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Rahner I Papa?
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Da sempre più parti si segnala negli atti di Papa Bergoglio l’influsso di Karl Rahner, il gesuita teologo e perito del Concilio; anzi c’è chi descrive l’elezione di Francesco come un colpo di Stato dei gesuiti ormai ridotti ad una setta rahneriana: «È la loro scuola che domina tutte le cattedre negli atenei cattolici, dove si è sostituito l’insegnamento del cristianesimo con il rahnerismo, e, in America latina». La brutale soppressione dei Francescani dell’Immacolata sarebbe una vendetta contro un ordine dal quale «si sono visti per la prima volta fare a pezzi, con un rigore stringente, i loro idoli di carta, i Rahner e compagni».

Non so cosa pensare, non ho abbastanza informazioni interne, né letture teologiche per giudicare. So di un alto prelato, uno degli epurati da papa Francesco, che sta rileggendo con rinnovata attenzione le profezie della beata Caterina Emmerich («Vedo due papi...»), so che qualcosa di inqueto e minaccioso ribolle nella curia, e sono angosciato come credente.

Per quel poco che so, intravvedo inquietanti consonanze rahneriste nell’impazienza del Papa attuale verso quei cristiani preoccupati della Tradizione, dei dogmi e delle eresie pullulanti con evidenza nella Chiesa, che lui chiama «cristiani ideologici». Karl Rahner, durante tutto il Concilio di cui era ascoltatissimo «perito», esprimeva la seguente sardonica preghiera: «Che lo Spirito Santo guidi la Chiesa in modo che rinunci ai dogmi e alle condanne; allora i teologi potrebbero, col tempo, trovare ciò che è giusto». Per Rahner «gli enunciati della fede tradizionale [i dogmi] sono inadeguati, in buona parte, per lo meno per quanto concerne ciò che è necessario prima di ogni altra cosa: l’annuncio della fede (…)».

Pare proprio qualcosa di molto simile all’idea di Chiesa come ospedale da campo dove ai feriti mortalmente non si fa l’esame del colesterolo. Il che sembra buono, ma solo se si dimentica che cosa è, per Rahner, «l’annuncio della fede» che ritiene così urgente da non dover essere inceppato dalla dogmatica. Ricordiamo che Rahner è un esponente terminale di quella patologia del pensiero detta «idealismo tedesco» nella versione Heidegger. E nel gergo filosofico, la parola ha tutt’altro significato da quello usato dalle persone comuni («Signora, cosa vuole, io sono un idealista»).

No. «Idealismo è la teoria metafisica che comincia con l’affermare che all’esperienza dell’io sono dati solo i suoi stati soggettivi, che vengono chiamati «idee». Sicché la realtà esterna, gli oggetti, non hanno realtà se non in quanto sono in quanto sono ideati dal soggetto, individuale o astratto». Così, per Kant che inaugura l’idealismo, il mondo esterno è inconoscibile « in sé», ma solo per quanto «appare» alla coscienza del soggetto. Né bisogna preoccuparsi della «cosa in Sé», bastando (che Hegel poi eliminerà del tutto), bastando sapere il contenuto della coscienza, il proprio caro io.

Parimenti, Rahner nella sua «scienza» teologica non si occupa di Dio, la cui esistenza per lui non è dimostrabile, ma dell’uomo, nella cui coscienza il concetto di Dio appare. Senza l’uomo Dio non può essere conosciuto: è la «svolta antropologica» di Rahner in teologia, analoga alla «rivoluzione copernicana» che Kant si attribuì: la conoscenza non è più «adeguamento della mente al reale» (come in San Tommaso), ma è l’intelletto umano che impone le sue leggi agli oggetti. Dio dunque esiste solo nella mente...

Quale sarebbe dunque l’annuncio della fede che la Chiesa rahneriana deve con tanta urgenza proclamare? Quale contenuto, se Dio ne è escluso?

