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«Credo quia absurdum…»
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Non riesco a scrollarmi di dosso la «strana sensazione che le cose siano pericolosamente sballate. Siamo al confine di qualcosa… stiamo per entrare in un tunnel dove la quotidianità stenterà ad af-fermarsi».
Dacci l’ultimo uomo, Zarathustra - gli gridarono - fa di noi degli ultimi uomini, felici e saltellanti per le strade… quelli delle notti bianche, per capirci.
Accadeva alcune sere fa in prima serata.
L’intervistatore, ad alcune giovani donne (magari un po’ tostarelle): ma tu l’hai data… no, ma me l’hanno chiesta per avere successo (risate)… (altra ragazza) no, no io per il denaro e il successo,
io sì, la darei (gesto deciso e disinvolto del capo); intervistatore: ma l’hai data ?... no, ma non c’è dubbio, per il denaro… (assenso delle presenti).
Confidenze fra amiche, magari, ma di cui l’Italia certamente non aveva necessità di conoscere i dettagli.
Stessa prima serata, altro canale; il signor Fabrizio Corona tiene le scena per due ore al termine delle quali concede a don Mazzi un po’ del suo tempo, nell’arco della settimana, in cui troverà modo di aiutare i giovani, preda della droga.
Poi veniamo a sapere che il signor Corona, dice Libero Wind, resiste alla ipnosi e questo ci restituisce finalmente la tranquillità.

Ma non è finita: è recente la notizia che il signor Corona, troneggiando in poltrona imperiale seicentesca, d’oro e velluto rosso, è stato rappresentato come «special guest» nell’inaugurazione di un noto ristorante toscano.
Non si è fatto in tempo a godersela, che già il sonno è stato costretto ad abbandonarci per colpa di un autoreferenziale e affettuoso rapporto familiare esistente fra giovane porno star, madre scambista e zia che, benedicendosi e sorridendosi con complicità tentavano di banalizzare la questione e di normalizzarne la natura che, confesso, ho difficoltà a definire.
Una delle reti televisive più note, quella che le mandava in onda in prima serata, è riuscita a far durare la trasmissione dalle 21,10 circa alle 01,20 (!), si, quasi quattro ore.
Riusciremo mai ad appagare la nostra curiosità?
Conosceremo mai il nome della loggia cui appartiene il responsabile che ha deciso di mandare in onda l’esaltante spettacolo?
Dietrologo io?

No; solo memore del progetto massonico di corruzione dei cuori utilizzato come strategia per sottrarre le anime alla religione cattolica.
Ed anche consapevole della gradualità del progetto, gradualità che in termini di moralità (o, se non altro di laico buon gusto) si muove, giorno dopo giorno, utilizzando la dissacrazione dell’oggi come trampolino per la nuova dissacrazione di domani.
In questo gran corpaccio di tenebra, il cuore buono della nostra Italia vede bene che la parola «anima» non effonde più da nessuna bocca e che l’italiano viene gestito, appunto, come un corpo vuoto, quello dell’animale pregno di soli istinti e di molte brame.
Povero Platone; aveva meditato tanto per pervenire all’esatto opposto!
Ma già il libroVIII della Repubblica concludeva con immensa amarezza.
 
Vado al fondo; a quello della laureanda - possibile partecipe della classe dirigente di domani - che pensa bene di scrivere qualcosa relativo «all’ungarsi» di un corpo; ed a quello di una futura magistrato che ha fatto arrovellare gli esaminatori del relativo concorso che le avrebbe dovuto schiudere le porte del potere giudiziario.
Il malcapitato esaminatore infatti, dice Blondet, «ci ha messo un po’a capire che la ragazza, volendo scrivere ‘vexata quaestio’, aveva equivocato sul senso della ‘x’, traducendola, com’è usa farsi negli SMS, in ‘per’. Evidentemente aveva copiato il concetto latino da un suggerimento inviatole per cellulare, senza capirne un tubo».
E davvero di fondo si è trattato quando l’Italia si è finalmente sentita gratificata dall’aver potuto osservare le vibrazioni delle piccole pieghe dell’orifizio dello scoiattolo affetto da meteorismo che, un bel giorno (si è anche moltiplicato per tre, dopo un brevissimo periodo di moratoria patito dallo spot che si sperò fosse stato bloccato) riesce a salvare il mondo, appunto con una (tre è meglio di una, però) flatulenza; nuova frontiera della dissacrazione sistematica.
Ma ormai questo genere di sinfonie corre veloce sui video.
Ricordate? Fu grande il Cossiga di allora, picconatore delle proprie (poco male) e delle altrui (statali, molto male) istituzioni, addirittura colto mentre tentava di avvicinarsi al dimostrante urlante con il quale avrebbe voluto intrattenersi amabilmente, dimostrante che invece pensò bene di anticipare il grido di battaglia di Grillo e di lasciare in surplace un presidente di una repubblica che già da allora si preannunciava, delle banane.

