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E adesso basta!
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1. Mi si permetta di iniziare con un po’ di umorismo macabro.
Non credo che i sinistri «arcobaleno» debbano mettersi in gramaglie.
In definitiva, si sono svuotati almeno al 90% dei coglioni che hanno sicuramente votato il PD, l’equivalente berlusconiano o, per meglio dire, la sua immagine riflessa in uno specchio che, come ben si sa, riproduce esattamente le stesse sembianze di chi vi si pone davanti, solo con la parte destra riflessa come fosse sinistra.

In definitiva, adesso la sinistra/sinistra si trova liberata dai coglioni; sarebbe quindi sufficiente mandare a casa tutti gli imbroglioni e saltimbanchi e maneggioni che l’hanno diretta (e non solo ai vertici che cominciano, mi sembra, ad andarsene, ma anche nel quadro «intermedio» fatto di tanti piccoli opportunisti infiltratisi nei vari apparati ministeriali e in quelli pubblici dispersi sul
territorio).

Tuttavia, poveraccia questa sinistra se la «coscienza autocritica» è affidata a quell’invasata che ho visto a Matrix.
E pensare che alcuni amici (e «compagnucci») me ne avevano parlato come di una giovane nuova e brillante.
Veramente, questi amici e compagnucci hanno perso la tramontana.

La fanciulla, fatta apposta per far sorridere sia i vincitori che i vinti (ma con un futuro davanti, come i «pidiisti»), mi ricordava alcuni studenti di «Lotta comunista» che avevano dato con me l’esame di Economia politica negli anni ‘90, ed erano la migliore dimostrazione degli effetti non del tutto positivi della chiusura dei manicomi; in effetti, li chiamavo «affettuosamente» i «basagliati».

Questa fanciulla, che sembrava la caricatura dell’agit-prop trinariciuto degli anni ‘50, ha concluso affermando di essersi presa comunque una piccola soddisfazione perché il suo partito del «zerovirgola» aveva ricevuto qualche po’ di voti in più di Ferrara.
Si sarebbe dovuta riprendere con una certa energia; invece, gli avversari sono tanto buoni e comprensivi quando trovano chi fa ridere facendo la parodia del «comunista».

E’ ora di dirlo con la massima chiarezza: questi non sono semplicemente comunisti, bensì vanno ormai chiamati con il loro vero nome: trotzkisti e bordighisti, schegge del movimento fin dagli anni ‘30.
Oggi rimangono in campo per sputtanare definitivamente la memoria di ciò che fu comunque una grande forza, capace di tentare veramente l’assalto al cielo; essa non ha raggiunto quell’obiettivo ma, piaccia o non piaccia, ha cambiato la storia.

L’unico modo per onorarla realmente è consegnarla alla nostra memoria e all’insegnamento (anche per quanto di negativo fece) che può fornirci, in base ad un esame disincantato ma non velenoso come quello di tutti coloro che hanno preso una paura matta (e per un secolo o giù di lì) di essere spazzati via da essa.
Consentire ancora che alcuni «fuori di testa» si impadroniscano di quel movimento, e lo infanghino con la parodia e caricatura, è la peggiore azione che possano compiere quei pochi compagnucci onesti ma evidentemente ormai disorientati al 100%.
Si prendano le distanze da tutti costoro.

2. Solo un ottuso può non capire che, a modo suo, il voto di domenica e lunedì - in cui si è mostrata tutta la spoliticizzazione (ormai all’americana) dell’elettorato italiano - è comunque un voto «storico».
Il commento meno scemo l’ho sentito fare a Bobo Maroni: si è trattato di un piccolo «crollo del muro» avvenuto in Italia con poco meno di vent’anni di ritardo.
Mentre lo diceva, lo stavo già rimuginando per conto mio.
E allora cerchiamo di chiarire meglio.

Il sottoscritto, allievo di Bettelheim e influenzato dalla scuola althusseriana, già alla fine anni ‘60-inizio ‘70 dava per scontato che il «socialismo reale» era ormai tutto salvo che un embrione (pur mal riuscito) di socialismo o comunismo.
Non facendo di professione il profeta, non sapevo come sarebbe finito né quando sarebbe finito; fui anzi sorpreso dal crollo avvenuto così repentinamente senza colpo ferire.