«Rahner – scrive De Mattei – afferma che la salvezza non è un problema, perché è assicurata a tutti, senza limiti di spazio, di tempo e di cultura. La chiesa è una comunità vasta come il mondo, che include i «cristiani anonimi», i quali, benché possano dirsi non-cattolici, o addirittura atei, hanno la fede implicita. Chiunque infatti «accetta la propria umanità, costui, pur non sapendolo, dice di sì a Cristo, perché in lui ha accettato l’uomo». Tutti, dunque, anche gli atei, in quanto atei, si salvano se seguono la propria coscienza. Qualsiasi uomo, quando conosce se stesso, anche nel male che compie, se si accetta come tale, allora è auto-redento ed ha fede. E quanto più conosce e accetta la propria «esperienza trascendentale» tanto più ha fede».

È così che la pensa anche lei?, chiederei al Santo Padre con angoscia. Con mite perfidia intellettuale, gli amici Palmaro & Gnocchi (2) hanno citato un passo dal saggio Fatica di Credere di Karl Rahner:

«Chiunque segue la propria coscienza, sia che ritenga di dover essere cristiano oppure non-cristiano, sia che ritenga di dover essere ateo oppure credente, un tale individuo è accetto e accettato da Dio e può conseguire quella vita eterna che nella nostra fede cristiana noi confessiamo come fine di tutti gli uomini». «In altre parole: la grazia e la giustificazione, l’unione e la comunione con Dio, la possibilità di raggiungere la vita eterna, tutto ciò incontra un ostacolo solo nella cattiva coscienza di un uomo».

Ohimè, ciò sembra coincidere esattamente con quello che lei, Padre Santo, ha ripetutamente comunicato ad Eugenio Scalfari, prima per iscritto e poi nell’intervista in seguito alquanto ripudiata. Rahner non credeva al sacerdozio consacrato, al peccato originale, alla frase «Gesù è Dio» , al dogma della transustanziazione Quello di Rahner è soggettivismo, relativismo e modernismo sfrenato. Fra i dogmi che ritiene «inadeguati per ciò che è necessario come prima cosa, l’annuncio della fede», Rahner elenca questi: «Proposizioni come «vi sono tre persone in Dio», «noi siamo salvati dal sangue di Gesù Cristo» sono puramente e semplicemente incomprensibili per un uomo moderno (…) esse fanno la stessa impressione della pura mitologia di una religione del tempo passato».

Ora, come ho già raccontato, a Buenos Aires, nella parrocchia Santa Maria, in avenida La Plata 286, è avvenuto fra il 1992 e il 1996 un miracolo eucaristico (3). Un’ostia gettata a terra e messa dentro il tabernacolo in un boccale perché si sciogliesse nell’acqua, s’è mutata in un brandello sanguinante: esaminato, s’è rivelato un pezzo di muscolo cardiaco umano vicino al ventricolo sinistro; «la persona era viva quando è stato prelevato», ha sancito il perito settore che lo ha analizzato; un cuore che ha subito «un intensissimo stress, come picchiato sul petto»; (forse il colpo di lancia).

Ora, è chiarissimo che questo fatto – questo nudo fatto – smentisce frontalmente la «teologia» di Rahner. Quella secondo lui è «mitologia sorpassata», a cui «l’uomo moderno» non può più credere, appare a Buenos Aires come miocardio sanguinante; un fatto nient’affatto «idealista»; un cuore materiale , che dà la più spaventosa realtà alla frase «siamo stati salvati dal sangue di Cristo» che a Rahner sembra ormai improponibile. Una realtà letterale e non metaforica, non un mito o un modo di dire, ma un oggetto che al microscopio rivela globuli bianchi ancora palpitanti.

Questo bruto fatto avvenuto in Argentina non solo conferma la scandalosa realtà delle parole di Gesù. Smentisce ogni «idealismo», ossia la pretesa che noi, quando conosciamo, contempliamo la nostra conoscenza o nostre idee, e non l’oggetto che sta al di là del nostro io. Esso conferma invece il «realismo» cristiano: non solo la realtà esiste oggettivamente e fuori di noi, ma la Realtà; la vera conoscenza è adeguare la mente al reale, alla «cosa» – quel realismo che, disse Tommaso, è il primo atto d’umiltà: non siamo noi a creare la realtà, l’abbiamo trovata già qui, Dio l’ha fatta ed è nostro compito conoscerla come l’ha fatta Dio. È inoltre una realtà «dura», che sfata le nostre illusioni, anche le illusioni dell’incredulità.

