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«Rivoluzioni arancioni» che interessano, e quelle che non interessano più
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L’Egitto non ci scalda più. Il movimento d’opposizione egiziano ha convocato una grande manifestazione per il 30 giugno: data dell’anniversario della presa di potere di Mohamed Morsi e dei Fratelli Musulmani. Saranno interessati, questa volta, i media occidentali? La piazza Tahrir tornerà ad avere l’attenzione delle loro telecamere? C’è da chiederselo, perché la resistenza popolare contro i Fratelli e i loro alleati salafiti non è cessata, anzi non fa che ampliarsi, e i tg non ne danno notizia. Si susseguono scioperi, manifestazioni pacifiche e scontri violenti con la polizia e le milizie musulmane, un po’ dappertutto, ma non si saluta ufficialmente una nuova «primavera» democratica. Eppure i manifestanti accusano i Fratelli Musulmani di aver sequestrato e tradito la rivoluzione di piazza Tahrir, rivoluzione che del resto non hanno mai accettato (ricordiamo che la Fratellanza rifiutò di partecipare alla enorme sfilata del Cairo, il 25 gennaio 2011, in seguito alla quale Mubarak lasciò il potere). «Tra la popolazione e il regime è rottura totale», assevera il commentatore Mohamed Belaali. «In Egitto, il processo rivoluzionario è lungi dall’essere terminato».

Chi sostiene allora il presidente Morsi? Non occorre indovinare: Zio Sam. Ben tre Segretari di Stato americani hanno visitato l’Egitto negli ultimi mesi: Hillary Clinton il 21 novembre 2012, John Kerry il 2 marzo 2013 e Chuck Hagel, il segretario alla Difesa, il 24 aprile 2013. E a maggio, Obama ha ripreso l’assistenza militare all’Egitto in pieno: 1,3 miliardi di dollari, dono speciale per i generali egiziani, che Washington considera la colonna sicura per trattenere il grande Paese accanto agli interessi americani ed israeliani.

Questa è la carota. Come bastone, il Fondo Monetario (sede a Washington) preme sul regime perché sopprima le sovvenzioni pubbliche agli alimenti di prima necessità (i cui rincari furono la prima scintilla della rivoluzione) in cambio di un prestito da 4,8milioni di dollari. Prestito che, in un Paese cronicamente deficitario sul piano alimentare, e che non può nutrire la sua popolazione senza aiuti occidentali permanenti, crea una certa dipendenza. Nel frattempo, è il Katar (il ricco promotore-finanziatore della guerriglia in Siria) a versare al Fratello Musulmano i petrodollari a milioni per salvarlo da rivolte popolari per il pane: almeno 5 miliardi di dollari, in parte in prestiti senza interesse. E non dimentichiamo che anche il «nuovo» governo della Libia post-Gheddafi, con tutti i problemi che ha in casa, ha deciso un prestito al Cairo: 2 miliardi in 5 anni. Ecco la prova che è diventato un satellite di Washington.

L’Unione Europea, altro satellite, non è da meno: per voce di Herman van Rompuy, quello che vieta a noi italiani di spendere un euro in più, ha stanziato oltre 5 miliardi di euro di soldi nostri (6,5 miliardi di dollari) a tasso ridottissimo per il 2012-13. Scopo ufficiale, «sostenere la transizione democratica in Egitto». Traduzione: sostenere i Fratelli Musulmani, benché invisi alla popolazione. Sostenerli mentre rafforzano la loro presa del potere.

Per esempio, Morsi ha nominato ultimamente 17 governatori locali appartenenti alla Fratellanza, all’armata o alla Sicurezza, o ad alleati. Uno di questi governatori – quello di Luxor – avrebbe dovuto suscitare la deplorazione dell’Europa: si tratta di Adel al-Khayyat, esponente del Partito Islamico della Costruzione e dello Sviluppo. Il quale è il braccio politico e «legale» della setta Gamaa-Al-Islamiya, i fanatici che proprio a Luxor, nel 1997, attaccarono una folla di turisti europei che visitavano i siti faraonici, uccidendone almeno 68.

Dunque l’Europa sostiene un regime che affida un governo locale a dei comprovati terroristi islamici? Ebbene sì. Ma ormai dovremmo sapere che i «terroristi islamici» sono molto utili all’Occidente. Aiutano ad espandere la democrazia. Secondo i casi, i terroristi islamici ricompaiono come «combattenti per la libertà», ad esempio in Siria e Libia. Per contro, rivolte popolari e possibili primavere arabe sono indicate come sferrate da «terroristi islamici» e represse nel sangue: come nel Bahrein sotto tutela Usa, nel 2011, e stroncata dall’intervento dell’esercito saudita, oltre un numero imprecisabile di sollevazioni popolari avvenute nella stessa Arabia Saudita, in Giordania, in Yemen e in Kuweit, e che i media non hanno degnato della loro attenzione.