Tuttavia, non mi esimo dal ricordare che, anche quando i Soloni radical-chic della sinistra-sinistra italiana (e anche di altri Paesi a cominciare dai «cugini» francesi) inneggiavano a Gorbaciov (alla perestrojka, alla glasnost e a tutte le altre coglionate della sinistra «radicale» di allora),
il sottoscritto fece un’analisi del ruolo ricoperto da quel nefasto personaggio (meritatamente finito, dato il suo squallore e la sua scarsa intelligenza, a far pubblicità alla pizza) in quanto liquidatore dell’impero sovietico.

Quando infine il crollo avvenne non fui quindi «colpito a morte» come tanti compagnucci (del solito genere), anzi sentii un profondo senso di sollievo, pur se certo accompagnato da un minimo di malinconia per la fine ingloriosa di un movimento che di glorie (ma passate da tanto tempo!) ne aveva invece avute tante.
Eppure, pur avendo previsto la fine di quell’esperienza, essa ebbe comunque influsso anche sui tipi come me.
Perché, malgrado ormai da anni (almeno dalla demaoizzazione della Cina iniziata nel 1976) certe prospettive fossero via via sbiadite, permaneva ancora un barlume di lotta «antirevisionista» con l’idea che forse, chissà, sarebbe stato possibile un giorno «rifondare» qualcosa che assomigliasse al «comunismo».

Il crollo mise termine ad ogni vaga speranza e mise in moto il cervello, facendo capire a chi ancora non era sclerotizzato e divenuto un fondamentalista religioso (della stessa pasta dei Testimoni di Geova) che un’epoca storica si era chiusa e che si doveva voltare pagina.
Non c’era più nulla da riformare o rifondare!
Questo non avvenne in Italia.

Adesso non ne abbozzerò qui nemmeno un’analisi; in ogni caso, sia la testardaggine dei «rifondatori» sia l’opportunismo di coloro che divennero servi, s-vendendosi al capitalismo «agnelliano» (mediante «mani pulite»), impedirono l’effettiva resa dei conti con la chiusura di un’epoca.

Permase invece la stolta credenza che il «comunismo», o anche il «riformismo» (nemmeno di stampo socialdemocratico ma solo legato alla svendita di cui appena detto), si identificassero con lo statalismo; per di più nella sua mera e parassitaria forma dell’assistenzialismo «pubblico».
Da qui l’alleanza di certi pseudomarxisti (della «cattedra») con certi «similkeynesiani» per difendere ciò che ha condotto infine nella più totale palude il nostro Paese.
Quindici anni persi (finora) dietro al suddetto capitalismo «agnelliano», con i suoi ancor più parassitari eredi (la GFeID; per chi non lo sa ancora: grande finanza succube degli USA e industria decotta sempre bisognosa del finanziamento statale).
Le elezioni sembrano annunciare (non diamolo ancora per scontato al 100%) la fine - o almeno il suo inizio - di quest’epoca, quindi in effetti un piccolo «crollo del muro».

Era un po’ patetico (e piuttosto disgustoso) vedere la stanca e flaccida faccia di Paolo Mieli (questo vecchio ex «lottacontinua», una forza extraparlamentare che ha impestato tutto il nostro giornalismo del peggio che si potesse immaginare) nel suo tentativo di dare ancora credito al «nuovo che avanza» con il PD - in definitiva, egli «votava» ancora, come nel marzo 2006, per la continuazione di uno statalismo assistenziale a favore della GFeID - mentre il vicedirettore dello stesso squallido giornale (Battista) si dimostrava assai più duttile ed evidentemente pronto all’eventuale sostituzione di colui che ormai assomigliava ad un novello Eugenio Scalfari.

Non parliamo della pena provata a vedere le 490 firme elettorali per il PD; tutti i veri «nani e ballerine» (i più futili e inetti registi e attori italiani, incapaci di un solo film discreto o almeno ben recitato) più qualche calciatore; una fiera delle «mostruosità» rimaste del veterostatalismo assistenziale italiano, il famoso pezzo di «socialismo reale» di cui ho parlato spesso.
Mi dispiace usare il linguaggio del «nemico»; purtroppo è però vero che l’Italia che «lavora e produce» ne ha ormai le scatole piene di un apparato pubblico di puro sperpero e magna-magna.

