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L’Ultimo tabù
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Se un giornale come il Corriere della Sera dedica un’intera pagina al ragazzino di 14 anni che ha bruciato i capelli di un quasi coetaneo, evocando lo spettro della «pista neonazista» (1) allora qualcosa non va davvero.
Non c’entra nulla il neonazismo con quello stupido ragazzino.
Non perché i riferimenti non ci siano o perché i fatti non siano in qualche modo reali, ma perché invece di scaricare le colpe sociali di tanta gratuita stupidità sul fantasma dell’ «uomo coi baffetti», queste vestali del giornalismo dovrebbero guardarsi allo specchio e chiedersi se l’inaudita carica di violenza che sta fibrillando «la psiche» malata di un numero sempre maggiore di giovani e giovanissimi sia colpa dell’infernale «Nazionalsocialismo di ritorno» o non invece di quel paradisiaco mondo, del quale da servi sciocchi cantano periodicamente le lodi.

Dovrebbero chiedersi se per caso quell’educazione devastante, per cui ai bambini - in nome della dignità e del rispetto della creatività infantile - non vengono mai imposti freni, mai detti dei «no»,  per cui mai essi vengono impediti di fare ciò che vogliono, mai rimproverati, redarguiti, puniti
e - vivaddio, se necessario - corretti con qualche sano scapaccione, non sia essa la causa prima e la scaturigine di tutti o molti di questi mali.

Dovrebbero chiedersi - queste verginelle dell’informazione - se oltre a tale perverso percorso, che qualcuno si ostina ancora a chiamare educativo, non sia il caso di scomodare, anziché il dottor Goebbels, certo corredo di permissivismo e libertinismo, in cui ci siamo e li abbiamo immersi… quei ragazzi!

C’è da chiedersi se anni di cartoni animati giapponesi, chili e chili di figurine recanti mostri e immagini spettrali ed infernali, ore ed ore di film e telefilm con morti in sequenza e coiti a ripetizione, «Amici», valori e tacchi a spillo della De Filippi, oltre a lenzuolate di pornografia in ogni edicola c’entrino o no con la violenza dilagante.
… Perché ci avevano insegnato che far vedere ai bambini la violenza serve ad esorcizzarla.
Peccato che avessero dimenticato di leggere il capitolo sugli effetti emulativi della violenza!
Ed eccoci qua…

Ci avevano anche raccontato che la pornografia era liberatoria ed avrebbe abbassato il livello di violenza dei rapporti umani e sessuali.
Invece lo capisce anche un  bambino (e infatti lo capiscono, purtroppo!) che a furia di ammazzarsi di masturbazioni, poi qualcuno ci prova davvero a trasformare in realtà i sogni erotici e se la poveretta di turno non è consenziente, il da farsi lo hanno già imparato nei film che sarebbero dovuti servire per esorcizzare la violenza.

Tanta insipienza non è casuale, ma la conseguenza finale, scientificamente voluta, di un processo che ha come interprete chi fa della dissoluzione degli individui e del corpo sociale il proprio sottile progetto di costruzione di un «mondo nuovo».
E’chiaro a tutti che i modelli educativi e comunicativi non sono affatto il frutto casuale della libera elaborazione teorica degli individui, ma il prodotto selezionato di linee culturali chiaramente identificabili.

Questa contro-educazione ha infatti finalisticamente lo scopo di eliminare nella struttura stessa della formazione della personalità il principio, essenzialmente paterno e virile, di autorità, onde rendere gli individui schiavi e schiavi anzitutto nell’anima: autorità - si badi - tanto subita, che soprattutto esercitata, annichilendo conseguentemente il principio di responsabilità e quindi ogni possibilità di far crescere nello spirito degli individui la libertà delle proprie scelte e la forza di viverle e proporle.

Ciò per far luogo ad un modello pseudo-educativo di tipo matriarcale, in cui il bambino assorbe quasi per via parenterale ogni cosa dal mondo che lo circonda, semplicemente vivendo le esperienze, senza filtro, senza fatica, senza contrasto, senza sforzo, senza accettazione e quindi senza rifiuto: enorme ed abnorme feto, mai giunto al termine della gestazione, egli è così inevitabilmente destinato a nascere alla vita lacerando con la violenza quell’amniotico contenitore pseudo-uterino, costituito dalla civiltà delle mamme, delle nonne, delle maestre, delle catechiste, delle professoresse, delle educatrici, delle assistenti sociali, delle pediatre, che si sono sforzate fin lì di fare in modo che - unico valore - «il bambinone» non diventi un violento.
Questo «modello liquido» trova nella modalità del «parto nell’acqua» quasi una sorta di cifra simbolica.

