Dio non è venuta meno. INFATTI NON TUTTI I DISCENDENTI DI
ISRAELE SONO ISRAELE, NE’ PER IL FATTO DI ESSERE DISCENDENZA DI ABRAMO
SONO TUTTI SUOI FIGLI. NO, MA: IN ISACCO TI SARA’ DATA UNA DISCENDENZA,
CIOE’: NON SONO CONSIDERATI FIGLI DI DIO I FIGLI DELLA CARNE, MA COME
DISCENDENZA SONO CONSIDERATI SOLO I FIGLI DELLA PROMESSA: ‘Io verrò in
questo tempo e Sara avrà un figlio. E non è tutto; c’è anche Rebecca
che ebbe figli da un solo uomo, Isacco nostro padre: quando essi ancora
non erano nati e nulla avevano fatto di bene o di male - perché
rimanesse fermo il disegno divino fondato sull’elezione non in base
alle opere, ma alla volontà di colui che chiama - le fu dichiarato: ‘Il
maggiore sarà sottomesso al minore’, come sta scritto: ‘Ho amato
Giacobbe e ho odiato Esaù’ ».
Questa logica divina, di sovvertimento dell’ordine umano, sicché il
fratello minore Giacobbe è preferito al fratello maggiore Esaù, che
troppo ha contato sul suo diritto naturale di primogenitura, era
sicuramente presente a San Giovanni Battista quando, senza finzioni
diplomatiche, ricordava ai sinedriti, i quali affermando di avere
Abramo per padre pretendevano di essere i depositari della Promessa
soltanto in virtù della loro appartenenza etnica, che Dio può far
sorgere figli di Abramo anche dalle pietre (Matteo 3,7-9).
Nella convinzione dei sinedriti (non tutti: si pensi a Giuseppe
d’Arimatea ed a Nicodemo, discepoli di Gesù in incognito, per paura di
Caifa e dei suoi) di essere depositari della Promessa soltanto per
appartenenza etnica, si manifestava una esegesi spuria delle Scritture,
quella stessa che anche oggi professa il giudaismo talmudico, e che
ieri i farisei ed oggi i rabbini fanno risalire ad una presunta
tradizione orale trasmessa segretamente da Mosé, insieme alla legge
scritta, agli anziani
di Israele.
In realtà, questa presunta tradizione orale, dalla quale discende
l’odierno giudaismo talmudico, nel Vecchio Testamento è condannata da
Dio come «esoterica» ed «apostata» in quanto fossa di raccolta di
liquami gnostici originata dal contatto sincretistico di Israele con i
culti pagani delle popolazioni circonvicine.
Emblematico in tal senso il passo di Ezechiele 8,5-13.
E’ il passo scritturale nel quale Ezechiele è portato in spirito da Dio
nel Tempio per vedere le abominazioni dei sacerdoti: «Figlio dell’uomo,
vedi ciò che fanno costoro? Vedi le grandiabominazioni che la casa di
Israele fa proprio qui per allontanarmi dal mio santuario? Ma voltati,
e vedrai abominazioni ancora più grandi. E mi portò all’ingresso
dell’atrio, e guardando, vidi un buco alla parete. E mi disse: Figlio
dell’uomo, guarda. E apparve una porta. Entra, mi disse, e guarda le
perfide abominazioni che costoro fanno. Entrai, guardai, e vidi ogni
sorta di immagini di rettili e bestie abominevoli e tutti gli idoli
della casa di Israele dipinti in circuito nella parete. E settanta
uomini degli anziani della casa di Israele, tra essi Jozonias, figlio
di Safén, stavano in piedi davanti ad essi, ognuno col suo incensiere
in mano, dai quali saliva una nube d’incenso. E mi disse: Figlio
dell’uomo, hai veduto ciò che fanno IN SEGRETO gli anziani di Israele,
ognuno nella sua sala, piena d’immagini? Poiché dicono a se stessi:
Yahvé non ci vede, si è allontanato dalla terra. E mi disse: ebbene
vedrai abominazioni ancora maggiori di questa».
In proposito Julio Meinvielle osserva: «Il linguaggio allegorico è
semplice: le immagini di mostri, rettili, ecc., presenti nelle stanze
di ciascuno dei dottori, indicano soggetti geroglifici egiziani, e
quindi un vero e proprio linguaggio allegorico. Quello che è
assolutamente certo, è che Ezechiele si riferisce al Supremo Tribunale
d’Israele, in seguito chiamato ‘Sanhedrin’, vale a dire Sinedrio.
EZECHIELE ACCUSA IL SINEDRIO, SUPREMA AUTORITA’ GIUDAICA, DI IDOLATRIA
ED APOSTASIA»
(11).
Lo stesso Meinvielle collega le sue osservazioni alle parole di Gesù,
rivolte ai sinedriti, in Marco, 7,8: «Lasciando da parte il precetto di
Dio, vi afferrate alla tradizione umana. IN VERITA’ ANNULLATE IL
PRECETTO DI DIO PER INSEDIARE LA VOSTRA TRADIZIONE»
(12).
