Speranze dall’America
06 Marzo 2006
«Al diavolo il progresso dei computer», ha detto Kurt Vonnegut agli studenti: «siete VOI che dovete progredire e migliorare, non i computer. Cercate quel che è dentro di voi. E non uccidete nessuno».
Fatto stupefacente: ad ascoltare il nonagenario Vonnegut, il più grande scrittore americano vivente («Mattatoio 5», «Madre Notte»), c’erano, nell’aula della Ohio Union, duemila studenti di college,
da nessuno precettati (1).
Questa notizia mi ha commosso.
Duemila studenti americani che ascoltano non una lezione di business di marketing, ma una lezione di vita, vogliono dire qualcosa.
E le parole di Vonnegut dicono che c’è in lui la stessa preoccupazione che unisce i nostri lettori
a questo sito: che prima di «fare politica», più urgente, bisogna ricostruire gli uomini, rieducarli
alla civiltà che stiamo dimenticando.
Ho un altro segnale che questa preoccupazione - che possiamo chiamare pedagogica -
sta crescendo, e proprio negli Stati Uniti.
David Brooks, un columnist dell’Herald Tribune, ha scritto un articolo insolito (2).
Titolo: «ciò che ogni studente universitario deve sapere».
Sottotitolo: «se fate tutto quel che è in questa lista, avrete la migliore educazione, qualunque ‘college’ frequentiate».
Segue la lista dei consigli: come uno di quei manuali che in USA hanno intramontabile successo, tipo «come apprendere a parlare in pubblico in cinque lezioni».
Ma è il genere dei «consigli» che Brooks dà agli studenti ad essere inaudito.
Esempio:
«Leggete il Gorgia di Platone».
L’antico dialogo?
Consigliato a studenti americani che (poiché i college in USA costano salati, specie
i più prestigiosi) stanno studiando per fare carriera, per avere un buon posto di lavoro?
A che serve, a loro, il Gorgia?
«Lo scopo esplicito del dialogo», spiega Brooks, «è dimostrare la superiorità della filosofia
(la ricerca della saggezza e della verità) sulla retorica (l’arte di persuadere per vincere
in una causa). Ad un livello più profondo, il dialogo insegna che gli onori mondani che si possono conquistare con un’oratoria efficace, facilmente erodono la nostra dedizione alla verità: dedizione che è essenziale per la nostra integrità come persone. Sicchè l’abilità oratoria è un dono pericoloso, perché mette in pericolo l’anima. Il Gorgia spiega tutto ciò che dovete sapere sulla politica e gli opinionisti di grido».
«Iscrivetevi a un corso sull’antica Grecia».
Inaudito.
Ma «per 2500 anni, gli educatori hanno saputo che l’essenza della loro missione era portare
gli studenti a contatto con eroi come Pericle, Socrate e Leonida. Diceva Aristotile: ‘non c’è abitudine più importante da acquisire, che l’ammirazione per i caratteri magnanimi e le nobili azioni’. Alfred Whitehead [il filosofo-matematico, morto nel 1947] era d’accordo: ‘l’educazione morale è impossibile senza l’abituale visione della grandezza’. »
Profondamente vero: le «vite degli uomini illustri», le loro abnegazioni ed eroismi, sono stati
lo strumento primario dell’educazione greco-romana.
Specie dell’educazione elementare, dei bambini: questi non possono essere convinti da argomenti razionali o etici, ma devono essere infiammati da esempi magnanimi.
L’educazione più necessaria è l’educazione dei sentimenti.
I bambini - ma anche noi - non hanno bisogno di etica, bensì di «epica».
Purtroppo, questa pedagogia dei sentimenti, questa scuola di addestramento alle nobili passioni
è stata cancellata: a favore di un illuminismo precettistico, razionalistico e moralistico che provoca repulsione e noia.
Così voi studenti, dice Brooks, dovete oggi scoprire da soli la storia degli eroi.
Dovete scegliervi i vostri Muzio Scevola, i vostri Cesare e Socrate.
Cioè «quelle figure che siano per voi modelli da emulare, e sulla cui altezza misurare la vostra condotta».
E cita un pedagosista britannico, Richard Linvingstone, che diceva: troppo facile credere
che le cadute morali provengano da debolezza di carattere: «più spesso, sono dovute a un ideale inadeguato».
Ecco perché bisogna studiare i greci.
Ai giovani occorre Leonida più che il cardinal Ruini (o Ciampi).
«Imparate una lingua straniera».
Sembra un ovvio precetto pratico.
Ma non lo è.
Le scuole moderne e più reputate (pensate alla Bocconi e ai suoi master) hanno finito
per trasformare troppi studenti «in piccoli carrieristi, pronti ad ogni furbata per prevalere».
Per contrastare questa tendenza, occorre farli studiare materie «mostruosamente prive di scopo pratico, come la storia dell’arte e il teatro elisabettiano».
Ma meglio ancora, una lingua.
Ma non al modo con cui le si insegna oggi, per «parlarla» quel tanto che basta a sopravvivere
in un ristorante all’estero, e nemmeno per condurre una trattativa d’affari.
No: bisogna studiare per poter leggere le opere di quella cultura straniera.
Per scoprire modi diversi di pensare, imparare ad amare la straordinaria varietà delle culture umane nella essenziale somiglianza degli uomini.