Nato senza sforzo, di acqua in acqua, il «bambino d’acqua dolce» cresce nell’acquario della vita che gli è stato preparato, nutrito di ogni mangime in abbondanza, senza poter mai assaggiare il sapore acre del mare aperto.
Chiaro che la violenza diviene in queste condizioni necessaria, perché appare a chi la compie come maieutica e liberatrice: ben lo sanno coloro che progettano questi modelli educativi e comunicativi, ma sanno anche che, finchè la violenza si scarica a livello individuale, essa anziché mettere in crisi il sistema, lo rafforza.
Dopo la violenza, tutti, infatti, ritengono che occorra inculcare ulteriormente nei «bambini di acqua dolce» dosi ulteriori di dolcezza, spiegando che la colpa della violenza sia il riemergere di un’aggressività ancestrale che deve essere addomesticata e che sarebbe stata generata dalla sopravvivenza di scorie del «modello autoritario».
Alla fine di dolcezza in dolcezza è una sorta di «diabete pedagogico».

Così i creatori della matrice «d’acqua dolce» usano lo strumento, che essi stessi generano e alimentano, per rinforzare la propria egemonia culturale, scaricando sul modello antagonista le conseguenze che in realtà essa stessa genera.
Davvero una tecnica geniale e diabolica.

Dunque quella violenza non va condannata in sé, perchè essa manifesta paradossalmente un anelito opposto, quello di una esistenza, in cui l’individuo trovi anzitutto nella lotta, cioè nella capacità di cimentarsi con ciò che gli è estraneo ed avverso, l’identità di sé, la capacità  di essere signore e padrone di sé, fino al punto di vincersi e di donarsi totalmente alla morte pur di non rispondere alla violenza con la violenza: è la tipologia dell’asceta, che avendo vinto dentro di sé la battaglia contro se stesso, dalla violenza si lascia sopraffarre, per più non conformarvisi.
E’ la figura del Cristo che si lascia lacerare dalla violenza e dalla impotenza degli uomini, non avendo bisogno di mostrare con un’ostentazione di potenza la propria onnipotenza: sicchè apparentemente vinto dalla violenza, egli stesso la vince, attraversandone il frutto estremo, cioè la morte e risorgendo.

In ogni caso la violenza dilagante ed inquietante segnala, al di là di una moralistica condanna, un problema serio, un urlo disperato di vita autentica: è in un certo senso un modo estremo e primordiale di nascere alla vita, di affermare un’esistenza autonoma, di ritornare selvaggi, come si dovrebbe essere un po’ da bambini, liberi di arrampicarsi, sporcarsi, graffiarsi le ginocchia, tirare sassi e giocare alla guerra, per poter diventare da grandi uomini liberi e cittadini.
Invece sollecitati da ogni sorta di lezioni, allenamenti, corsi, catechismi, doposcuola, compleanni, i bambini si deformano, diventano obesi, assumono le stesse perfide espressioni e sguardi dei loro osceni e moderni cartoons, moltiplicano i capricci come forma impotente di ribellione, ma - ahimè -  non trovano sponda.

Nessuno è disposto a scontrarsi con loro, a prenderli sul serio: nessuno li sgrida, li rimprovera, li corregge, li percuote, se necessario.
Vengono accontentati o ignorati, più spesso ricattati.
Qualcuno si ammala, diventa anoressico, si chiude in sé.
Qualcuno, per contro, vive per il ventre e diventa bulimico.
Gli altri decidono in qualche modo di diventare selvaggi da grandi, di passare alla macchia rispetto al modello di perfezione in cui sono costretti ad esistere: diventano branco.
I genitori, per liberarsene e vivere la loro vita, le loro amicizie, le loro trasgressioni hanno dato loro, dopo la TV, lo strumento perfetto: il telefonino.
Con quello già da piccoli i ragazzini costruiscono un mondo parallelo, di cui i genitori scoprono l’esistenza solo magari andando a ritirare all’obitorio gli effetti personali dei propri figli qualche anno dopo.
Lì, sui tracciati telefonici e tra i file di quei telefonini, scoprono le oscenità dei loro figli, la faccia oscura dei loro mostruosi «faccini d’angelo».
E si disperano.