Perché, non sarà inutile ricordarlo, non è che gli uomini «antichi» abbiano accettato facilmente, da superstiziosi, questa cosa, che Rahner consiglia alla Chiesa di abolire perché «l’uomo moderno» non riesce a crederci. Quando Gesù dichiarò: «se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita», i giudei si scandalizzano: «mente tra loro chiedendosi: «"Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Anzi persino molti, forse la maggior parte dei suoi seguaci, esclamano: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». E da quel momento «molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con Lui».

Secondo Rahner e i rahneriani, che sono legione a quanto pare, a questo punto Gesù avrebbe dovuto attenuare, pensando «a ciò che è necessario prima di ogni cosa, l’annuncio della fede». Invece rincara, e sfida gli stesso dodici apostoli: «Volete andarvene anche voi?».

Certo, Gesù non ci ha reso le cose facili. Ho sempre avuto comprensione per gli ebrei: si aspettavano il Messia re, il potente vincitore e liberatore politico, e gli arriva questo che «il mio Regno non è di questo mondo» . Eppure, la Sacra Scrittura aveva promesso quell’altro, non questo; avevano tutto il diritto di sentirsi ingannati. E quante cose inutili, per una fede pura e razionale, ci tocca accettare. Un Dio unico che è tre persone, una Persona divina che si fa uomo, partorito da una Vergine, un morto che risorge...tutte cose «puramente e semplicemente incomprensibili all’uomo moderno»; Rahner ha ragione.

O meglio, avrebbe ragione se non ci fosse quel brandello dei Cuore umano apparso a Buenos Aires , a disturbare la svolta antropologica. È assurdo, è indigeribile, è persino rivoltante: ma è «la realtà», quel bruto dato di fatto che l’autocoscienza umana, l’io idealista, non è riuscito a prevedere, anzi che riteneva di escludere.

«Con il progredire della storia della grazia, il mondo diviene sempre più indipendente, maturo, profano, e deve pensare ad auto-realizzarsi. Questa crescente mondanità storica (…) non è una sventura che si contrappone ostinatamente alla grazia e alla chiesa, ma è invece il modo nel quale la grazia si realizza a poco a poco nella creazione», ha scritto Rahner.

Come dire: «Son cose che non accadono». Ma invece è accaduto. Nei nostri tempi, 1992. A Buenos Aires. Ebbene, è la Realtà a cui ci dobbiamo inchinare. E non è solo difficile per noi da credere. È una difficoltà, eh sì, per l’apostolato; difficile metterci a convincere chi vogliamo convertire di tutto questo: la transustanziazione, la particola che, consacrata, diventa realmente carne e sangue...Tutto ciò è assurdo, ma la Realtà l’ha voluta così. Il messaggio l’ha voluto dare in questo carnale, spaventevole, rivoltante maniera, «chi non beve il Mio sangue non ha la vita eterna». . E noi, se siamo credenti, abbiamo l’obbligo di diffondere la fede non come generico «annuncio», ma dentro queste assurde realtà di fatto, con questi limiti... che chiamiamo dogmi e ci danno fastidio, ci sembrano mitologici, residui autoritari di epoche passate, «ideologia» tradizionalista, di antiquate monarchie...

Per questo ritengo e insisto a dire che, per capire Bergoglio, il fatto eucaristico di BuenosAires è dirimente. L’ostia ha sanguinato nella sua città, mentre lui era vescovo. È un messaggio chiaro per lui, per il futuro Papa. Come l’ha vissuto? Come l’ha accettato? Ha capito l’avvertimento? È stato lui a mettere la sordina a questo evento? O è stata la «comunità» parrocchiale di Avenida la Plata? I miracoli eucaristici, spesso a quanto pare, sono stati una risposta ad incredulità di sacerdoti nella Presenza Reale. È questo il caso, o no?

Non sono insinuazioni. Sono domande. Domande che pongo con angoscia, con tremore e timore, pregando per il Santo Padre.

E, come comune credente di poche letture, domando: come ha potuto avere tanto seguito nella Chiesa, nella gerarchia, un Karl Rahner? Come hanno potuto lasciargli la cattedra di teologia?

