Dialogo immaginario con Socrate sulla pena di morte
20 Gennaio 2006
L'Italia si gloria di aver ripudiato la pena di morte.
Non contenta, vuole che anche gli altri Stati in cui ancora vige l'aboliscano: a questo scopo promuove all'ONU azioni per la cancellazione della pena suprema dal nuovo ordine mondiale.
Evidentemente, ciò viene considerato da noi una battaglia di civiltà.
A volte, mi piacerebbe poter interrogare su questo tema Socrate o san Tommaso d'Aquino, che entrambi giustificarono la pena capitale (il primo anche a sue spese, il secondo anche teologicamente).
Che cosa direbbero loro di questa «battaglia di civiltà», così politicamente corretta, e piacevole per nostro umanitarismo corrente?
Anzitutto, credo, ci farebbero notare che «in Italia la pena di morte non è stata affatto abolita».
E' solo passata alla competenza di altro ministero: dalla Giustizia alla Sanità. Direbbero, immagino, che ciò è inevitabile.
Lo Stato non può fare a meno di impartire morte.
Lo Stato è una costruzione tragica.
E' nato per ordinare a suoi cittadini di morire.
«Per il bene comune», lo Stato può - o piuttosto deve - disporre della morte dei suoi cittadini, in guerra o per sentenza dei giudici.
Uno Stato che non avesse questa capacità, non solo rivelerebbe di non avere il potere, ma d'aver perso il suo significato primario e, con ciò, la sua radicale prerogativa spirituale: la sua autorità.
Socrate sarebbe ironicamente lieto di farci notare quanto segue: se in Italia la pena di morte non è stata abolita, ma «dislocata», ciò è avvenuto evidentemente in conseguenza di una dislocazione, nell'anima della nazione, dell'idea di «bene comune».
Immaginiamo Socrate chiedere, con il suo modo ironicamente fastidioso: qual era, italiani, il bene comune, così fondamentale e necessario, per tutelare il quale noi antichi ritenevano indispensabile che lo Stato uccidesse chi aveva ucciso un Ateniese, un cittadino?
Ci proveremo a rispondergli: una idea di giustizia molto rozza e primitiva, che stimava necessario infliggere al reo la stessa pena che lui aveva inflitto alla vittima.
Ma oggi pensiamo invece che il reo vada «riabilitato»…
Socrate: bene, avete risposto: «un'idea di giustizia».
Per noi antichi, un omicidio privato turbava l'ordine della vita civile.
A tal punto, che il colpevole doveva essere ucciso a sua volta: per ristabilire l'ordine turbato.
Siete d'accordo?
Noi: d'accordo, ma…
Socrate: e infatti c'era un «ma», per noi antichi, che è anzi un «inoltre».
Il nostro Stato aveva non solo l'autorità di uccidere giudiziariamente dei colpevoli, ma di mandare a morte inoltre dei buoni e innocenti cittadini: in guerra.
Quale bene comune pensavamo noi rozzi di difendere così?
Noi: la libertà, l'indipendenza dello Stato?
Socrate: precisamente.
La libertà e l'indipendenza ci parevano così essenziali per il bene comune, da doverne - se del caso - morire.
La «giustizia» e la «libertà» insieme ci parevano degne di questo prezzo.
Ora, sapete dirmi in quale categoria si iscrivono concetti come «giustizia» e «libertà»?
Noi, a tentoni: forse, nella categoria del politico?
Socrate: benissimo, miei cari!
Il politico: noi avevamo un'idea tutta politica del bene comune.
Però voi, moderni ed evoluti, rifiutate la pena di morte e ripudiate la guerra, com'è scritto nella vostra legge.
Devo certo intendere che voi rifiutate la giustizia, la libertà, e in fondo, la sfera politica del vivere insieme.
O mi sbaglio?
Noi: sbagli, Socrate, e di molto.
Non solo di politica ci occupiamo continuamente senza respiro, ma non facciamo che discutere di giustizia, e godiamo di molte più libertà di voi.
Ne abbiamo il culto.
Solo che, vedi, non crediamo che la pena di morte sia «giusta», perché fa soffrire una persona, il colpevole; e cerchiamo, invece, il colpevole di «reinserirlo», di riabilitarlo.