Altre rivolte, inizialmente popolari e motivate da richieste civili dignitose, sono state trasformate in guerre civili sanguinosissime, armando, finanziando e sostenendo mediaticamente dei fanatici poco prima definibili «terroristi islamici», e poi (in Libia) con l’invasione diretta occidentale, distruggendo la superba infrastruttura economica gheddafiana e spezzando l’unità del petrolifero Paese; la stessa cosa minacciata in Siria («La sparpagliamo come un puzzle», ha promesso Laurent Fabius da Parigi).

Proprio Morsi, il Fratello Musulmano che comanda al Cairo, ha da poco invocato la «no fly zone» sulla Siria, e ritirato il suo ambasciatore da Damasco: a tal punto ha a cuore la democrazia pluralista nell’altro Paese. Perché a casa sua, ha mantenuto l’apparato repressivo di Stato ereditato dal regime Mubarak e lo fa funzionare senza scrupoli.

È interessante rilevare che, dal punto di vista sociologico, in Egitto la Fratellanza Musulmana rappresenta la borghesia professionale e «compradora», benestante, alle cui pratiche corruttive e sfruttatrici offre la buona falsa coscienza della copertura coranica. Non è un caso che la Fratellanza abbia sempre negato – coranicamente – la divisione della società in classi, e a maggior ragione il conflitto di classe. La rivolta di piazza Tahrir chiedeva fra l’altro il salario minimo garantito, tipica rivendicazione operaia. Il Fratello Morsi non l’ha concesso. In compenso, ha aumentato del 50% il salario a poliziotti ed ufficiali militari. «I Fratelli Musulmani disprezzano gli operai», scrive il citato Belaali, «un disprezzo condiviso dai loro alleati fondamentalisti, i Salafiti». (Égypte: de Mohammed Ali à Mohamed Morsi, un combat permanent entre le passé et l'avenir)

In fondo, non è che uno dei punti in cui i musulmani integralisti convergono con l’Unione Europea, l’Occidente americano e il capitalismo globalizzato. È quasi ovvio che siano nostri amici.

Il Brasile invece sì



I nostri media sono attratti, incuriositi e sorpresi per la rivolta in Brasile: rivolta iniziata per il rincaro dei biglietti dei bus a Sao Paulo. Si rivoltano persino contro il calcio! I brasiliani!? È il popolo escluso dalla crescita economica portata dalla globalizzazione...

Qualche malfidente – a cui diamo un credito non incondizionato – vede in Brasile i segnali di una «rivoluzione arancione». Ecco i sintomi che elenca:

Il carattere «bianco» delle sfilate. I manifestanti sono per lo più bianchi, benestanti, giovani diplomati della borghesia cittadina o professionisti, muniti di auto e dunque non certo utenti dei traporti pubblici. Eppure il Brasile è il Paese più meticcio del mondo; e la polizia che contrasta i manifestanti appare infatti molto più «colorata», piccola e bruttina rappresentante delle fasce sociali meno privilegiate (già Pasolini notò la differenza a suo tempo: poliziotti figli di poveri insultati e aggrediti da sessantottini ricchi, «di sinistra» naturalmente) e dunque coccolati dai media padronali).

L’infiltrazione tra i manifestanti di violenti spaccatutto, che rompono vetrine e saccheggiano negozi, aggregati al PSOL (Partido Socialismo e Libertade), un gruppo di estrema sinistra nemico del partito dei Lavoratori al potere (PT), in quanto «trotskista» (ahi ahi ahi, questi trotskisti, ce ne sarebbero di storie da raccontare sui trotskisti in Francia, figli della gauche-caviar, o in Polonia, figli della nomenklatura...).

Questo PSOL si oppone alla sinistra di Lula e Dilma Roussef (al governo), come contrario alla costruzione della centrale idroelettrica di Belo-Monte (vi si oppongo no anche ben precise ONG estere, su motivazioni ecologiste. Qui l’elenco). Lo PSOL lotta in compenso per i «diritti omosessuali», e reclama che sia il servizio sanitario nazionale a farsi carico dei cambiamenti di sesso dei transessuali. (LGBT e uma plataforma de esquerda do PSOL para o Brasil)

Secondo i servizi brasiliani, sono stati reclutati, per creare incidenti durante le manifestazioni e provocare (o simulare) la radicalizzazione dei manifestanti e la reazione feroce della polizia, degli individui che chiamano «punk dei cani». Il che ci suscita una memoria precisa: ossia la partecipazione di «punkabbestia» con torme di cani randagi, affiancati ai mai identificati Black Blok, durante gli scontri del G-a Genova nel 2011 (io c’ero come cronista). Di Carlo Giuliani, il ragazzo ammazzato da un carabiniere mentre cercava di ammazzarlo, si disse che era un punk e da ultimo viveva con una torma di cani al seguito.