Ci rivela che qualcosa di spaventoso è accaduto nella gerarchia, per lasciarsi convincere e sedurre e intimidire da un simile personaggio. Dalle poche cose che ho letto sue, heideggerianemente e ipocritamente contorte per sfuggire all’accusa di eresia, una cosa risulta invece chiarissima: la immane superbia intellettuale, la presunzione sprezzante, da professore tedesco, il darsi importanza per motivi che non ne hanno alcuna sul piano della fede.

Una volta mi capitò di intervistare Hans Kung: la sua presunzione, superbia e vanità erano addirittura insopportabili; citava i suoi libri e solo i suoi, dava per scontato che tutti li conoscessero, e si fece insultante perché non li avevo letti (avevo di meglio da fare), da quel momento non rispose più alle mie domande se non con derisioni e auto-citazioni, come si fa con un verme.

Riconosco lo stesso atteggiamento in Rahner. In una disputa avuta nel 1971, il cardinal Hoeffner gli ricordò mitemente: «Chi dice: non credo che Gesù è risorto dai morti, non fa più parte ella Chiesa cattolica... rispetti ella (Rahner) la Fede della Chiesa, e sia tanto onesto da uscire pubblicamente dalla Chiesa cattolica...».

Rahner rispose con derisione al cardinale: «Dove hanno imparato la loro teologia i vescovi?». Frase fin troppo rivelatrice: per lui i Vescovi non sono l’autorità, ma lo sono «i teologi». I successori degli apostoli devono umilmente imparare «la teologia», intesa ovviamente come la «scienza» di professori tedeschi che si danno importanza e polemizzano fra loro in linguaggi incomprensibili, a fare, come lavoro intellettuale e stipendiato, «una reinterpretazione continua del dogma per escludere l’errore», parole sue. È la malattia intellettuale tedesca, la stessa per cui, da Kant in poi, la filosofia non è più la libera ricerca che serve a tutti gli uomini, la tentata continua risposta alla «domanda di essere», bensì una materia universitaria riservata a tecnici in possesso della giusta terminologia.

Alla domanda insultante «ma dove hanno imparato la loro teologia i vescovi?», il cardinale avrebbe dovuto replicare: «Ma lei, gesuita e sacerdote Rahner, dove ha imparato la santità?». Perché è questo il punto: quando s’è cominciato fare della teologia una materia che poteva esulare dalla santità? I nostri veri teologi sono padre Pio, San Francesco, sono Santa Teresa, san Massimiliano Kolbe, la piccola Giacinta di Fatima… loro sanno qualcosa su Dio e Gesù, che possono insegnarci.

Rahner invece, proprio quando partecipava come perito al Vaticano II, insieme a Ratzinger, Daniélou, Haering, Congar, De Lubac ed altri «scienziati in teologia» di cui lui era il principe e il pavone, tempestava di lettere roventi la sua amante Luise Rinser: 1800 lettere infocate, a suo di «coccolina» e «ricciolina», e lei di «pesciolino mio», di «mi spaventa che tu mi ami con questa passione» e «non mangiare troppo altrimenti ingrassi e non mi piaci più». Questa Rinser era una «intellettuale» progressista, che ha finito per simpatizzare con i terroristi rossi della Baader-Meinhof, all’epoca distribuiva la sua focosa carne fra il celebre divo-gesuita e un abate benedettino bavarese, ed ha pubblicato il carteggio fra lei e il gran teologo Rahner. Come ricorda De Mattei, la donna l’11 maggio 1965 gli scriveva: «Sai qual è la maggior difficoltà che mi viene da parte tua? Che sei un relativista. Da quando ho imparato a pensare come te non oso affermare nulla con sicurezza».

Per forza: quando si vive a qual modo e non si lascia la Chiesa (né la cattedra, e lo stipendio) si crea la teologia giustificativa adatta. Rahner era un personaggio orribile. Come ha potuto essere tanto influente sul Concilio? E veramente la Chiesa d’oggi è in mano ai suoi seguaci? Sono davvero loro che hanno stroncato i Francescani dell’Immacolata? Possiamo stare tranquilli, Santo Padre?