Torneremo su Cossiga nel prossimo pezzo e ci soffermeremo un po‘ più diffusamente.
Comunque, altri tempi, a partire dai quali potremmo cominciare, se volessimo ricostruire la fase acuta dello sfascio italiano.
E Marcelletti?
Il mito Marcelletti lascia melanconicamente che la sua incomparabilità deragli ingloriosa, mentre le madri in piazza sentono il dovere di eleggerlo a secondo padre dei loro sfortunatissimi bimbi.
Non accadrà più che indugi tanto su un simile corpaccio di tenebra, ma mi occorrevano delle immagini, sufficientemente «qualificanti», per esprimere il grado di retrocessione cui gran parte dei nostri connazionali sono stati deliberatamente portati perché soffocassero individualmente le loro anime e contribuissero a strangolare il «Gesù Cristo diffuso e comunicato», cioè la nostra Chiesa.
Gli italiani sono stati «sperimentati» - ricordate il grande Ciampi a Tokio: l’Italia è un Paese sperimentale - con successo sono stati riplasmati - come dimenticare D’Azeglio, ora finalmente appagato, che vede gli italiani fatti secondo l’ordine liberale - e appunto identificati in una dignitosissima poltiglia liberale.

Gabriele Fergola scrisse nel lontano 1998 un piccolo libro che a distanza di dieci anni conserva intatta la sua freschezza e suggerisce spunti per molte riflessioni (1).
Ricordo per ultimo un trafiletto strategicamente confinato in una delle pagine  interne di un quotidiano che ho conservato da qualche parte, in cui Sandro Cursi sosteneva, credo nelle funzioni di consigliere di amministrazione della RAI, che «tutti» all’interno della Televisione pubblica fossero degli «incappucciati».
E se tanto mi dà tanto, devo pensare che la moltitudine mucillaginosa rancorosa e litigiosa, pronta a «darla» ed a fare flautolenze fra risi e lazzi, ebbra di ogni possibile «leggerezza» e delle più avvilenti volgarità, non sia altro che il prodotto di un progetto iniziatico di ispirazione massonica che ha reso informe e dunque più gestibile e più condizionabile quello che solo
sessant’anni fa era un popolo ed una società pregevole.
Di lei Julien Green diceva in un’intervista: «Da voi c’è una grande intelligenza umana diffusa la quale fa sì che - quali che siano le opinioni politiche - si trovi sempre il modo di capirsi. Gli italiani amano moltissimo discutere, si confrontano continuamente e il risultato è che alla fine sono meno divisi dei francesi» (2).
Quelli che ho appena richiamato sono i panni sporchi del corpaccione dell’Italia di tenebra: ma in esso, come ho detto, batte con affanno un cuore buono.
E’ questa la ragione che mi induce a non considerare l’Italia come un’unica realtà che sprofonda.
In troppi snodi della storia si è dovuta registrare l’esistenza di un’Italia plurale o, quanto meno, doppia.
Non capisco perché nello sprofondare essa poi lo debba fare unitariamente.
E’ certo che vi è il pericolo che l’idea di uno sprofondamento immaginato «unitario», esteso cioè all’intero corpo, corpaccione e cuore buono insieme, possa contagiare i resistenti e faccia gli interessi dell’iniziato intento a mestare per fare del solve un ottimo solve.
E’ del pari certo che il corpaccione della Italia di tenebra stia zavorrando il resto d’Italia e tenda a trascinarlo verso il fondo, non v’è dubbio.
Che le élite di potere italiane non svolgano, sostanzialmente, altra attività se non quella di essere dei plongeurs di «potenze» quasi sempre oscure, anche qui non v’è dubbio.
Il plongeur è l’uomo di fatica nei ristoranti ed alberghi costretto a svolgere, tra l’altro, il ruolo di «cameriere» dei camerieri, ai quali servire i pasti in sale a loro riservate; è stato, e forse lo è ancora, un lavoro di dodici, quindici fino a diciassette ore che, svolto in condizioni letteralmente inumane, fu descritto da Eric Blair che assunse lo pseudonimo di George Orwell (3).
Da veri plongeurs, gli appartenenti alle nostre classi dirigenti, da sempre hanno lasciato che lo straniero attribuisse all’intero popolo italiano quello che pensava di loro e della loro capacità di compromissione.
Quelle miserrime oligarchie si guarderanno bene dal chiedere umilmente venia per aver scelto di scambiare la dignità del popolo che gli era soggetto con non so più quali innominabili vantaggi.