Come, dunque, si può uscire dalla problematica teologica ed esegetica
aperta dalla «Nostra Aetate» e che rischia, se non si interviene per
tempo, di sfociare in palese maggioritaria apostasia nella Chiesa?
Un rischio che deve preoccupare tutti i buoni cattolici benché, come da
promessa divina, un «piccolo gregge» sussisterà sempre: un «resto di
cristiani» forse destinato ad incontrarsi con il «resto di Israele» che
accoglierà Cristo alla fine dei tempi (concetto, quest’ultimo, che,
stando a Luca, 21, 24, non sembra dover per forza coincidere con quello
di fine del mondo).
L’unica via, a viste umane, è quella di correggere l’esegesi oggi
diventata prevalente della «Nostra Aetate», perché chiaramente
infondata alla luce della Tradizione e della Fede di sempre della
Chiesa.
Una correzione esegetica del tutto possibile dal momento che trattasi
di documento di un Concilio pastorale e dunque non dogmatico.
E’ noto che dopo ogni Concilio vi è una inevitabile fase di ricezione delle decisioni dello stesso.
Ciò vale a maggior ragione per un Concilio meramente pastorale come il Vaticano II.
Ora, è evidente che, come lo stesso Ratzinger, ancora cardinale, ha più
volte affermato, nella ricezione del Vaticano II qualcosa non ha
funzionato e che qualcosa, o «qualcuno»?, è intervenuto a bloccarne una
corretta ricezione sicché si è potuto opporre un presunto «spirito del
Concilio» al Concilio stesso, anche, va pur detto, a causa delle
ambiguità presenti in certe espressioni dei documenti conciliari, le
quali, pertanto, è necessario precisare, passata la tempesta
immediatamente post-conciliare, quanto prima.
A chi compete guidare, anche con incontestabili atti di magistero, la
corretta ricezione e la corretta esegesi dei documenti di un Concilio?
La risposta, notoria, è: al Papa.
Perché, anche per il Vaticano II come per il Vaticano I e tutti i
precedenti Concilii, mentre la giurisdizione, compresa quella docente,
del Pontefice romano è piena, ossia può esercitarsi anche senza il
collegio apostolico episcopale, non è vero il contrario ossia non è
possibile ai vescovi, né singolarmente né collettivamente, esercitare
un magistero infallibile se non in unione con il Papa. Quello della
collegialità, non a caso, è stato uno dei grandi problemi che hanno
travagliato prima
il Concilio Vaticano II e poi la Chiesa nel post-concilio.
Ma Benedetto XVI sembra essersi posto sulla via di una chiara
riaffermazione della supremazia del Papa sulla collegialità male intesa
propria di certe interpretazioni «democratiche» della costituzione
della Chiesa.
E ha dimostrato tale volontà di riaffermazione dell’Autorità
Pontificale proprio in occasione del Motu Proprio per la
liberalizzazione del Rito Tridentino.
In tale occasione, il Papa regnante, pur avendo rispettosamente
ascoltato gli episcopati, alla fine, e nonostante l’aperta contrarietà
di molti vescovi, in particolari di quelli francesi, ha deciso con atto
incontestabile del Pontefice, sorvolando su ogni fronda o malumore
intraecclesiale.
Dunque: è questa la via da praticare anche per quel che riguarda la
corretta interpretazione dei documenti del Concilio Vaticano II, ad
iniziare dalla «Nostra Aetate».
Per un tale atto di coraggio di Benedetto XVI, o di un suo successore,
noi preghiamo ogni giorno affinché anche le decisioni pastorali di un
Concilio non dogmatico come il Vaticano II siano riportate, come deve
essere e come era nelle intenzioni della maggior parte dei padri
conciliari (salvo quelli con riserve fraudolente come, forse, lo stesso
cardinale Bea), nell’alveo
della ininterrotta Tradizione della Chiesa.
Il continuo ripetere, ad iniziare da Papa Giovanni XXIII, in ambito
cattolico, anche in relazione al dialogo ebraico-cristiano, che bisogna
guardare più a quel che ci unisce che a quel che ci divide, fa cogliere
la misura drammatica della crisi di fede interna alla Chiesa
(13)
perché quel che ci divide è niente di meno che Cristo ossia
l’essenziale riconoscimento o disconoscimento della Sua Divino-Umanità
Messianica.
I cattolici sembrano averlo dimenticato, ma i «fratelli maggiori» no.
Giustamente Elio Toaff, nella citazione di cui sopra, ha ricordato
l’esistenza di una «ferita teologica» tra cristianesimo e giudaismo.
Nel confronto tra cattolicesimo e giudaismo post-biblico la «pietra
d’inciampo» resta sempre e comunque Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo.
«La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata
d’angolo» (Sal. 118,22-23; Is. 28,16; Matteo 21,42; Atti 4,11;) e
quindi invano si affaticano tutti coloro che pretendono di costruire il
Tempio senza quella pietra.