1) www.papalepapale.com/develop/annientate-i-francescani-dellimmacolata-la-pulizia-etnica-senza-fare-prigionieri-e-iniziata
2) Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Rahner Kaputt, il Foglio 20/11/2013
3) Qui trovate l resoconto dell’evento, come descritto nel foglio illustrativo che la parrocchia di Buenos Aires distribuisce a chi  faccia domande sul miracolo.
4) Roberto De Mattei, «Karl Rahner, maestro del Concilio, di Martini e della coscienza relativa» Il Foglio, 16 giugno 2009. Vale la pena di riportare per intero  il sommario, che  profeticamente indica i nemici interni di Benedetto XVI:  «Dietro l’opposizione intra-ecclesiale all’insegnamento di B-XVI c’è il pensiero di un altro influente gesuitaIl nome di Karl Rahner è un passaggio obbligato per chi voglia entrare nel cuore del dibattito intraecclesiale dei nostri giorni. Come perito conciliare del cardinale Franz König il gesuita tedesco svolse, dietro le quinte, un ruolo cruciale nel Vaticano II, fino a essere definito dall’allora decano della Gregoriana, Juan Alfaro, «il massimo ispiratore del Concilio». Di certo ha dominato il post-concilio come conferenziere di grido e scrittore dalla alluvionale produzione, pronto a intervenire disinvoltamente su tutti i problemi del momento: i suoi titoli sono oltre quattromila, le sue opere, tradotte e diffuse in tutto il mondo, continuano a esercitare una larga influenza sul mondo cattolico contemporaneo. Sembra giunta però l’ora di «uscire da Rahner», come implicitamente auspicato da Benedetto XVI nell’ormai storico discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, sulle «ermeneutiche» del Concilio Vaticano II. Lo «spirito del Concilio» a cui si richiamano gli ermeneuti della «discontinuità» ha infatti la sua fonte nel Geist in Welt di Rahner, quello «Spirito nel mondo» che è il titolo del suo primo importante libro, pubblicato nel 1939. Se in questo volume Rahner delinea la sua concezione filosofica della conoscenza, nel successivo, «Uditori della parola» (Hörer des Wortes), pubblicato nel 1941, espone la sua visione propriamente teologica. Le tesi di questi due libri e dei successivi, già lucidamente criticate dal padre Cornelio Fabro («La svolta antropologica di Karl Rahner», 1974), sono ora oggetto di un importante volume, a cura di padre Serafino M. Lanzetta, che raccoglie gli atti del convegno tenutosi a Firenze nel novembre 2007, con la partecipazione di eccellenti studiosi, provenienti da diverse parti del mondo: Ignacio Andereggen, Alessandro Apollonio, Giovanni Cavalcoli, Peter M. Fehlner, Joaquín Ferrer Arellano, Brunero Gherardini, Manfred Hauke, Antonio Livi, H. Christian Schmidbaur, Paolo M. Siano, («Karl Rahner. Un’analisi critica. Le figure, le opere e la recensione. Teologia di Karl Rahner, 1904-1984». Cantagalli). Oggetto della scienza teologica, per Rahner, non è Dio, di cui non può essere dimostrata l’esistenza, ma l’uomo, che costituisce l’unica esperienza di cui abbiamo l’immediata certezza. Non si può dunque parlare di Dio al di fuori del processo conoscitivo dell’uomo. Dio, più precisamente, esiste «autocomunicandosi» all’uomo che lo interpella. Rahner afferma che nessuna risposta va al di là dell’orizzonte che la domanda ha già precedentemente delimitato. L’orizzonte di Dio è misurato dall’uomo che, delimitando nella sua domanda la risposta divina, diviene la misura stessa della Rivelazione di Dio. Rahner non dice che l’uomo è necessario a Dio perché Dio possa esistere, ma poiché senza l’uomo Dio non può essere conosciuto, la conoscenza umana diviene la chiave di quella che egli definisce la «svolta antropologica» della teologia. Rahner si richiama spesso a san Tommaso d’Aquino, ma di fatto riduce la metafisica ad antropologia e la antropologia a gnoseologia ed ermeneutica. La «teologia trascendentale» di Rahner appare, in questa prospettiva, come uno spregiudicato tentativo di liberarsi