E dire che si serva in un tempo in cui gli italiani chiedono scusa anche ai sassi.
Tuttavia non si può dimenticare il fatto che lo straniero, che oggi ci irride, agghindato quasi fosse un gentleman, dovrebbe assumere uno stile un po’ più conveniente rispetto a quello dell’autentico vaccaro zoofilo quando considera a quale sorta di pressioni egli e le sue infami, perverse, bestiali élite hanno sottoposto e sottopongono i nostri pur miserrimi politici.
Potrei continuare, ma credo di avere espresso con sufficiente chiarezza che alcuni distinguo, quando ci si accinge ad emettere giudizi molto acuti su una realtà così esposta e vulnerabile com’è quella italiana, le siano dovuti per amore di giustizia.
Lo ripeto e lo farò ancora: di italiani ve ne sono almeno due specie: «Nel mondo ci sono uomini, mezzi uomini, uominicchi e quacquaracquà» scriveva Sciascia; la linea di discrimine tracciatela voi, dove ritenete opportuno, ma per rispetto dovuto agli «uomini» (rari, se volete) e su consiglio di Aristotele, non dimenticate la distanza che li separa dai quacquaracquà.
D’altra parte, argomentando a contrario, non posso non pensare al fatto che i nemici più lividi di questo benedetto Paese lo vorrebbero sbrigativamente a fondo per le molte ragioni che ben conoscete.
E dunque, già non servendosi dei distinguo nel descrivere il processo di sprofondamento, mi induce a pensare che si possa rendere addirittura un servigio ai nostri nemici interni (molti) ed esterni (pochi) lividi, maligni e malvagi e che hanno scelto di esserlo liberamente.
Devo, insomma, per amor di giustizia, impedirmi di immaginare che i resistenti italiani possano fare la fine di quelli che rincorrono Lucignolo.

Confesso che non so dire se gli iniziati, artefici del solve italiano, pensassero fin dall’inizio del loro mestare, di dar vita alla moltitudine mucillaginosa italiana che avviluppa oggi il cuore buono d’Italia.
Quel che è certo è che a quella società e a quel popolo fu intimato fin dalla  metà dell‘800 di provvedere a realizzare una modernizzazione, spacciata per misura ineludibile, pena, se non fosse stata realizzata, la sua esclusione dal «consesso» delle nazioni civili cioè, e non sembri un’ossessione ideologica, dal consesso delle democrazie liberali.
Chi desidera maggiori certezze, potrà scorrere l’elenco preparato diligentemente da Alberto Marinelli (4) dove troverà indicati gli aspetti essenziali che caratterizzano appunto il processo di modernizzazione.
Gli sarà agevole scoprire che quegli aspetti coincidono o sono strettamente legati - come conseguenza o come postulato - ai caratteri assunti dal corrente liberalismo.
Ma pur di salvare la pelle della baldracca (la modernità liberale), tenuta in vita con particolari accorgimenti che ricordano da vicino l’accanimento terapeutico, un tremebondo Ralf Dahrendorf è stato pronto a sottolineare che «Le forze della modernità sono robuste come sempre. E inoltre, basta un passo per scivolare da sentimenti post-moderni in sentimenti anti-moderni. Dei quali ultimi, abbiamo fin troppi esempi… un’eclisse passa, e in ogni caso attraverso un vetrino si può
intravedere il sole che torna a splendere. Per me, comunque, il sole della modernità è ritornato
» (5).