Purtroppo, il capolavoro fatto dal «nemico», coadiuvato da quei pezzi di liberismo - il peggiore -  passati con Veltroni (un Ichino, gli imprenditori «kamikaze», ecc.), è stato di far passare lo sperpero «pubblico» come semplice regno del «fancazzismo» degli impiegati di tale settore.
Così si è nascosto abilmente che le colpe peggiori sono non solo dei manager (sedicenti tali) di questo tipo di impiego (si pensi, come solo esempio, al duo che s-governa le Ferrovie), bensì soprattutto della parte politica che dà assistenza statale alla GFeID, a questi immani parassiti e venduti alla finanza e politica statunitense.

La colpa di questo capolavoro di mascheratura va però assegnata, a pari merito con gli altri, anche all’infame sinistra-sinistra, la cui ignominia è stata questa volta punita severamente; e speriamo per sempre.
E’ questa immonda e stupida sinistra pseudoradicale che ha ancora portato avanti la bandiera dello statalismo come pseudoriformismo «quasi» socialista (da «socialismo reale» appunto).
Per fortuna, almeno questo pezzo di sinistra ha infine pagato le sue colpe (mi auguro definitivamente).
Ci sono gli invasati di cui già detto, i quali cianceranno di fine del capitalismo (magari per caduta tendenziale del saggio di profitto; questi enormi coglionazzi!) quando arriverà la prossima crisi prevista fra qualche mese.
Ormai, però, si spera siano finiti.

Sono stati abbandonati anche dai ceti operai (non Classe; solo ceti operosi e in questo momento assai mal pagati).
Fior di indagini sociologiche mettevano in luce da anni come si andava orientando il voto operaio; in specie al Nord (la parte di gran lunga più industriale), si è capito che gli operai hanno finalmente (salvo forse una parte dei poveri pensionati ormai vecchi, sconsolati, rimbambiti e fuori della storia) voltato le spalle a chi ancora insiste su falce e martello, sulla Classe che deve fare la rivoluzione anticapitalistica (per dare soddisfazione a quattro fetenti fuori di testa ormai da bastonare per la loro imbecillità e la vergognosa parodia e caricatura di ben altri momenti storici, che debbono restare nella nostra memoria con tutta la loro grandezza, non invece infangati da questi cialtroni e mentecatti).
Almeno al Nord, l’eredità dei ceti operai passa, per il momento, alla Lega.
Non è per nulla una buona notizia; ma va preso atto che gli operai non ne possono più di imbecilli che parlano un linguaggio di quasi cent’anni fa.

3. Personalmente, non desidero più interloquire con «basagliati» del genere della tizia vista a Matrix o con chi stima personaggi simili.
Chiunque creda ancora di essere a prima del «crollo del muro» deve essere compatito, ma isolato. Qualche residuo (endemico) di malattia è inevitabile come l’anarchismo dopo la fine della sua epoca storica nell’ottocento.
Adesso lo sono i «comunisti».
Si scompongano e ricompongano, litighino pure fra loro sull’eredita del Nulla.
Noi, per favore, tiriamoci definitivamente fuori.

Perfino il lavoro dipendente, quello ai bassi livelli salariali, non è più con loro; ha bisogno di ben altre difese e di ben altre lotte.
E non ci sono del resto solo questi lavoratori, ma molti altri.
Anche quelli del settore detto pubblico cominceranno forse a capire quali sono i loro reali interessi e in quale cul di sacco si sono infilati; comunque, al momento, seguiranno i «pidiisti».
Nei nostri paesi del capitalismo «occidentale» esiste ormai un enorme aggregato sociale caotico, non ben noto, che va assimilato - con il solito mutatis mutandis - al Terzo Stato dell’epoca della Rivoluzione Francese e subito dopo di essa.

Si stanno verificando al suo interno differenziazioni di reddito sempre più nette; il vecchio modello a botte sta mutando in quello a clessidra (con base superiore nettamente ristretta rispetto all’inferiore).
Questo è tuttavia un aspetto «distributivo», dice ancora poco su eventuali (non certe né nel se né nel quando, però abbastanza probabili in tempi storici non secolari) differenziazioni più nette quanto a funzioni subordinate nell’ambito della riproduzione della nuova formazione sociale capitalistica, che è lontanissima da quella analizzata dal vecchio marxismo.
Siamo già da tempo in un mondo nuovo, e continuiamo a traccheggiare ed esitare nel prenderne atto.