E’ quello che è successo in tante storie terribili che abbiamo letto sui giornali e da ultimo con la barbara uccisione di Lorena Cultraro, la ragazza quattordicenne di Agrigento, massacrata dai suoi coetanei perché forse incinta di uno di loro, a cui stava forse chiedendo di aiutarla a «risolvere quel problema».
Il che - se sono vere le indiscrezioni della stampa - vorrebbe dire che anche lei partecipava di quello stesso mondo.
A quattordici anni a molte ragazze è già capitato di essere stata probabilmente con più d’un ragazzo e di voler sapere che fare di quella vita nata dentro un corpo, che i giovani sono abituati ad usare come un marsupio da riempire e svuotare secondo i bisogni e le voglie.

Nessuno li ha abituati a «sentire» il corpo: se hanno male (e molto spesso bambini e ragazzini già soffrono di mal di testa) c’è subito pronto un analgesico, lo stesso che prende la mamma, incapace di reggere i mille ruoli che è costretta ad interpretare in questa società, delizia di libertà.
Questi genitori, sbandati, confusi, malsani nel corpo e più spesso nello spirito, quelli che parlano della psicologia dei loro figli senza capirne un’acca, quelli che ripetono a memoria le litanie della loro fallimentare giovinezza e gli aggiornamenti da «Maurizio Costanzo show», quelli che hanno per la prima volta copulato consapevolmente, figliato consapevolmente, scelto consapevolmente, elaborato, discusso, sottoposto a critica, ad analisi, ad autoanalisi, alla fine sono quelli che hanno affidato alla televisione, alla scuola, alle istituzioni la cura dei loro figli.

Dai frutti li riconoscerete: essi sono i figli della prima generazione moderna, i figli dei fiori e della contestazione, i figli della primavera conciliare e del ‘68, i figli di quello spirito di modernità che avrebbe dovuto svecchiare e cambiare il mondo.
E infatti il mondo l’hanno cambiato: a comando, come è stato loro suggerito subdolamente da coloro che li hanno usati per abbattere il «vecchio mondo».
Questo è il nuovo mondo, il loro mondo, questa la loro «Rivoluzione».

Sono loro la prima generazione di tale programmazione psichica, loro stessi incapaci di rendersi conto che quel modello culturale, relazionale, educativo e sociale che hanno preso a base della loro ostentata modernità, è tutto incentrato sul metodo della persuasione subdola, della reiterazione continua di quello stesso modello ed è funzionale alla creazione di menti e psiche da schiavi, così raffinato al punto da prevedere una sorta di servofreno, in grado di scattare per opporsi a qualsiasi forma solare, cosciente, libera e determinata dell’esistere.
Insomma a qualsiasi Autorità vera.
Ed è precisamente partendo da questa «trama di coscienza diffusa» inconscia e lunare che talvolta basta un nulla per attivare nella psiche individuale o di gruppo il «lampo» di follia distruttrice, di fronte a cui non si riesce ad opporre altro che una stupida disperazione o la vuota retorica di qualche omelia nei funerali.

Essi lo sperimentarono negli anni di piombo ed eroina.
I loro figli in questi anni di plastica e cocaina.
E non si pensi che sia un caso: chi elabora questi modelli sa - ripeto - che l’elaborazione della violenza, del lutto, del sangue alla luce di una matrice, serve a nutrire la matrice stessa.
Perché questo è: dietro la moderna pedagogia, la dominante cultura, la psicologia diffusa vi è precisamente l’intendimento di forgiare una matrice psichica che risponda costantemente a certe precise sollecitazioni emozionali, mantenendo la coscienza in un perenne stato di eccitazione e vibrazione, con sintonia su certe frequenze, richiamate continuamente da immagini, suoni, emozioni, simboli, parole, gesti, stili: tutto un corredo di pulsioni, perfino attivabili a comando, più o meno in forma subliminale.

Tra l’esasperazione mediatica delle partite, le violenza negli stadi, il lutto e la condanna di questa violenza e la sua riproposizione a ciclo continuo vi è lo stesso meccanismo di riproduzione che esiste tra l’immagine oscena, la violenza sessuale, la condanna della violenza.
Tutto all’interno di questo circuito diviene moltiplicativo.
Questa stessa matrice è contemporaneamente programmata a rifiutare come oppressiva ogni tipo di regola, norma, legge, ethos.
Non sentirete nessuno dei maître à penser sostenere che per fermare la violenza bisognerebbe impedire la proiezione di determinate pellicole, che bisognerebbe impedire che certi programmi siano dati in  pasto a ragazzi e ad adulti («adulto e consenziente» è la parola d’ordine), che bisognerebbe proibire certi programmi demenziali, inibire certa informazione pruriginosa!