Gli israeliti nell’economia del Vecchio Testamento erano i costruttori del Tempio.
Ma il Tempio di Gerusalemme, quello che come da promessa divina avrebbe
visto, come in effetti ha visto, l’avvento del Messia, era soltanto la
figura del Vero Tempio, ossia di Cristo Dio-Uomo («Distruggete questo
tempio e in tre giorni lo farò risorgere» così Gesù, identificando Sé
stesso con il Vero Tempio, in Giovanni 2,19), nel quale sono entrate
tutte le nazioni affinché si adempissero le promesse fatte da Dio ad
Abramo: «Il Signore disse ad Abram: ‘Vattene dal tuo paese, dalla tua
patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che Io ti indicherò.
Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e
diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro
che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le
famiglie della terra’ » (Gen. 12, 1-3); «Poi lo condusse fuori e gli
disse: ‘Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle’ e
soggiunse: ‘Tale sarà la tua discendenza’ » (Gen. 15, 5); «Subito Abram
si prostrò con il viso a terra e Dio parlò con lui: ‘Eccomi la mia
alleanza è con te e sarai padre di una moltitudine di popoli. Non ti
chiamerai più Abram ma ti chiamerai Abraham perché padre di una
moltitudine di popoli ti renderò’ » (Gen. 17, 3-5)
(14).
I costruttori veterotestamentari non hanno compreso che stavano
costruendo soltanto un tempio di pietra prefigurazione del Vero Tempio
ed hanno finito, non riconoscendo Cristo Signore, per privare il loro
tempio della Sekinah, della Presenza di Dio, base sicura e roccia
indefettibile sulla quale poggiare tutto l’edificio, che, infatti,
abbandonato dalla Sekinah, nell’anno 70 è stato distrutto. Evento che
sarebbe stato impossibile se in quel tempio di pietra avesse ancora
dimorato, in quell’anno, la Gloria di Dio, quella che, invece, il 7
aprile dell’anno 30, primo Venerdì Santo, subito dopo che Cristo in
Croce esalò il suo ultimo respiro, allo squarciarsi del velo di
ingresso del Sancta Santorum, lo abbandonò.
Ma quella roccia indefettibile, quella pietra scartata dai costruttori,
è diventata la testata d’angolo del Nuovo e Vero Tempio di Dio, la
Chiesa cattolica che è il Corpo Mistico di Gesù Cristo.
E su di essa gli inferi non prevarranno, nonostante ogni possibile, ma sempre temporaneo, sbandamento storico.
Infatti, nonostante tutto il fumo luciferino attualmente penetratovi,
il Vero Tempio non sarà mai sostituito né dall’eventualmente
ricostruito tempio di pietra in Gerusalemme né dalla presunta
ricostruzione simbolico-iniziatica che la massoneria, istituzione
noachide di origine cabalista, afferma da secoli di voler realizzare
secondo la dottrina della gnosi sefirotica e panteista espressa nel
culto al Grande Architetto dell’Universo.
Nel Vero Tempio, di cui Cristo è la portante testata d’angolo, un
giorno anche gli israeliti (come gli islamici, del resto) entreranno,
finalmente innamorati del Verbo di Dio Incarnato.
Ma questa divina promessa non può, checché ne dica rabbi Riccardo Di
Segni, impedire a noi cristiani di pregare sin d’ora per la conversione
degli ebrei.
Anzi è proprio quella promessa a sollecitare questa preghiera, senza se e senza ma
(15).
Luigi Copertino
1) Confronta «Il Vaticano
e la nuova preghiera in latino del Venerdì Santo per la conversione
degli ebrei: ‘No all’antisemitismo, non cambia nulla rispetto al
Concilio’. Ma Di Segni attacca: ‘Questione irrisolta’ » di Gianluca
Barile in www.papanews.it.
2) Come quando, ad
esempio, qualche anno fa si rifiutò in malo modo di partecipare alla
commemorazione del quarantennale della «Nostra Aetate» a causa della
presenza, da parte vaticana, del, ora defunto, cardinale di Parigi
Lustiger, ebreo convertito, ma, aggiungiamo noi, molto giudaizzante,
(come si veda quella della conversione, pur spontanea, è per il Di
Segni e l’attuale ebraismo una vera ossessione) oppure come quando, in
un intervista di diversi mesi fa a proposito dei «privilegi fiscali
della Chiesa e delle pressioni ecclesiali nella vita politica
italiana», ebbe a pontificare, dall’alto della sua indiscussa «santità»
per appartenenza etnica al popolo che si crede ancora eletto, che i
cattolici devono una volta per tutte capire che i tempi del regime di
cristianità sono passati ed imparare a non pretendere favori o
posizioni di privilegio ma accontentarsi di condurre una vita
moralmente buona per sperare, era sottinteso nelle sue parole, di
essere ammessi un giorno da Jahvé nel regno messianico (perché come
ebbe a ricordare in altra occasione - si veda Shalom numero 2/2002 -
non è detto che i cristiani, in quanto idolatri per aver divinizzato un
uomo, saranno sicuramente ammessi nel regno di Dio in terra, che gli
ebrei aspettano). Da parte nostra vogliamo dire al dottor Riccardo Di
Segni che ai nostri peccati, nei riguardi dell’Altissimo, ci pensiamo
noi affidandoci alla Sua Infinita Misericordia, al Suo Amore Eterno
manifestato con la propria Offerta Olocaustica sulla Croce (l’unico
Vero Olocausto): lui, piuttosto, pensi ai suoi peccati ed a quelli dei
suoi correligionari e, soprattutto, al sangue innocente di cui Israele,
alla faccia anche dello sdegno religioso di purtroppo minoritari
settori dello stesso mondo ebraico, sta macchiando la santissima Terra
di Dio.