Che cosa provoca il panico in Dahrendorf?
La consapevolezza che la modernità possa essere «smontata», direi dal suo interno, da fattori che pur affondando le proprie radici nel cuore della modernità, avrebbero la possibilità di giungere a negarla possedendone, in certo senso, una forte legittimazione.
Ci riferiamo alla molto dibattuta postmodernità.
Per esempio, come respingere le tesi che sostengono l’attuale impraticabilità del concetto di «progresso»?
Non è forse legittima la domanda che molti si pongono su come sarebbe possibile parlare oggi di «nuovo» quando il nuovo è diventato sinonimo di speranze mancate, di incertezze paralizzanti e di pessimismo?
Come, daccapo, sarebbe possibile evocare il «progresso», divenuto parola bruciante, dacché il regresso appare essere l’unica realtà certa?
Un acceso «modernista» sa bene che le forze dell’antimodernità non possiedono la forza d’urto capace di attaccare frontalmente e fratturare la modernità, ma è ben consapevole che, al contrario, la postmodernità con  la sua vocazione incontestabile per il vuoto, il nulla, lo scetticismo, l’ateismo (anticattolico) nega recisamente l’idolatria del «nuovo» e  del «progresso» marchi inconfondibili della modernità.
Di qui il timore che si inneschino processi inequivocabilmente antimoderni.
Probabilmente durerà ancora per molto la querelle accesasi intorno alla questione se il postmoderno sia una fase della modernità ovvero un’epoca dai tratti autonomi ed antitetici, sorta sulle rovine della modernità.
Contraddizioni di tale portata, nodi irrisolti dai quali l’occidentale non riesce a svincolarsi e che lo stringono anche nei fatti della quotidianità, producono lacerazioni molto profonde.

Si tratta di un distanziamento progressivo che vede il mondo della tradizione allontanarsi e diventare sempre più evanescente mentre perfino il mondo moderno diventa ogni giorno più incerto, estetizzante fino al grottesco, incapace di esprimere una nuova metanarrazione quando a suo tempo furono proprio i metaracconti  a caratterizzarlo.
Lo diciamo per inciso ed a titolo di curiosità; qui si può osservare la potenza del pensiero di Marcel De Corte, dimenticato perché cattolico: le sue logiche, evidentemente più che corrette, sviluppate quasi cinquant’anni fa, lo hanno portato ad essere attuale, tanto attuale da consentirci di cogliere preziose indicazioni utili all’oggi.
Si pensi alla sua tesi circa l’astrattezza del sessualismo che egli propugnava smentendo l’apparente materialità della faccenda (6)!
Non altrettanto può dirsi del citatissimo, perché liberale, ma certamente poco letto, José Ortega y Gasset che è riuscito, in un tempo pari a quello in cui l’attualità di De Corte è stata ampiamente sperimentata, a sbagliare tutte le analisi, almeno quelle contenute ne «La ribellione delle masse», ed a farne opera divenuta inutile già da tempo.
Ritengo che la spiegazione stia nel suo accesissimo ideologismo.

Torniamo al distanziamento fra mondo della tradizione e mondo moderno.
Per esempio, dalla famiglia (più o meno «estesa»; si pensi alle cascine, spesso grandi, aumentate dal lavoro e dalla sovrapposizione del contributo delle generazioni precedenti; in esse vivevano sotto lo stesso tetto bisnonni, nonni, figli e nipoti e tutti vegliavano su ciascuno), dalla Chiesa, dalla comunità del paesino, dalle comunità di lavoro, dall’ordine mentale tenuto delle categorie si è potuti passare al sindacato, alla famiglia «allargata» (una sorta di messa in comune di ciascuno da parte di tutti), allo Stato sociale, alle classi, all’ordine dei valori.
Ciò è potuto avvenire perché è andato maturando quel processo, definito dalla sociologia come processo di individualizzazione, che ha inaugurato il regno dell’«agente», dell’individuo privo di ancoraggi e soprattutto dei riferimenti minimi che non siano quelli costituiti dal se stesso di ieri (forse neppure dal sé di ieri l’altro).
In altri termini, l’individuo che in passato poteva rifarsi alle indicazioni e all’esperienza delle generazioni precedenti della famiglia d’origine o ai consigli o comandamenti della Chiesa o ai suggerimenti del maestro di lavoro; l’individuo moderno che poteva rapportare i comportamenti o le previsioni alle normative sindacali o alle conoscenze fornitegli dallo Stato sociale o alle logiche interpretative contenute in una ideologia di classe, oggi, a processo di modernizzazione maturo, l’individuo, privato di comunità, di categorie di riferimento e perfino di società, non può far altro che rimettersi a quanto di sé ha detto, o fatto o pensato egli stesso soltanto un momento prima.
Il suo essere fluttuante in piena solitudine che tenta di rifarsi al se stesso immediato, viene definito riflessività della modernità.