Meno che mai qualcuno sarà disposto ad ammettere che se si vuole davvero ridurre il dilagare della violenza sessuale si deve smettere di eccitare continuamente le persone con nudità sempre più umide, con immagini sempre più raffinate, con dettagli sempre più  feticisti, con suoni sempre più ansimanti, con provocazioni sempre più ricorrenti, ovunque: dalla birra, allo yogurth, alla station wagon , c’è sempre una coscia, un gluteo, un seno, un pettorale, uno sguardo assassino, un respiro affannoso, una lingua che ti accarezza l’ipotalamo.
Chi detiene il potere di controllo sulle matrici culturali sa che il proprio potere è strettamente legato all’espansione del «foeminino», perché agendo sugli impulsi primari in assenza di personalità strutturate, lucide e volitive se ne determinano i movimenti dell’animo, come si fa coi fili per animare una marionetta.

Per questo la matrice genera e iscrive nelle menti come valore supremo quello della libertà, intesa come libertà di gestire se stessi, che nell’accezione volgare vuol dire essenzialmente il proprio corpo: in una parola libertà è essenzialmente libertà di godere di ogni piacere e di ogni piacere essenzialmente sessuale, perché primordiale.
C’è tutto Freud: è inutile, oltrechè ingiusto frenare ciò che è irrefrenabile, l’inconscio.
Dunque la libertà non può avere limiti, nemmeno quelli derivanti dall’aberrazione dei propri abusi.
In tal modo si dominano gli esseri, facendo credere loro di essere liberi.
E questo a partire dalle famiglie.
Fino ad un certo momento pare che la cosa funzioni: a sentire i genitori, i propri figli sono tutti genii ed angeli.

Non abbisognano di correzioni, capiscono, sono responsabili, vanno bene a scuola, si divertono, stanno bene, sono felici.
Le mamme ci parlano, sono amiche.
I babbi per lo più non ci sono o, se ci sono, sono inutili, sono «mammi».
Nessuna macchia, nessuna ombra, nessun problema.
Tutto è fluido, dolce, al punto che i genitori diventano complici dei figli: li difendono contro l’autorità degli insegnati, se questi li rimproverano!
Il metodo fino all’inizio della pubertà (peraltro sempre più precoce) sembra funzionare.
Peccato che quelli siano proprio gli anni decisivi…

Questo funzionalismo mette al riparo anzitutto i genitori e gli educatori dalla dimensione del conflitto generazionale ed è da loro accettato, perché almeno nell’infanzia appare come più semplice ed efficace nelle relazioni coi ragazzi: ma anch’esso si basa su un codice implicito, quello del ricatto sottile, del premio/sanzione, così come avviene nell’addestramento dei cani.
Risultato: dietro l’apparente buonismo di genitori e superiori si sviluppa la più tirannica forma di relazione interpersonale.
Ma appena possono i ragazzi si sottraggono al ricatto: spesso apparentemente fingono di stare
al gioco, ma solo per lucrare i premi ed evitare le sanzioni, costruendo contemporaneamente a parte un’altra opposta identità.

Deprogrammati metodologicamente e quindi scientificamente ad accettare qualsiasi forma di ordine costituito, in modo che chiunque osi proporre in forma chiara, diretta, trasparente un principio o una regola venga impulsivamente rifiutato, essi eseguono e si ribellano quando il genitore comincia ad essere percepito, seppure in forma «dolce», come conflittuale: dolcemente anch’essi si sottraggono, scompaiono nel loro mondo, dove vivono tutta la libertà e le trasgressionia cui sono stati educati.
Corrispondentemente programmati a subire quasi in maniera osmotica qualsiasi impulso inconscio venga loro trasmesso attraverso una serie di codici e simboli azionati a comando, spesso i ragazzi hanno una sola via d’uscita per liberarsi da questa gabbia di «bontà che li circonda»: fare proprio quello che gli altri mai si aspetterebbero, violare nel proprio o nei corpi altrui il dolore di una oppressione dolce che si patisce e l’impotenza di ribellarsi ai propri «superiori/oppressori».
L’assassinio, lo stupro, le sessualità deviate, le sevizie, la violenza gratuita, ne sono la cifra simbolica, così come l’autodistruzione del proprio corpo, con la droga, o l’anoressia o la bulimia, o la folle velocità… che è lo stesso.
E’ comunque un modo per sottrarsi, per scomparire, per ritornare all’amniotica relazione deresponsabilizzante.
Il fatto è che senza conflitto non c’è crescita: la violenza gratuita altro non è che una forma di conflitto deviato.