3) Anche quelle antiche,
infatti, erano formule in loro favore a differenza di quelle delle
«benedizioni ebraiche» (birkat ha-minim), in realtà vere maledizioni,
contro i cristiani: a proposito delle quali lo stesso Di Segni ha
affermato, giorni fa, che gli ebrei hanno già nel corso dei secoli
addolcito quelle «benedizioni», dimenticandosi però di dire che, anche
nella versione più «dolce» del Talmud babilonese, esse sempre
maledizioni rimangono e che l’addolcimento fu dovuto, nel corso del
medioevo, dalla necessità di non urtare apertamente la sensibilità
cristiana, mano a mano che i convertiti riferivano il contenuto di
certe preghiere, ed evitare così problemi con le autorità cristiane del
tempo.
4) A proposto di questa
dichiarazione di Toaff, va osservato che non è affatto vero che essi,
gli ebrei, sono rimasti quel che erano anche dopo Cristo. L’ammonimento
di Cristo in Giovanni 5, 45-47 sta lì a sancirlo:«Non crediate che sia
io ad accusarvi davanti al Padre; c’è già chi vi accusa, Mosé, nel
quale avete riposto la vostra speranza. Se credete infatti a Mosé,
credereste anche a me; perché di me egli ha scritto. Ma se non credete
ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?». Dunque, qui
Nostro Signore attesta senza dubbio che la fede nutrita dai sinedriti,
predecessori degli attuali rabbini, non era più la fede mosaica ma una
interpretazione sviata e deviante della stessa. Per quanto, poi,
riguarda il fatto che la conversione per l’ebreo significhi
necessariamente apostasia dalla propria ebraicità un predecessore di
Toaff nell’ufficio di rabbino capo di Roma, Eugenio Zolli, dopo il
battesimo, ha sempre asserito che per lui, ebreo, non si era trattato
di «conversione» in senso tecnico ma del naturale compimento della
propria ebraicità (dove per ebraicità egli intendeva la fede di
Abramo, ritrovata adempiuta e perfezionata in Cristo, e non la
deviazione talmudica o l’appartenenza etnica). Bisogna comunque dare
atto ad Elio Toaff che in questi giorni, mentre il Di Segni si esibiva
nelle dichiarazioni sopra viste, contrariamente al suo successore alla
carica di rabbino capo di Roma, si è detto assolutamente contrario alle
polemiche scatenate sulla preghiera pro judaeis ed ha riconosciuto come
non storiche e strumentali le polemiche contro Pio XII. Confronta in
proposito l’intervista di Bruno Volpe e Ilona Malysz, in
www.papanews.it, «Il Rabbino Elio Toaff e il ricordo di Giovanni Paolo
II: ‘Anche per me è stato un Santo’ ». Particolarmente forti le
espressioni usate in questa intervista da Toaff e, pertanto, è bene
riportarle testualmente «Domanda: gli ebrei, in particolare l’attuale
Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, hanno manifestato dei malumori
sulla revisione, da parte di Benedetto XVI, della preghiera del Venerdì
Santo per la conversione dei giudei contenuta nel Messale tridentino
di San Pio V… Risposta ‘Ma siamo seri! Ognuno è libero di pregare come
crede, certe polemiche non le capisco affatto’. Domanda: In
conclusione, un accenno ad un altro Papa: Papa Pio XII, a Suo avviso,
fu davvero antisemita? Risposta: ‘Penso assolutamente di no. Anzi, a me
risulta, anche grazie a delle testimonianze dirette, che quel Papa
salvò molti ebrei dalla morte. La storia di Pio XII antisemita è solo
una leggenda nera, bisognerebbe studiare di più per conoscere la storia
vera delle epoche e delle persone». Ecco, appunto: cari «fratelli
maggiori» studiate di più la storia delle epoche e delle persone. E non
solo a proposito di Pio XII!