E’ il frutto di quell’odiosissima logica nata nell’oltremanica ed utilizzata a piene mani dalla Thatcher, la cui graziosissima bocca fu capace di vomitare: «Non esiste la società, esistono solo gli individui di sesso maschile e femminile… L’economia fornisce il metodo…ma l’obiettivo è cambiare l’anima» (7) [e, forse per dirla tutta, sesso].
Ambire a cambiare (per possedere) l’anima è quella demoniaca brama - non bisogna dimenticare che l’attacco portato da Satana tende ad impadronirsi della volontà oltre che dell’intelletto o delle viscere dell’uomo - che sta all’origine della sperimentazione fatta sugli italiani.
Nel lucido delirio dell’immaginazione dell’iniziato (massone, mondialista, satanista o gnostico o altro che sia) , l’anima cattolica dell’italiano dovrebbe diventare un’anima non cristiana; un’anima li-berale e cioè sostanzialmente atea.
Nella irriducibilità del cristianesimo al laicismo liberale e nelle conseguenze della volontà totalizzante di questo di forzarlo con violenza all’interno dello spirito italiano, sta la malattia della nostra anima.

Il liberalismo - circondato dallo stuolo intricato delle filosoferìe che gli sono vitali (individualismo, liberismo, relativismo, utilitarismo, edonismo, mercatismo…) - non appartiene alla nostra tradizione di pensiero, esattamente come non appartengono alla nostra tradizione cristiano-cattolica i sofismi che gli fanno da corona.
E’ questa la ragione per cui il potente iniziato gnostico - quello tratteggiato efficacemente da Carlo Formenti «Oggi noi gnostici occidentali deteniamo tutto il potere economico, politico, militare. Abbiamo la forza ed il diritto per difenderci, ma dobbiamo evitare di cadere nell’errore dei nostri interlocutori demonizzandoli a nostra volta» (8) - vuole, al di là di ogni ragione plausibile, finire di ingozzare l’italiano di libertismo (autonoma «filosofia della libertà», quel volgare sofisma buono per essere piantato come un lussuoso cavolo ad ogni merenda per giustificare ogni merenda a base di cavoli) e di liberalismo.
Somministrare ulteriori dosi di individualismo all’italiano, sta significando, insomma, fargli fare la fine del foie gras.
Gustosissimo per gli iniziati gnostici che hanno dato vita al programma, letalmente esiziale per l’oca italiana.
Di questa intendo occuparmi, con maggiore attenzione di quanto non abbia fatto in passato, fortemente legata com’è od era al mondo della tradizione (famiglia, norme dettategli dalla sua religione, norme millenarie etiche o morali o giuridiche), almeno fino a qualche tempo fa, e certamente più di altri popoli e certamente capace di portare ancora un cuore buono.
Per questa via, non posso dimenticarmi di quel cuore buono che si vede costretto, ogni giorno di più, a misurarsi più o meno consapevolmente, certamente sempre più duramente, con le difficoltà determinate dal passaggio attraverso le tre fasi indicate (mondo della certezza tradizionale, della modernità e della modernità «riflessiva»).
Un simile lacerante passaggio, che gli è stato imposto di comprimere in un tempo limitatissimo, come è appunto quello che ci separa dalla fine della Seconda Guerra mondiale, in pratica in sessant’anni, ha prodotto l’oca italiana.
Per esempio, la magnificenza del gusto italiano (si pensi al Rinascimento), è scaduta nel gusto estetico prima e, successivamente, nell’estetismo del postmoderno.
Come definire altrimenti il culto del design o, ad esempio, le variazioni ossessive della forme dei telefonini?

In un perimetro di tal genere si colloca l’opera di Fredric Jameson il quale denuncia, anche se da marxista americano, l’identificazione sostanziale fra postmodernismo e tardo capitalismo e dice: «E’ accaduto che oggi la produzione estetica si è integrata nella produzioni di merci in generale: la frenetica necessità economica di produrre nuove linee di beni dall’aspetto sempre più inconsueto (dal vestiario agli aeroplani) con un giro di affari sempre più grande, assegna all’innovazione e alla sperimentazione estetiche una funzione e una posizione strutturali sempre più essenziali… Ora è il momento di ricordare al lettore il dato evidente che tutta questa cultura postmoderna, mondiale e tuttavia americana, è l’espressione interna e sovrastrutturale dell’intero nuovo corso del dominio economico e militare dell’America nel mondo…» (9).