Allo stesso modo, rifiutiamo la guerra, perché la guerra porta infinite sofferenze, senza risolvere alcun problema.
Socrate: lasciamo l'ultimo argomento: so che la guerra non risolve i problemi: essa è un problema in sé, visto che gli uomini devono farla e la fanno dall'inizio del mondo, inutile com'è.
Ma torniamo a noi: adesso vi capisco.
Siete più buoni di noi.
Ma se siete tanto compassionevoli, perché avete stabilito per legge che il ministero della Sanità commini la morte ai feti nel ventre delle vostre donne, ed ora state discutendo se ammettere l'eutanasia dei malati e dei vecchi cittadini?
Se avete sottratto il potere capitale alla Giustizia e alla Difesa, perché l'avete dato alla Sanità?
Vedo che per voi c'è un «bene comune» più indispensabile della libertà, più essenziale della giustizia, per tutelare il quale siete disposti, buoni come siete e compassionevoli delle sofferenze di assassini e farabutti, a dare la pena di morte a vecchi e bambini.
Innocenti.
Noi, protestando: anzitutto, Socrate, tu ci tendi una trappola da sofista, chiamando «pena di morte» l'aborto e l'eutanasia sanitaria.
Quelle non sono pene, non vengono comminate come afflizioni a contrappasso di un delitto.
Né, per abortire un feto, si istruisce un processo.
Socrate: questo lo so anch'io, che non so quasi nulla.
Dare la pena, processare, compete al ministero della Giustizia.
Forse che la Sanità ha il compito di giudicare i colpevoli?
La Sanità impartisce cure, guarisce i malati.
E' vero?
Noi: verissimo, Socrate.
Socrate: ora capisco qual è il bene comune che voi tutelate a un così alto prezzo.
E' il vivere sani, biologicamente felici.
La nostra antica, rozza idea del bene comune era politica (giustizia e libertà), per voi è «sanitaria».
L'accento dello Stato s'è spostato dal politico al tecnico: all'arte del medico, o meglio della mammana.
Ovvio che non tolleriate che lo Stato dia la morte come «pena»; volete adesso che la dia come «cura».
Ma adesso ardo di sapere: qual è di grazia quella malattia, che ritenete necessario «curare» a spese dello Stato con la morte?
Qual è quella malattia che solo la morte può curare?
Noi: non ci premere a risponderti, Socrate, che è «la vita».
Non si tratta di sofismi qui, ma di complessi problemi sociali che tu non puoi capire. Il problema sociale delle molte donne che abortivano grazie alle arti antigieniche delle mammane, l'abbiamo risolto rendendo l'aborto legale, e da eseguire in ambiente terapeutico, dunque come monopolio di Stato e sua garanzia.
Quanto all'eutanasia, se dovesse un giorno diventare legge dello Stato, si rispetterà la volontà dei malati.
Il diritto di scegliere una vita senza dolori è una delle libertà nuove di cui noi godiamo.
Socrate: ah, ecco com'è.
Si tratta di prevenzione.
Lo Stato non può più comminare la morte come pena, ma può impartirla come prevenzione sanitaria.
Soprattutto, vedo, su due categorie precise di cittadini: quelli che non sono ancora in grado di godere la vita (i bambini non nati) e quelli (i vecchi) che non sono in grado di goderla più.
Vi chiedo: ma il godere può essere il «bene comune» per il quale state riuniti sotto lo Stato, sotto la sua verga di ferro e i suoi carnefici nuovi, ora in camice bianco?
Noi: se vuoi darci degli edonisti, e dirci che noi siamo riuniti in società per godere, ti sbagli di grosso, Socrate.
Ci sarebbe ben altro da dire, le nostre società sono così complesse…
Socrate: vi credo, vi credo.
Infatti le due categorie a cui voi comminate la morte per «bene comune» non sono solo quelle che non godono.
Sono, mi pare, anche quelle che costano.
Noi: ma che dici, Socrate!
Socrate: mi sbaglio?
Non è forse vero che un bambino è costoso da mantenere, e far studiare, che un vecchio è costoso da sopportare e curare?
E che sono poco o nulla produttivi, come dicono i vostri economisti?
Sono le sole due categorie umane che costano e non rendono.