A mano a mano che passerà il tempo e che le generazioni così programmate cresceranno,
il bisogno prepotente di violenza si estenderà in avanti nell’età, oltrechè indietro: riguarderà cioè fasce sempre più giovani, ma investirà sempre più non solo adolescenti o giovani, ma anche giovani maturi.
In tutti gli episodi in cui - dai fatti di Verona a quello di Viterbo o di Agrigento - la violenza diventa marchio della propria esistenza, cercarne un marchio fuori e individuarlo in una svastica è la prova di non aver capito niente o - più probabilmente - di essere in mala fede.
Nella società in cui è vietato vietare ed in cui ogni ethos è stato dato alle fiamme in nome di rivendicazioni progressive di spazi di libertà sempre più ampi, non c’è da stupirsi se qualcuno decide di interpretare la propria libertà incendiando i capelli di un coetaneo.
Altro che nazismo!

Paradossalmente, se il nazismo diventasse per qualcuno di questi piccoli mostri ragione di vita e violenza, potremmo per un verso perfino rallegrarcene.
Quella violenza diventerebbe perlomeno comprensibile, sarebbe in qualche modo «nobilitata» almeno da una visione del mondo.
Invece nel caso del ragazzino di quattordici anni il nazismo c’entra solo per ulteriore esibizionismo, per mostrarsi a sè e agli altri cattivi in maniera più estrema.

Tuttavia, la violenza gratuita di cui fasce sempre più vaste di giovani si nutrono, non può apparire sufficiente a se stessa neppure per le menti malate di coloro che la compiono.
Anche costoro potrebbero sentire necessario paludare l’impotente delirio di depravazione dei loro cuori con il riferimento ad una istanza superiore, di legare i loro gesti ad una «visione del mondo».

Quello sciocco ragazzino di Viterbo, che si nutre feticisticamente di immagini e simboli probabilmente scaricati da internet e di cui neppure conosce il significato, è il testimone vivente che oramai il limite della trasgressione è andato oltre la cecità che gli immoralisti tolleranti avevano immaginato.

Credevano costoro di saziare il baratro della coscienza spalancando davanti agli occhi dei ragazzini le immagini di corpi straziati, la pornografia di immagini sempre più estreme, l’uso sempre più precoce di sostanze capaci di alterare lo stato di coscienza.
Sbagliano.

Sarà inevitabile che nella mente delle persone e anzitutto dei ragazzi appaia in maniera via via più frequente la necessità di una qualche forma di ordine, di struttura, che reintegri il caos della dissoluzione indotta e delle coscienze liquide, sicchè abituati alla trasgressione come metodo, potrebbe capitare talvolta che il meccanismo si attivi contro i suoi stessi creatori, anche laddove non era stato previsto e che quindi essa si indirizzi a fare propria l’ultima trasgressione rimasta: il nazismo.
E’ questo l’ultimo tabù, che è in grado di sedurre con le sue mitologie e le sue oscure ma ammalianti simbologie un intero mondo giovanile, alla ricerca di una trasgressione estrema alla «Libertà del Caos».
Ecco allora che il fascino oscuro dell’Ordine Nero, l’angelo della morte con la sua spada fiammeggiante può apparire alle coscienze dei giovani adolescenti come l’ammaliante simbolo vendicatore  di una vita che appare insopportabile e stupida.

L’Ordine Nero, una qualche nuova forma di Ordine Nero, anche magari diversamente pigmentato,  potrebbe apparire allora come il rifugio, il luogo accogliente in cui l’istinto trova un suo corso
e la violenza gratuita acquista nel labirinto ipnotico dell’inconscio una qualche forma di significato ed appagamento.
Questo dovrebbe tuttavia spaventare chi detiene le leve attraverso cui manipolare il mondo delle coscienze.

Perciò sorge un dubbio: che l’evocazione attuale dell’Ordine Nero, ben oltre le sue dimensioni reali, sia l’ennesima risorsa di chi, gnosticamente, sa di non poter continuare ad esistere se non nutrendosi delle larve di coscienze atrofizzate ed erose, attraverso spettri che risorgano continuamente per perpetuare il proprio «Ordine Caotico».
Che, insomma, l’enfatizzazione di uno spettro, quello nazista, serva a deviare le contraddizioni
del proprio sistema, scaricando su di esso la proprie colpe e così purificando il proprio mondo da ogni responsabilità di violenza.

Badino costoro di non esagerare, di non rendere questa società marcia al punto in cui apparve tale a molte persone ai tempi di Weimar.
Questi modelli apprendisti stregoni non evochino forze che poi magari non riescono a controllare.
O almeno dopo non si erigano a vittime sacrificali.

Domenico Savino



1) Il Corriere della Sera, «Capelli bruciati, la pista del gruppo nazista», Rinaldo Frignani,
13 maggio 2008.


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