5) Diciamo subito, a
scanso di ogni equivoco ed a prevenzione di ogni interessato
fraintendimento, che se si trattasse soltanto di respingere
l’antisemitismo, dopo aver chiaramente fatto le debite differenze
teologiche e storiche tra la tradizionale teologia cattolica
sull’ebraismo post-biblico e l’antisemitismo razziale anticristiano,
nulla ci sarebbe da osservare né in merito al comunicato in questione
né in merito alla «Nostra Aetate». Ma come vedremo non è questo
l’oggetto vero
di una certa interpretazione di quel documento conciliare. Per quanto
ci riguarda personalmente, l’antisemitismo, che - ripetiamo - è solo
quello a base razziale, è agli antipodi della nostra prospettiva
cattolica. Ed è per questo che ogni giorno l’autore del presente
articolo, «fratello minore» al modo di Giacobbe, prega affinché i suoi
«fratelli maggiori», al modo di Esaù, abbandonino la loro ostinazione
ed aprano il cuore alla Verità che è solo Cristo. E prega persino per
quel Riccardo Di Segni per il quale umanamente, come detto, non prova
simpatia ma che si sforza di amare, in Cristo, come fratello, anche se
sa che da lui, e da quelli come, lui continuerà a ricevere schiaffi.
Ciò non ci farà mai desistere dal ricordare, ad ogni occasione
propizia, ai «fratelli maggiori» che, avendo essi rifiutato Cristo, la
loro posizione nei confronti del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe è
attualmente equivoca. Il giusto ordine delle cose infatti è quello che
pone prima la Verità e poi la Carità, sicché le due devono darsi sempre
congiuntamente, e mai separatamente, ma nell’ordine suddetto. Perché se
la Verità senza Carità è impotente tuttavia la Carità senza Verità è
cieca.
6) San Paolo nella
«Lettera ai Romani» ammonisce severamente i cristiani, gli oleastri
selvatici innestati sull’Olivo santo al posto degli israeliti rami
recisi, affinché essi non si insuperbiscano contro gli ebrei facendo
loro violenza ma, al contrario, pur non dimenticandosi mai di ricordare
a questi la situazione equivoca nella quale si sono posti con il
rifiuto di Cristo, li trattino con la massima carità e misericordia.
Ciò perché altrimenti anche loro, i cristiani, rischiano di essere
divelti dall’Olivo santo, ossia, in altri termini, di essere condannati
alle pene del purgatorio o, peggio, dell’inferno, per mancanza di amore
e carità verso il prossimo, ebreo o greco che sia.
7) «Trascendente fioritura
messianica del giudaismo del primo secolo» definisce, per l’appunto, il
cristianesimo un esegeta giudaizzante come il Rossi De Gasperis,
maestro del cardinal Martini.
In base a questa aberrazione esegetica Corrado Augias e Mauro Pesce
hanno potuto parlare del Cristo «ebreo» e «non cristiano» facendo
propria l’idea, nata nel XVIII-XIX secolo in clima illuminista,
idealista-razionalista e storicista, di Gesù come un errabondo
predicatore giudeo ellenizzante, successivamente divinizzato dalla
comunità cristiana primitiva. E questa, non a caso, è la stessa accusa
che il mondo ebraico rivolge alla fede cristiana, sia quando esso
rigetta Nostro Signore Gesù Cristo sia quando, in alcuni suoi settori,
i cosiddetti «ebrei per Gesù», esso tenta di riassorbirlo all’interno
del giudaismo alla stregua, appunto, di un mero profeta ebreo.
8) Così l’Aquinate: «Non è
possibile credere esplicitamente il mistero di Cristo, senza la fede
nella Trinità: poiché il mistero di Cristo implica l’assunzione della
carne da parte del Figlio di Dio (…). Perciò prima di Cristo il mistero
della Trinità fu creduto come il mistero dell’Incarnazione, e cioè
esplicitamente dai maggiorenti e in maniera semplice e quasi velata
dalle persone semplici» (Summa Theol., II - II, q. 2, a. 8).