O sappiamo andare avanti e proporre nuove analisi e nuove teorie di quest’epoca - non certo con l’improvvisazione e la fretta cattiva consigliera di tutti i «maniaci della rivoluzione» - o altrimenti è bene che smettiamo di scrivere; almeno non faremo danni come i pezzi scriteriati del vecchio «comunismo» (in realtà lo ribadisco: trotzkismo e bordighismo, malefici come lo sono sempre stati!).
Definitiva rottura con questo mondo… immondo e popolato dagli «ultimi folli»; avanzi putrefatti di una cattiva digestione.
Basta con i coglioni e gli ignobili!
Piaccia o non piaccia, queste elezioni qualcosa hanno detto; far finta di nulla è peggio che un delitto.

4. Rendiamoci conto che PDL e PD (insieme prendono il 70% dei voti sia alla Camera che al Senato) sono ormai partiti «interclassisti»; sono rappresentati in tutti gli spicchi sociali che formano la «clessidra» di cui detto sopra.
L’unico partito in qualche modo popolare (ma regionale) è la Lega (che ha inciso perfino in Emilia, e quasi sicuramente proprio presso i ceti operai, così come a Sesto San Giovanni, la fu Stalingrado italiana).
L’interclassismo (cioè, in realtà, la rappresentanza multi-ceti) è indice di una chiara americanizzazione della politica italiana; cioè di fatto di una spoliticizzazione della popolazione, poiché non c’è nulla di meno politico della sedicente democrazia (elettoralistica) americana.

Qui da noi, per il momento, vota ancora l’80% degli aventi diritto; anche in tal caso, smettiamo di raccontarci frottole: l’astensionismo, detto attivo (non so perché), non ha inciso quasi per nulla, pur se il 3% in più (di astensionisti) va pressoché totalmente ascritto a settori di «estrema» sinistra.
Con altre parole, si può anche sostenere - sbagliando terminologia - che si sta verificando la tanto «decantata» (dai più reazionari) fine delle ideologie.

In realtà, si tratta solo della fine delle vecchie ideologie.
Ce ne saranno altre; altri ismi prenderanno il posto di quelli ormai totalmente consunti.
Siamo in un’epoca di trapasso, di gestazione, che è sempre piuttosto dolorosa e appare priva di speranze e di slanci verso il futuro.
La storia non è però finita, anzi siamo in marcia verso la sua «ripresa».
Non certo però seguendo i vecchi sentieri ormai pieni di erbacce e con qualche disperso zombi che vi barcolla cercando un appiglio in ringhiere ormai crollate.

Qualche tempo fa qualche sciocco aveva sentenziato: «tornano i rosso-bruni».
Non tornano né i rossi né i bruni; sono finiti entrambi nella famosa «pattumiera della Storia».
Torneranno invece, ma nessuno si metta a predire il quando e il come, i «rivoluzionari» dentro e contro il capitale (detto però in modo generico come si addice a fenomeni che per il momento non vanno nemmeno delineandosi).

Denigrare oggi coloro che si oppongono all’americanizzazione (che per me coincide con la spoliticizzazione e la pericolosa deriva de-ideologizzante, cioè l’assenza di valori e di scelte nette), dando le pagelle con i voti a seconda che si sia di «destra» o di «sinistra» (sia pure con l’aggiunta della parolina «radicale»), è solo un altro aspetto della follia dei mentecatti ancorati maniacalmente alle vecchie ideologie completamente corrose dal Tempo, questa «brutta malattia» che tutto
sbriciola e fa decadere.

I credenti si aggrappano alla fede in qualcosa di immutabile; sono ormai morti, seppelliamoli definitivamente.
Il tempo delle vecchie rivoluzioni dentro e contro il capitale è trascorso e il verdetto circa la loro miseranda fine è ormai definitivo e «passato in giudicato», come suol dirsi.
«Avanti o popolo alla riscossa»; ma senza «bandiera rossa».
Tanto meno quella arcobaleno dell’orrendo pacifismo, di cui però parleremo in altra occasione, assieme ad altri stupidi ismi di questi anni infelici e bui!

Professor Gianfranco La Grassa

www.lagrassagianfranco.com


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