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Attacco al Motu proprio: da Martini a Jesus
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Auspichiamo che Dio doni al Papa la forza di impugnare la scure… da usarsi non tanto nei confronti del relativismo del Mondo (questo va da sé), ma nei confronti di cardinali, vescovi, preti e teologi; e dei giornali, soprattutto di quelli cattolici.
Ma Ratzinger è un mite, sa di avere anche lui qualche colpa sulla coscienza e non farà male a una mosca; cercherà di persuadere, di spiegare, di far riflettere.
A nostro giudizio sbaglia.
Qui non c’è di mezzo la coscienza, ma qualcosa che ai suoi interlocutori preme molto di piùe cioè le poltrone, quelle di vescovo anzitutto.
Oltrechè - si intende – quella futura di Papa.
Andiamo con ordine.

Da quando è uscito il Motu proprio che «liberalizza» la celebrazione della Messa con il Vetus Ordo la strategia elaborata dagli ambienti progressisti e da una vasta fetta dell’episcopato woityliano, fino ad allora solo abbozzata, è divenuta operativa (sia chiaro se faranno Woityla santo a furor di popolo, io, il «Santo subito», lo chiamerò «Santo subìto»).
Come scrivevo nel dicembre 2005, già appariva «evidente l’indocilità con cui la nomina di Ratzinger è stata accolta in certi ambienti ecclesiali e non, storditi e incapaci di rassegnarsi al fatto che certi disegni siano andati in fumo e increduli di fronte all’evidenza schiacciante che nella Cappella Sistina abbia aleggiato lo Spirito Santo e non già lo ‘spirito del Concilio’.
Tuttavia questo spirito di ribellione, povero di seguito popolare, ma ricco di élites, di media, di appoggi importanti, già organizza la ‘resistenza’ nelle vaste enclavi criptoprotestanti di un cattolicesimo esangue o all’ombra di ambigui chiostri o comunità, nella ‘rete’, su giornali e riviste o lungo la via Emilia (che da Milano, a Piacenza, a Reggio Emilia conduce a Bologna), covato talvolta da Curie amiche, agitando una protesta sottile e strisciante, chiedendo salvaguardia di spazi o ipocritamente guaendo misericordia, salvo malignamente insinuare di colpi di mano, di manovre curiali o sommessamente commentare che in fondo questo Papa è già vecchio, che si tratta solo di attendere…
» (1).

Le scaramucce dei primi due anni di pontificato, l’algida obbedienza con cui il ministero papale è stato accolto, un malcelato compiacimento per tutte le volte in cui il Pontefice è sembrato agli occhi degli stolti che inciampasse nel suo «integralismo» (come nell’episodio di Ratisbona), rendevano palese lo scatenarsi all’interno del corpo ecclesiale di tensioni che prima o poi sarebbero dovute diventare manifeste.
Quell’occasione è stata il Motu proprio.
Doveva ancora entrare in vigore, che il 29 luglio non a caso su Il sole 24 ore, giornale di Confidustria e dei «poteri forti», «l’anti-papa di Gerusalemme» Carlo Maria Martini rilasciava un’intervista nella quale dettava la linea: in primo luogo annunciava di non voler usare il messale antico, «perché ritengo che con il Concilio Vaticano II si sia fatto un bel passo avanti per la comprensione della liturgia e della sua capacità di nutrirci con la Parola di Dio, offerta in misura molto più abbondante rispetto a prima […] In secondo luogo - sottolinea il cardinale - non posso non risentire quel senso di chiuso, che emanava dall’insieme di quel tipo di vita cristiana così come allora lo si viveva, dove il fedele con fatica trovava quel respiro di libertà e di responsabilità da vivere in prima persona di cui parla San Paolo ad esempio in Galati 5,1-17. Al contrario, sono assai grato al Concilio Vaticano II perché ha aperto porte e finestre per una vita cristiana più lieta e umanamente più vivibile» […]
Da ultimo «pur ammirando l’immensa benevolenza del Papa che vuole permettere a ciascuno di lodare Dio con forme antiche e nuove - conclude il cardinale - ho visto come vescovo l’importanza di comunione anche nelle forme di preghiera liturgica che esprima in un solo linguaggio l’adesione di tutti al mistero altissimo. E qui confido nel tradizionale buon senso della nostra gente, che comprenderà come il vescovo fa già fatica a provvedere a tutti l’Eucaristia e non può facilmente moltiplicare le celebrazioni nè suscitare ministri ordinati capaci di venire incontro a tutte le esigenze dei singoli. Ricavo come valido contributo del ‘Motu proprio’ la disponibilità ecumenica a venire incontro a tutti, che fa ben sperare per un avvenire di dialogo fra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero».