9) Le Alleanze sono due o
una? Intorno a questa domanda si è sviluppata una querelle teologica
che, per la verità, da un lato è priva di senso effettivo e dall’altra
è stata utilizzata dall’esegesi modernista e giudaizzante per
confondere le acque. Infatti, i modernisti giudaizzanti hanno
approfittato di quelle tendenze teologiche che mettono l’accento sul
fatto che l’Alleanza di Dio con l’umanità, prima in Adamo, poi in
Abramo e infine definitivamente in Cristo, sia essenzialmente una unica
alleanza, che si sviluppa nella storia universale del genere umano, per
sostenere, abusivamente ed indebitamente, contro, ad esempio, le
lettere di San Paolo, che l’Israele post-biblico sarebbe ancora
all’interno di quell’unica Alleanza e non, come invece è nell’effettiva
realtà teologica e storica, temporaneamente sospeso dall’Alleanza in
attesa di esservi reinserito a pieno titolo alla fine dei tempi. E
questa indebita ed abusiva conclusione i modernisti giudaizzanti la
affermano anche forzando il senso di quanto detto da Giovanni Paolo II
a proposito dell’«Alleanza non revocata» (che al di là delle personali
intenzioni di quel Papa, che tuttavia non ha mai usato
quell’espressione ex cathedra, non può essere interpretata mai e
giammai contro la consolidata tradizione apostolica e patristica, per
la quale può parlarsi di non revocazione solo in funzione
dell’adempimento e riassorbimento definitivo dell’Antica Alleanza in
Cristo). In realtà, laddove non si bari, come fanno i modernisti
giudaizzanti, non c’è alcuna differenza concettuale e teologica, se non
nella sola forma terminologica, tra il dire che le Alleanze sono due,
l’Antica provvisoria e la Nuova Eterna, ed il dire che l’Alleanza è una
in due Testamenti o Patti, l’Antico preliminare ed il Nuovo Definitivo,
che riassorbe il primo perché lo perfeziona, lo adempie e lo supera. In
un caso e nell’altro, sulla base di quanto ammoniva Cristo ai sinedriti
(«Perciò Io vi dico: vi sarà tolto il regno e sarà dato ad un altro
popolo che lo farà fruttificare», Matteo 21,43: dove il nuovo popolo di
Dio non è inteso in senso etnico ma in senso spirituale ed universale
come è, appunto, la Chiesa cattolica, Madre che accoglie in Cristo,
facendone spiritualmente Uno, tutti i popoli intesi in senso etnico) e
sulla base dell’insegnamento apostolico (lettere di San Paolo, ai
Romani ed agli ebrei) nonché di quello patristico, che si fonda sul
Vangelo e sulla predicazione apostolica, l’Israele post-biblico è,
temporaneamente, fuori dall’Alleanza, sia che essa venga colta nella
sua essenziale unità, sia che venga considerata, tradizionalmente,
nella sua duplicità. Infatti, la teologia tradizionale quando parlava
di due Alleanze, l’Antica e la Nuova, sempre, tuttavia, ne parlava come
di Alleanze tra loro interconnesse ed inseparabili in quanto la
sostituzione della Nuova ed Eterna Alleanza all’Antica, provvisoria, è
avvenuta non abolendo ma ricomprendendo, ossia portando a compimento e
perfezionamento, quest’ultima nella prima. Che l’Israele post-biblico
sia fuori dall’Alleanza, sia che la si voglia intendere una sia che la
si intenda duplice, è testimoniato dallo stesso giudaismo post-biblico:
infatti è comune convinzione del rabbinato che il Talmud, il commento
rabbinico della Torah, ossia della Legge veterotestamentaria, sia
superiore alla Torah stessa. Alcuni rabbini esprimono questa
convinzione con la metafora per la quale mentre la Torah è acqua il
Talmud è vino. Dunque è insostenibile, persino volendo adottare il
punto di vista talmudico, come fanno i modernisti giudaizzanti,
affermare che l’Israele post-biblico sia ancora, a pieno titolo,
all’interno dell’Alleanza. Sono gli stessi ebrei talmudici a
riconoscerlo. Quindi a proposito dell’Israele post-biblico può parlarsi
di «popolo dell’Alleanza non revocata», come ha fatto Giovanni Paolo
II, non nel senso inteso dai modernisti giudaizzanti di popolo tuttora
fedele all’Alleanza non revocata ma solo nel senso, perfettamente
conforme, pur nel nuovo linguaggio utilizzato dal Papa, alla
Tradizione, di «popolo che fu un tempo quello per primo chiamato
all’Alleanza non revocata (ed oggi definitivamente compiuta in Cristo)
ma che ora non è più, temporaneamente, nel solco di questa unica ed
unitaria Alleanza». Al di là di ogni querelle teologica, ciò che non si
deve mai dimenticare da parte dei cristiani è che la loro fede è
fondata sull’unità della Rivelazione in prospettiva cristologica. Né
talmudismo/cabalismo né marcionismo/gnosticismo: è questa l’unica
posizione esegetica autenticamente cristiana.
10) In merito alla
paternità paolina della «Lettera agli Ebrei», l’autore del presente
articolo ha avuto, a suo tempo, modo di chiedere, in occasione di una
discussione in argomento apertasi con un amico, di sicura fede
cattolica e di ottima impostazione teologica tomista, esperto
ricercatore universitario di esegesi e di fonti cristiane, del quale
non possiamo rivelare il nome per evitargli problemi con certi suoi
docenti «razionalisti» (eh sì, a questo è ridotta la libertà
«occidentale» anche nell’ambito accademico!), un parere. Questo amico,
di notevole competenza in materia, alla nostra richiesta ha fornito
puntuali e chiarificanti notizie nel testo che riportiamo,
integralmente, qui di seguito a comune beneficio di tutti quei buoni
cattolici spesso fuorviati, anche in ambito ecclesiale, dalle
apodittiche «sentenze» di certi soloni del criticismo storicista: «E’
un tema delicatissimo, non soltanto da un punto di vista teologico, ma
anche da un punto di vista storico-esegetico. Posso aggiungere qualche
nota alle osservazioni di Luigi Copertino. Che la Lettera agli Ebrei
sia o non sia da attribuire alla mano di Paolo, non ha troppa
importanza. Quasi nessuno, oggi, ne difende l’attribuzione diretta
all’apostolo. Anzi, viene spesso ripetuta la battuta di apertura di un
commentario del gesuita Albert Vanhoye: ‘La lettera di Paolo agli
Ebrei? Non è una lettera, non è di Paolo, e non è indirizzata agli
Ebrei…’. Dubbi sul suo autore ce ne furono fin dall’antichità.