Detto in altri termini: l’estetismo, il culto per l’immagine, per il frammento d’immagine è, se è, il compiaciuto interesse della multinazionale di turno.
Provate a pensare questo dato tentando di conservare e di utilizzare i riferimenti offerti da una mente seriamente cattolica!                    
Tornando a noi, voglio dire, in conclusione, che l’italiano di oggi nel momento in cui si volta «indietro» per trovare il senso del suo pensare, del suo agire presente e per disegnare il proprio futuro non troverà altro che una ridda, un miscuglio privo della benché minima efficacia necessaria per ricondurlo alle realtà di senso appartenenti al mondo della concretezza tradizione o, quanto meno, al mondo della modernità.
Nel frattempo, egli si trova alle prese con le urgenze impostegli, durante l’ordinarietà quotidiana, dal vivere moderno-riflessivo (10).
Disegnare il futuro; il nostro futuro, quello dei nostri figli e delle persone amate, dei beni scagliati nel tempo.
Sostengono Benasayag e Schmit (11) che il futuro non è ciò che mi capiterà domani ma è una proiezione distaccata dal presente.
Dicono: il futuro è un concetto e, sulla scia di Freud, in tale concetto esorcizzavamo le nostre infelicità.
Il concetto, cambiato purtroppo di segno, è diventato minaccioso dopo essere stato promissorio di radiosi mondi a venire; in pratica, l’essere umano, da quando ha compreso l’impossibilità di essere felice ed ha tentato di affidare al futuro le sue infelicità presenti, che per questa via venivano sublimate, si è ritrovato improvvisamente alle prese con un futuro incapiente; un futuro che non c’è.

«Compriamo e vendiamo futuro, quando futuro non c’è», dice il diavolo nel film (12).
Non potendo più «discutere faccia a faccia con Dio», quello stesso Dio che il cattolicesimo ci ricorda essere padre paziente, l’uomo-se-dicente-re ma radicalmente nudo, non solo non può più sfuggire all’infelicità, ma non può compensarne la drammaticità affidandone il tormento alla speranza di un futuro migliore.
Uno sbarramento gigantesco impedisce addirittura che il concetto-futuro affiori alla mente; di qui «la cultura del presente» (o post-moderno) teorizzata da Carlo Mongardini, il «pessimismo culturale» pensato da Oliver Bennett (13) ed infine la nitida opera di Benasayag e Schmit che, tra il molto altro, hanno indicato un approdo a Spinoza.
In che senso?
In un senso utile al nostro discorso, con quel passaggio che ancor oggi insegna «… le immagini delle cose che pongono l’esistenza della cosa amata favoriscono lo sforzo della Mente che cerca di immaginare la cosa amata, cioè la impressionano con la Letizia, e al contrario le immagini che escludono l’esistenza della cosa amata ostacolano lo stesso sforzo della Mente, cioè impressionano la Mente con la Tristezza (maiuscole nel testo, ndr)» (14).

Si badi che il futuro, della cui dimensione siamo stati deprivati, resta la culla dell’amore.
L’amore ed il desiderio sono strettamente legati: tante le forme dell’amore, d’accordo, tante le forme del desiderio che possono legarsi a quello; una sola la forma di straneamento, quello del sesso come attività di consumo pensata e voluta per l’oggi, maledetto e subito, anche se si tratta di essere accolti a 14 anni fra gli squallidi muri di un cesso di retrobottega.
Proviamo a sgombrare il cuore, un colpo d’ala per un momento: chi saprebbe in realtà immaginare un amore, per quanto esso possa ridursi solo ad un «piccolissimo (volere un semplice) bene», che non s’accompagni a quell’impulso a perpetuare il momento felice che sia anche per domani, ed ancora e poi ancora con cui, insomma, l’essere umano si sforza di perseverare nel proprio essere, che realizzi la stessa essenza dell’uomo?
Perfino la ricerca del piacere sessuale, gli uomini lo sanno bene, tradisce l’aspirazione di affidare al futuro la propria felicità da amore o da suo surrogato o da suo inganno; il desiderio che si riaccende di continuo e che non «sa» immaginarsi orfano, rimanda all’esistenza di una qualche maggiore pienezza affettiva, inimmaginabile nel fugace rapporto da latrina, da piacere del tipo ora, maledetto e subito che, esauritosi, produce distanza e nausea sottile ed immediata e, sopratutto, senza futuro.
Deprivati del futuro, non sapendo più dove collocare i nostri amori, abbiamo dimenticato la letizia spinoziana e dunque una valida ragione per sorridere alla vita.
E basta osservare per strada i volti delle persone che incrociamo, per rendercene ben conto.
Così, in un clima del genere, è di tutta evidenza che il dover operare scelte ed assumere decisioni non potrà che causare nevrosi tanto gravi da condannare l’italiano (per tutti gli altri, si vedrà) a patologie croniche ignote perfino alla medicina ufficiale più avanzata.
Detto in altri termini, non intendo riferirmi alle psicopatologie già note alla scienza medica che le ha nel tempo pazientemente documentate, codificate e che pretende di curare.