della tradizionale metafisica tomista, in nome dello stesso san Tommaso. Ciò naturalmente può avvenire solo a condizione di falsificare il pensiero dell’Aquinate. Fabro non esita a definire Rahner «deformator thomisticus radicalis», a tutti i livelli: dei testi, dei contesti e dei principi. L’esito è un «trasbordo» dal realismo metafisico di Tommaso all’immanentismo di Kant, di Hegel e soprattutto di Heidegger, acclamato dal gesuita tedesco come il suo «unico maestro». Rahner accetta il punto di partenza cartesiano dell’io come auto-coscienza. L’uomo, spogliato della sua corporeità, è innanzitutto coscienza, puro spirito, immerso nel mondo. Come per Cartesio e per Hegel, anche per Rahner è il conoscere che fonda l’essere, ma la conoscenza ha il suo fondamento nella libertà, perché «nella misura in cui un essere diventa libero, nella medesima misura esso è conoscente». La coscienza coincide con la volontà dell’uomo e la volontà dell’uomo è l’attuarsi dell’Io. L’Io a sua volta non è sottomesso a nulla che lo possa condizionare, perché il suo fondamento sta proprio nella sua incondizionatezza e dunque nell’assenza di ogni oggettiva limitazione esterna. La conseguenza della riduzione dell’uomo ad auto-coscienza è la dissoluzione della morale. La libertà prevale sulla conoscenza perché, come afferma Heidegger, dietro il cogito cartesiano irrompe la libertà. L’uomo è coscienza che si auto-conosce e libertà che si auto-realizza. Per Rahner, come per il suo maestro, l’uomo conosce e vive il vero facendosi libero. Il valore morale dell’azione non ha una radice oggettiva, ma è fondato sulla libertà del soggetto.  Forzando il n. 16 della «Lumen Gentium», in cui si parla della possibilità di salvezza di coloro che «non sono giunti a una conoscenza esplicita di Dio», Rahner afferma che la salvezza non è un problema, perché è assicurata a tutti, senza limiti di spazio, di tempo e di cultura. La chiesa è una comunità vasta come il mondo, che include i «cristiani anonimi», i quali, benché possano dirsi non-cattolici, o addirittura atei, hanno la fede implicita. Chiunque infatti «accetta la propria umanità, costui, pur non sapendolo, dice di sì a Cristo, perché in lui ha accettato l’uomo». Tutti, dunque, anche gli atei, in quanto atei, si salvano se seguono la propria coscienza. Qualsiasi uomo, quando conosce se stesso, anche nel male che compie, se si accetta come tale, allora è auto-redento ed ha fede. E quanto più conosce e accetta la propria «esperienza trascendentale» tanto più ha fede. Questo, osserva giustamente il padre Andereggen, significa che ha più fede un individuo che si sia psicanalizzato freudianamente durante dieci anni, piuttosto che un religioso che preghi (p. 35). Il cardinale Franz König, uomo di punta del progressismo conciliare, fu il grande «sdoganatore» di Rahner, in odore di eresia fino agli anni Sessanta. Tra i numerosi e illustri discepoli del gesuita, bisogna ricordare l’ex presidente della Conferenza episcopale tedesca Karl Lehmann e, in Italia, il cardinale Carlo Maria Martini. Le ultime interviste-confessioni di Martini, con Georg Sporschill («Conversazioni notturne a Gerusalemme», Mondadori) e con don Luigi Verzé («Siamo tutti nella stessa barca», Edizioni San Raffaele), sono di impronta rahneriana, per l’universalismo salvifico e la «morale debole». Martini, come Rahner, ritiene che la missione della chiesa sia aprire le porte della salvezza a tutti, compresi coloro che si discostano dalla fede e dalla morale cattolica. Lo stesso Martini, istituì a Milano una «cattedra dei non credenti», per ascoltare il loro contributo alla salvezza del mondo. Il successore di san Carlo Borromeo, rinunciava così al compito di portare Cristo a chi non crede, per affidare ad atei dichiarati come Umberto Eco la missione di «evangelizzare» i fedeli della diocesi ambrosiana».




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