Basterebbero queste parole, sottili quanto avvelenate, a illuminare circa l’idea eversiva del Concilio Vaticano II presente in certi contesti e, corrispondentemente, a far capire il disprezzo profondo per tutto ciò che è Tradizione, cui si allude come una sorta di luogo chiuso in cui mancava ogni respiro di libertà e di responsabilità.
Basterebbe questo a far capire la malafede e la scaltrezza volpina di chi usa della volontà del Papa di riconciliarsi con la Tradizione, per chiedere simmetricamente un’apertura ancora più ampia verso la sovversione sincretista, nascosta sotto l’astuta formula di «dialogo fra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero».
Poi Martini s’è ritirato nell’ombra e i suoi «agenti» si sono messi all’opera.

Ai primi di settembre a Milano, il vescovo e cardinale Tettamanzi eseguiva per primo e l’arciprete del Duomo di Milano Luigi Manganini, intimava ai decani della diocesi che il Motu proprio di Benedetto XVI sulla liberalizzazione del messale antico non venisse applicato nei territori dove vige la liturgia ambrosiana.
La decisione veniva giustificata affermando che nel documento papale si menziona soltanto il «rito romano» e soprattutto perché «nelle nostre zone non ci sono state contestazioni o particolari richieste da parte dei tradizionalisti».
Il 13 dicembre venivano depositate in curia circa 500 firme, con cui si chiedeva al cardinale Tettamanzi, arcivescovo di Milano, l’estensione del Motu proprio sulla Messa «vetus ordo» alla Diocesi ambrosiana.
Risultati, per ora, zero.
Sempre ai primi di settembre i responsabili della Settimana liturgico-pastorale della Comunità monastica di Camaldoli, l’Istituto di Liturgia Pastorale dell’Abbazia di Santa Giustina di Padova e l’Associazione Professori e Cultori di Liturgia (APL) pubblicavano un documento dal titolo «Avvio di una riflessione sul Motu Proprio ‘Summorum Pontificum’ di Benedetto XVI».
Il documento non analizza il Motu Proprio, lo sterilizza.

Infatti per questa «casta» vi è una prima e sola preoccupazione: «la Riforma liturgica non è e non deve essere ‘messa in dubbio’».
Inoltre la richiesta non deve creare divisione (quella che hanno creato loro è irrilevante),
la partecipazione attiva deve essere salvaguardata (cosa ciò significhi non è spiegato).
Relativamente ai «soggetti che richiedono il rito extraordinario», l’esistenza della necessità di un «gruppo stabile», richiesta dal Motu proprio, andrebbe intesa così: «Si esclude un gruppo pur numeroso, ma occasionale (ad esempio un elenco di firme non costituisce di per sé un ‘gruppo stabile’ e ‘motivato’); si esclude una richiesta pur stabile, ma di un singolo; si esclude un gruppo di persone, pur cospicuo e stabile, i cui membri non siano appartenenti alla medesima parrocchia al cui parroco viene rivolta la domanda; si esclude anche una richiesta dell’‘uso extraordinario’ dovuta non ad una ‘aderenza strutturale’ alla precedente tradizione, ma ad un caso o ad una circostanza particolari».
Insomma si esclude a tal punto che il gruppo diviene stabile a una sola condizione: che non  esista.
Ma non basta.

Chi vuole celebrare col Vetus ordo dovrebbe possedere una adeguata «formazione liturgica», cioè «una buona conoscenza e una provata confidenza con un rito che non appartiene più al cammino di formazione ecclesiale di laici e ministri ordinati. Pertanto una tale formazione non può essere data per scontata. Questa esigenza è rilevante perché l’atto liturgico non rimanga un segno puramente esteriore».
Quanto alla lingua latina, essi ritengono che «la richiesta di celebrazione in forma ‘extraordinaria’ presuppone la capacità dei membri del gruppo stabile richiedente di entrare adeguatamente nella comunicazione verbale latina che struttura il testo rituale. La presenza di questo requisito è importante per non cadere nel pericolo di un formalismo liturgico privo di interiore maturazione, con conseguenze negative sulla qualità della pastorale parrocchiale e della spiritualità individuale. Sul piano della efficacia pastorale, queste condizioni (oggettive e soggettive) richiedono di essere tutte contemporaneamente presenti».

Insomma, per andare a Messa, casomai riusciste ad aggregarvi stabilmente ad un non-esistente «gruppo stabile» occorre aver frequentato il Triennio Teologico Pastorale (magari tenuto da loro) e se per caso, nonostante ciò, siete riusciti a conservare la Fede, dovreste concludere l’anno accademico superando brillantemente un esame di latino.
Chissà come hanno fatto ad andare a Messa per dei secoli milioni di contadini che parlavano solo il dialetto!
Per fortuna mio bisnonno Silvio, che contadino era, è morto.
Per fortuna loro s’intende… perché come sapevano usare i forconi i contadini, nessuno!
Ma non è finita!
Quali potrebbero essere i «ministri che presiedono il rito preconciliare» si domandano questi «Soloni della Liturgia»?
Già, chi celebra?