Noi: beh, di fatto, rappresentano un costo pesante per le casse dello Stato, in definitiva per noi contribuenti, e anche per le famiglie, per i privati a cui sono accollati…
Socrate: e non vergognatevi, per Zeus!
Perché quest'ammissione vi solleva dal sospetto di edonismo!
Dunque è economico, il bene comune che perseguite: argomento di peso.
Lo Stato deve diminuire i costi, quelli che gravano su voi, cittadini o contribuenti che siate.
Noi: cittadini «e» contribuenti, semmai, Socrate.
Socrate: contribuenti di sicuro.
Ma in che senso cittadini?
Noi: che cosa insinui, perdigiorno ateniese?
Consentiamo allo Stato ciò che noi, col voto, abbiamo voluto.
Socrate: ma spiegatemi allora perché lo Stato, e anche la sua Sanità, mentre riduce il numero dei cittadini non produttivi, dunque i suoi costi, vi chiede sempre più denaro, aumenta le sue spese senza limiti?
Non dovrebbe avvantaggiare voi, quella morte sanitaria e preventiva?
Invece avvantaggia lui: lo Stato ha sempre più denaro per sé, mentre lo risparmia a prezzo delle vostre vite.
Noi: stai ancora insinuando qualcosa.
Socrate: mi limito a riflettere gli effetti del dislocamento del bene comune, l'esito di quel dislocamento della pena di morte dalla sfera del politico a quella del tecnico, cioè del sanitario-burocratico-economico.
A me pare che lo Stato, così, non sia più al vostro servizio, ma voi al suo.
Noi: e voi no?
Eravate tutti dello Stato.
Tu ti sei lasciato avvelenare da una sentenza ingiusta, per non sottrarti all'imperio dello Stato.
Socrate: con una differenza però.
Da cittadino, conscio che il bene comune, che lo Stato tutela anche per me, valeva perfino quel prezzo.
Il vostro Stato, invece, mi sembra un pecoraio dell'Argolide.
Noi: pecoraio dell'Argolide?
Socrate: un pecoraio giudica forse le sue pecore?
Le punisce?
Le manda in guerra?
Al contrario: cura il loro benessere e la loro produttività.
Le munge, le tosa.
E prima che siano troppo vecchie, e diventino sterili e malate, le uccide.
In modo igienico, ché è nel suo interesse.
Così voi: lo Stato vi alleva, vi munge e vi tosa, e vi elimina quando non gli rendete più.
Siete cittadini, o pecore?
Noi: ti ripeto: siamo stati noi a darci queste leggi, col voto.
Socrate: ma anche le pecore dell'Argolide, se potessero votare, non voterebbero a maggioranza per il loro pecoraio?
La loro vita è infinitamente più tranquilla che se fossero libere.
La libertà è troppo piena di rischi e responsabilità, per piacere alle pecore.
Nel gregge, invece, non devono procurarsi il cibo, né difendersi dai lupi e dai malvagi, né dalle malattie: pensa a tutto l'allevatore.
Ovviamente l'allevatore non pensa con ciò di fare della politica.
Chiama la sua arte zootecnia.
Devo concludere che voi, nel rifiutare la morte come «pena» ma nell'accettare la morte come «prevenzione», aderite a un'idea zootecnica e burocratica della vita sociale.
Noi: su questo ti risponderemo un altro giorno, Socrate.
Antico come sei, non puoi comprendere una spiritualità moderna, per la quale è di principio intollerabile comminare la morte a un colpevole.
Noi abbiamo avuto il cristianesimo, che tu non hai conosciuto: anche per questo siamo così.
Socrate: lo ammetto.
Ma vi consiglierei, allora, di parlare con Tomaso d'Aquino, un alto filosofo che ho conosciuto qui dove mi trovo: lui potrà aiutarvi a giustificare filosoficamente ciò che non sapete giustificare.
Perché mi pare assai importante per il vostro bene: una società di uomini che non è capace di spiegare razionalmente perché «disloca» la pena di morte, e fa appello a sentimenti indicibili, non è propriamente una società umana, e rischia di essere piuttosto simile alla società ovina.
Noi: ben hai detto, Socrate.
Ci rivolgeremo a Tomaso, che capisce - lui che l'ha fondata - la nostra spiritualità.
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