La stampa liberista in Brasile, e i grandi media globalisti in Occidente, sono tutti a favore dei manifestanti. E le manifestazioni sono state precedute da un’ondata di articoli ostili alla politica del governo brasiliano. Le Monde, con un titolo molto istruttivo: «Il protezionismo di Dilma Roussef ha messo fine alla crescita-miracolo degli anni 2000» (dunque la rivolta non è colpa della globalizzazione che crea disuguaglianze e sfruttamento, ma del «protezionismo»). Quanto al Financial Times, aveva appena annunciato: «Beyond BRICS». Superare i BRICs. Già, perché il Brasile è una colonna del BRICs, i «non allineati di successo» (Brasile, Russia, India e Cina) che non seguono i dettami del dogma globalista, sottraggono al «mercato» le rispettive monete e si difendono dai capitali esteri. Il che non piace a Londra, a Washington e a Bruxelles. L’Economist è stato addirittura profetico. Un suo titolo del 7 maggio 2013 si domandava irritato: «Il Brasile non cresce – e allora perché i brasiliani sono così felici? (Brazil isn’t growing – so why are Brazilians so happy?). L’8 giugno: «L’economia mediocre brasiliana: caduta dalla grazia», per poi infine esultare il 19 giugno: Brasil, the street erupts.

I cartelli innalzati dai manifestanti sono spesso scritti in inglese, in modo che li possano capire i giornalisti occidentali, più che la popolazione di Sao Paulo. La ricca diaspora brasiliana, politicamente ostile a Lula, sostiene accesamente ed in modo organizzato la protesta interna: ha organizzato manifestazioni di appoggio in 27 città estere, Usa, Europa, America Latina. Da Roma a Bruxelles, da Londra a Bologna, da Toronto a Parigi. Questa diaspora punta apertamente ad ottenere, sulla piazza, un «cambio di regime».


Bastano questi indizi a parlare di una «primavera brasiliana» eterodiretta dai circoli che hanno rinfocolato le primavere arabe e le rivoluzioni arancioni all’Est? Oggettivamente, le masse che non hanno visto alcuna «crescita», in Brasile ci sono; c’è la corruzione, c’è la intollerabile ineguaglianza, il malcontento sociale esiste. Iniquità e forme di sfruttamento, che possono essere messe sul conto, più che del governo, della competizione globale. In fondo, Lula il «rosso» ha mantenuto una politica economica neo-liberista, accortamente evitando ogni scontro col capitale, lasciando scorrere liberamente il credito (solo recentemente ha posto limiti all’introduzione di capitali esteri, alla ricerca di rendimenti alti, che arroventavano l’economia nazionale).

Contrariamente all’egiziano Morsi, Lula ha aumentato il salario minimo; ha lanciato riforme sociali, che appunto possono essere intese come ausiliarie allo sviluppo del capitalismo; ma metà della popolazione non ne ha sentito i benefici. La fase di successo economico brasiliano è stata favorita dalla globalizzazione, e poi penalizzata dalla medesima globalizzazione, quando negli il rincaro delle materie prime sui mercati mondiali ha rincarato le esportazioni brasiliane che contengono materie prime importate.

Per di più Dilma Roussef, succeduta a Lula, ha lanciato una politica di riduzione degli interessi pagati dal Brasile; ha saputo tener testa alle banche per la riduzione dello spread, ha cambiato le regole della remunerazione del risparmio, la «rendita». Una politica imperdonabile per i creditori interni e per i «mercati finanziari globali».

Ciò ha «mostrato i limiti dell’alleanza di classe» perseguita da Lula, come dice il sociologo del Dipartimento di Scienze Politiche all’università di San Paolo, che si chiama – ahimè – Andrè Singer. Il quale ora prevede che «Siamo alla vigilia di un nuovo ciclo di conflitti sulla ripartizione della ricchezza; il miracolo del Lulismo è terminato». E se lo dice un Singer, così sarà. (André Singer: país pode estar diante de novo conflito de desigualdade)



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