Non i preti «che hanno ricevuto la loro formazione e hanno vissuto una esperienza celebrativa a partire dalla riforma liturgica. Costoro dovrebbero perciò celebrare in un rito che non solo non conoscono, ma che non fa parte dell’ordinario panorama ecclesiale, pastorale e spirituale in cui sono nati e nel quale sono cresciuti. A questo divario generazionale si potrà rimediare soltanto in tempi molto lunghi e non certo mediante ausili editoriali o ‘audio-video’, che necessariamente darebbero luogo a un ‘addestramento’ superficiale e improvvisato rispetto alla serietà del Mistero celebrato. […] Un principio sapienziale e prudenziale richiede che nessuno debba celebrare in un rito (o secondo un uso) che non conosce per esperienza diretta, per formazione sedimentata e al quale non sente di poter ‘aderire’».
Dunque nessun prete giovane potrebbe per costoro celebrare col rito antico, ma solo sacerdoti rigorosamente ultrasettantenni, possibilmente di salute cagionevole e che si estinguano nel giro massimo di un lustro.
Ma soprattutto se proprio desidera farlo, il prete reazionario lo faccia da solo, di nascosto, quasi fosse un atto impuro, perché - continua il documento - «un sostanziale aggiramento della logica pastorale e liturgica del documento potrebbe verificarsi nel caso si operasse una interpretazione estesa dell’articolo 4, che prevede la possibilità per ogni fedele che lo desideri di assistere alla ‘Messa senza il popolo’ celebrata privatamente da un ministro secondo il rito preconciliare».
Il popolo a questo rito non deve assistere, perché gli fa male.
Capito?

In realtà se la fanno sotto, perché sono consapevoli che se si cominciasse a celebrare di nuovo stabilmente e diffusamente col Rito antico i loro palcoscenici (perché così hanno ridotto il Presbiterio!) avrebbero una platea vuota e il mito del Vaticano II si scioglierebbe come la cera delle candele sotto l’azione del fuoco.
Lo ammettono, ma sempre con quel linguaggio sottile di chi detiene il monopolio delle «nuove verità».
Scrivono infatti: «L’inopportuna estensione della applicazione di tale articolo renderebbe di fatto vana la serie di condizioni necessarie alla celebrazione ‘con il popolo’ secondo il rito preconciliare. In realtà, anche in questo caso, il criterio dovrebbe essere quello della ‘partecipazione attiva’. La presenza di fedeli come ‘estranei o muti spettatori’ creerebbe una discontinuità con il dettato del concilio Vaticano II, che in Sacrosanctum Concilium 48, afferma: ‘la Chiesa volge attente premure affinché i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede’».
La contemplazione del Mistero per costoro non basta: ci vogliono le loro vuote parole.

Naturalmente anche la conclusione è una summa diabolica di comiche acrobazie espressive: «Una forma rituale, anche se a precise condizioni viene dichiarata ‘non proibita’, va considerata ‘extra-ordinem’, in quanto non viene necessariamente ritenuta per principio né consigliabile né raccomandabile. […] La presenza di una ‘forma extraordinaria’ può essere compresa senza conflitto e in una logica di autentica riconciliazione soltanto nella misura in cui essa rimane strettamente limitata a condizioni oggettive e soggettive ‘non ordinarie’. Solo un accurato discernimento di queste condizioni potrà permettere al cammino liturgico delle comunità ecclesiali di trarre profitto pastorale e spirituale da questo passaggio disciplinare, recuperando l’uso della partecipazione attiva di tutto il popolo di Dio al mistero celebrato, e così purificando - grazie a questo nuovo uso - le proprie celebrazioni da ogni possibile abuso».

In sintesi ecco cosa pensano i Camaldolesi e i professori di liturgia: la Messa col rito antico fa male al popolo, che non dovrebbe assistervi perché essa insegna cose contrarie al Vaticano II; nel caso vi sia questa ostinazione essa potrebbe essere celebrata da un sacerdoto anziano, da solo, in camera sua, dopo aver superato un  corso di aggiornamento liturgico, rifatto l’esame di latino, quello del sangue e delle urine, a condizione che queste certifichino che egli ha già un  piede nella fossa e che anche il colorito non lasci presagire niente di buono.
Come insegna il santo Vangelo. «Ti benedico, o Padre, [...] perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Matteo. 11, 25).
Amen

Domenico Savino


(Continua)



1) Confronta http://www.effedieffe.com/rx.php?id=866%20&chiave=savino
«La guerra del Conclave», Domenico Savino, 30/12/2005.
2) Confronta http://www.apl-italia.org/mp1.html


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