«Annettersi un'altra cultura», dice Brooks, consente di «scoprire lati ignorati di se stesso».
Come dice un detto spagnolo, «Dos idiomas, dos almas»: chi conosce due lingue, possiede
due anime.
Ciò serve specialmente a noi americani per uscire dal nostro provincialismo; figli di una potenza globale, siamo diventati provinciali a livello planetario.
Inutile dire che il consiglio serve anche agli italiani, provinciali a livello provinciale.
(e si può aggiungere: questo vale ancor più se la lingua imparata è «morta», una delle lingue
che introducono alle culture che non muoiono mai, la greca, la romana, la sanscrita).
Passate un anno all’estero.
Da studenti, non da turisti.
Squattrinati come gli studenti-viaggiatori medievali, che andavano da Padova a Parigi
ad Heidelberg ad ascoltare maestri, senza che ciò escludesse le bisbocce e i «Carmina burana».
«Tutto dice che passare un anno all’estero è, più di qualunque altra, un’esperienza che trasforma,
e che dura per tutta la vita».
E’ lo stesso consiglio di prima: esporre la propria esistenza alla diversità dei costumi umani, gustarne i molteplici colori e sapori, provarne sulla pelle - che non vuol dire abbracciarne -
le credenze e anche i difetti e le crepe nascoste.
L’umanità è eguale ma diversa, capire e stimare le diversità è acquistare un’altra anima.
Leggete Reinhold Niebuhr.
Teologo protestante, centrale nel pensiero religioso-civile americano, Niebuhr è morto nel 1971. Perché leggere un teologo?
Perché la religione «è una delle forze essenziali che guidano questo secolo», e bisogna imparare
a maneggiarla.
Secondo Brooks, il credente che legge Niebuhr impara «che la pietà pubblica corrompe la fede privata, e che la fede deve, nella società, svolgere un ruolo profetico».
L’ateo, impara «che la gente che crede in Dio può essere davvero molto, molto intelligente»
(e non fanatici oscurantisti ignoranti).
Entrambi, atei e credenti, impareranno che «il male e il bene esistono davvero - e che distinguerli non è facile come si crede».
Infine, chi assorbe gli insegnamenti di Niebuhr non crederà più che il metodo migliore per giudicare le opinioni è etichettarle «di destra» e «di sinistra».
Che ne dite, cari lettori?
Qualunque cosa si pensi dei consigli che l’americano Brooks rivolge agli studenti americani,
si riconoscerà che sono basati su due cose: insistono sulla cultura classica come formazione
di caratteri (noi, il latino e greco l’abbiamo abolito); e non sono precetti pratici, atti ad «aver successo nella carriera» o a «preparare al mondo del lavoro».
Anzi, ecco l’ultimo suggerimento di Brooks:
Dimenticatevi della carriera, per una volta nella vita.
Pare che diversi professori della grandi università americane stiano cominciando a riflettere
sugli effetti negativi di allevare generazioni per farne dei super-lavoratori di successo: in tal modo gli studenti d’oggi - e proprio quelli delle università prestigiose - hanno sviluppato attorno
una «corazza da tartarughe, un guscio che impedisce loro di vedere la ricca e piena varietà
di opportunità, intellettuali e pratiche, che offre il mondo»: così dice ad esempio Carles Hill, docente a Yale.
Tocca agli studenti spaccare questa mentalità da carrieristi, questa mentalità-guscio,
come per esempio si insegna alla Bocconi.
Mi pare un consiglio particolarmente anticonformista e prezioso: mai domandarsi da giovani
se gli studi che state per scegliere avranno uno sbocco di lavoro.
Se vi piace il tibetano, studiate il tibetano: ci sarà sempre posto per chi sa la lingua tibetana, purchè l’abbia imparata veramente bene.
Questo è il punto: bene.
In America, dunque, c’è chi «ripensa dal principio» la scuola: non si tratta di formare manager,
ma di formare uomini.
Perché anche se la nostra civiltà avesse le ore contate, non bisogna mai finire di ricostruirla,
ha detto Kurt Vonnegut ai suoi studenti dell’Ohio.
Vonnegut infatti è convinto che il mondo stia per finire: «mentre il mondo finisce, la cosa migliore è sedersi e passare bene il tempo: io lo faccio con la musica».
E’ la cultura «senza praticità», la sola cosa necessaria nell’estrema emergenza.
O l’arte: «dovreste provare anche voi. Se volete davvero dare un dispiacere ai genitori senza diventare gay, datevi all’arte».
Soprattutto, rinunciate all'economia, al far denaro nel supercapitalismo saccheggiatore di oggi.
«Se tutti ci mettiamo a vivere come se non ci fosse domani, allora davvero non ci sarà».
E questo, detto in USA.
In Italia, nessuna parola del genere appare scritta su giornali o detta davanti a studenti.
Non si può disperare dell’America, dopotutto.
1) Harvey Wasserman, «Kurt Vonnegut’s Stardust Memory», Free Press, 3 marzo 2006.
2) David Brooks, «What every college kid should learn», International Herald Tribune, 3 marzo 2006.
3) Vonnegut pare qui, ironico, echeggiare l’invito di quella «voce dal cielo» che nell’Apocalisse annuncia la fine di Babilonia: «uscite da essa popolo mio/ affinchè non vi associate/ ai suoi stessi peccati/ e non siate colpiti/ dai suoi stessi flagelli» (18,4).
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