Tertulliano la attribuiva all’apostolo Barnaba (compagno di Paolo nelle
prime missioni da Antiochia). Clemente Alessandrino († prima del 215),
la riteneva composta da Paolo ’in lingua ebraica’, da Luca
successivamente tradotta con cura e diffusa presso i Greci (un’ipotesi
sulla quale ho iniziato a scrivere qualcosa, tempo fa: in effetti il
testo presenta parecchie affinità con lo stile e il lessico dell’autore
degli Atti degli apostoli, che fu discepolo di Paolo). Origene († nel
253-254) ci informa invece che, ‘secondo la tradizione che è giunta a
noi, alcuni sostengono che la abbia scritta Clemente, colui che fu
vescovo di Roma, secondo altri invece a scriverla fu Luca, l’autore del
Vangelo e degli Atti’. Anche se, precisa sempre Origene, ‘i pensieri
sono dell’Apostolo: se dunque qualche chiesa considera questa lettera
veramente di Paolo, essa stessa si rallegri anche di questo. Non è un
caso, infatti, che gli antichi l’abbiano tramandata come se fosse di
Paolo’. Ma, ribadisco, questo non toglie nulla all’importanza,
all’antichità e alla canonicità dello scritto, né al suo profondo
accordo con la teologia di Paolo. Sull’identità dei suoi destinatari, e
sulle intenzioni profonde del testo, ho delle ipotesi molto
particolari, che sarebbe troppo complicato riassumere. Come Paolo
argomentava che la fede di Abramo (che non era un ‘circonciso’)
precedette il Patto di Mosè sul Sinai (nella lettera ai Galati, al
capitolo 3, e in quella ai Romani, capitolo 4), così la Lettera agli
Ebrei presenta Cristo come mediatore di una Nuova Alleanza, secondo
l’ordine universale di Melchisedek, che precedeva il sacerdozio
levitico. Cosa significa? Significa innanzitutto che l’Alleanza di
Cristo abbatte i confini dell’Israele ‘secondo la carne’, e porta a
compimento le promesse che Dio fece per mezzo di Abramo a tutti i
popoli, e non solo a quello ebraico. Il culto del Tempio di Gerusalemme
e la Legge mosaica sono ‘copia e ombra’ di ciò ch’è stato rivelato per
mezzo di Cristo, e come tali sono destinati all’annullamento (vedi,
molto chiaramente, Ebrei 8,13). Così, secondo la metafora
dell’olivo-Israele, chi crede
in Gesù entra automaticamente a far parte di Israele, che sia circonciso o incirconciso.
Ai destinatari delle lettere ai Corinzi, che furono in maggioranza non
ebrei, l’apostolo può scrivere tranquillamente: ‘voi che un tempo
eravate Gentili’ (ethne: ‘non ebrei’, pagani). I convertiti, così, non
sono ‘cristiani’ (in Paolo il termine non esiste ancora), ma proprio
Israele. E gli israeliti che non credono in Gesù? Ad essi è dedicata
appunto, in modo speciale, una sezione della Lettera ai Romani
(capitoli 9-11), dove l’indurimento parziale di Israele, di
quell’Israele che non riconosce Gesù Cristo, è presentato come un
‘mistero’ (il termine greco mysterion, in Paolo, è riservato
a realtà inafferrabili da parte della ragione, che fanno parte del
piano misterioso di Dio per la storia). ‘Che diremo, dunque? - scrive
l’apostolo - I Gentili, che non cercavano la giustizia, raggiunsero la
giustizia, quella derivante dalla fede [di Abramo!], mentre Israele,
che perseguiva una legge di giustizia, non la raggiunse. E perché?
Perché non la cercava dalla fede [di Abramo] ma dalle opere [della
Legge mosaica]. Inciamparono nella pietra d’inciampo [Gesù Cristo]’
(Romani 9,30-32). E continua: ‘Inciamparono per cadere per sempre? No!
Ma a motivo della loro caduta la salvezza è giunta ai Gentili, per
spingerli alla gelosia [cioè al desiderio di emularli]’ (11,11).».
Come si vede, nessun dubbio, neanche alla luce delle ricerche attuali,
sulla sostanziale paternità paolina della «Lettera agli Ebrei». Benché
essa nel testo pervenutoci non possa essere attribuita direttamente a
Paolo, ossia benché essa non sarebbe stata scritta direttamente in
greco dall’Apostolo (ma probabilmente solo in ebraico e poi tradotta in
greco da San Luca evangelista), riporta senza alcun dubbio il
magistero, indefettibile e canonico, di Saulo di Tarso.
11) Confronta J.
Meinvielle «Influsso dello gnosticismo ebraico in ambiente cristiano»,
Sacra Fraternitas Aurigarum, Roma, 1995, pagina 61.
12) Confronta J. Meinvielle «Influsso …» opera citata.
13) La drammatica crisi di
Fede che travaglia attualmente la Chiesa è una realtà innegabile ma non
può giustificare alcun «sedevacantismo». Questo atteggiamento, infatti,
oltre a rischiare di sfociare nel settarismo, è palesemente contrario
alle stesse promesse di Cristo: «Tu sei Pietro e su questa pietra
edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro
di essa» (Matteo 16,18); «Ecco, Io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo» (Matteo 28, 20).
14) E’ questa, infatti, la
corretta esegesi di questi passi biblici. Anzi l’unica esegesi
possibile, ossia quella cristologica, senza la quale tali passi
diventano, come sono diventati per l’appunto nella lettura rabbinica,
l’assurda pretesa di una supremazia, e poco importa che i rabbini più
moderati parlino di «supremazia spirituale», di un popolo che si
attribuisce una missione universale: messe così le cose è impossibile
sfuggire ad un esito etnocentrico, sebbene con pretese universalistiche
(il che diventa poi un’aggravante dell’etnocentrismo), che fa di un
popolo, di una nazione particolare anche se si proclama «santa», un
soggetto superiore agli altri popoli. Ora, passare da una superiorità
spirituale ad una superiorità politica, e perfino razziale, è molto
facile, come la storia del sionismo, quella del fondamentalismo dei
coloni e dei rabbini ortodossi e le vicende mediorientali stanno lì a
dimostrare irrefutabilmente. Al contrario, l’Apostolo delle genti, vero
israelita, afferma «in Gesù Cristo la benedizione di Abramo passa alle
Genti» (Galati 3, 14). Ciò significa che il vero passaggio dal
tribalismo veterotestamentario, nel quale era comunque già presente ed
annunciato il successivo universalismo cristiano, all’Universalità
cattolica si è potuto realizzare storicamente soltanto con
l’Incarnazione del Verbo di Dio in Nostro Signore Gesù Cristo,
preparata già da secoli nell’incontro ellenistico tra Gerusalemme ed
Atene. Passaggio all’Universalità che, sotto la guida dello Spirito
Santo, trovò il suo sigillo nel fissarsi della sede del Vicario di
Cristo a Roma, città dalla chiara e provvidenziale vocazione
universalista votata, per questo, al superamento giuridico degli ethoi
tribali per un più grande Ethos universale.
15) Chi scrive quando
prega per i «fratelli maggiori» si appella alla Infinita Misericordia
di Dio nella speranza che Egli abbia sempre concesso e conceda tuttora
a ciascuno di essi, al momento decisivo del trapasso, un intimo moto
d’amore verso Cristo che possa salvarli. A proposito di preghiera,
vogliamo lanciare una sfida ai «fratelli maggiori». Invece di
lamentarvi per il fatto che noi «fratelli minori» preghiamo per la
vostra conversione, perché, se siete così sicuri della verità della
vostra fede post-biblica, non iniziate anche voi a pregare, invece di
maledirci nelle vostre talmudiche «benedizioni», per la nostra
salvezza? Abbiamo tutti, voi e noi, un esempio storico eccezionale. Il
medioevo fu un’età di grandissima tolleranza religiosa di fatto (non
certo di diritto), perlomeno al vertice, ossia tra dotti, teologi e
filosofi. La metafora di quella tolleranza fu
la cosiddetta favola delle tre anella. Un Padre, prima di partire,
consegnò a ciascuno dei suoi tre figli un anello dicendo loro che uno
solo degli anelli era quello autentico ma che la loro missione non era
quella di scoprire quale fosse l’anello autentico ma di custodire
fedelmente l’anello avuto in consegna. Al suo ritorno il Padre avrebbe
rivelato quale era l’anello autentico ma ciascuno dei figli sarebbe
stato giudicato in base, non al possesso del vero anello, ma alla sua
fedeltà alla consegna ricevuta. Fuor di metafora, il Padre è Dio, i
figli sono gli ebrei, i cristiani e gli islamici, gli anelli le loro
tre fedi. Orbene, fermo rimanendo il diritto di apostolato e quello di
convertirsi alla fede cristiana e fermo rimanendo che la prima,
doverosa ed irrinunciabile, forma di carità cristiana è quella
spirituale della predicazione di Cristo ai non cristiani, l’autore di
questo articolo è così convinto che la Chiesa cattolica, cui egli
appartiene, abbia avuto in consegna l’anello autentico, l’unico anello
autentico!, da non temere nulla se, mentre da parte nostra si prega per
la conversione degli ebrei a Cristo, noi cristiani diventassimo
l’oggetto della eventuale preghiera dei «fratelli maggiori» in nostro
favore. Cari «fratelli maggiori», vogliamo scommettere su chi vincerà
alla fine? Fatevi sotto!
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