L’aspetto inquietante della faccenda sta nel fatto che le nuove psicopatologie dalle origini incerte costringono oggi la medicina a limitarsi a stabilizzare il paziente nella crisi piuttosto che a portarlo a rimessione.
Si tratta, dicono, di una crisi nella crisi.
Avrete, purtroppo, tratto dalla cronaca nera le notizie sulla quantità di omicidi/suicidi originati dalla depressione scatenata dalla perdita del lavoro.
Ricordiamo che il tasso di suicidi in Italia è stato in netta crescita soprattutto nelle regioni settentrionali (15) dove le sollecitazioni performanti e le spinte all’eccellenza sono più forti.
Si è passati dai 2.819 suicidi del 2001 ai 3.265 del 2004 (dato nazionale).
Forse che non ci si precipita a 130 Km l’ora in un banco di nebbia fitta spinti dalla necessità, forse vitale, di rispettare impegni già presi, oppressi dalla scarsità del tempo?
La ragione è, anche qui, di tutta evidenza: le condizioni che producono psicopatologie sono diventate di natura sistemica nel senso che appartengono al piano delle condizioni ordinarie di vita sia che questa concerna più generalmente il mondo della oggettività, sia che riguardi il singolo soggetto ovvero che sia da far risalire alla società e ad una sua «patologia».
Si ritiene che nell’esistenza «… la norma non sia più fondata, come in passato, sulla esperienza della colpa e della disciplina interiore; ma, invece sulla responsabilità (individuale) e sulla capacità di iniziativa: sulla autonomia nelle decisioni e nell’azione. L’esperienza della colpa, che ha segnato la coscienza di infinite generazioni, sarebbe oggi sostituita (così) dalla esigenza implacabile e assoluta di responsabilità nel senso, direi, del ‘principio responsabilità’ di Hans Jonas; con la ovvia e profonda metamorfosi di progetti esistenziali che ne consegue» (16).

Occorrerà riandare col pensiero alla «implacabilità della responsabilità» ogni volta che si sentirà parlare di liberalismo, di individualismo e di modernità, implacabilità che altro non è che la conseguenza diretta ed amara della riflessività.
Occorre precisare che quando Jonas fa appello a quel principio, intende ricordare che l’intreccio delle relazioni esistenti fra esseri umani rende l’uomo non autarchico e la ragione è chiara: Jonas tende a contrastare gli esiti di un individualismo che intravede devastante per l’uomo.
Scrive a proposito della reciprocità della responsabilità per cui ciascuno, armonicamente, è al tempo stesso soggetto ed oggetto di responsabilità: «Questo deriva dalla non-autarchia dell’uomo: ciascuno ha sperimentato anzitutto su se stesso la responsabilità originaria delle cure parentali» (17).
Dall’aver voluto negare il principio della reciprocità si è indotti a credere che l’uomo sia diventato pericoloso per la natura molto più di quanto, in passato, la natura lo sia stata per lui.
E poiché, come ho confessato, intendo prendermi particolare cura del cuore buono dell’Italia (che non è il cuore di tutti gli italiani quando e se decide di essere buono ma è il cuore di quella parte di italiani che non rinuncia ad essere buono) che non ha voluto eleggere la fine della Patria; quel cuore buono che non si palestra e non si làmpada, non s’agghinda di griffe e non si scolpisce nel corpo (il riflessivo non è previsto nella nostra lingua per questo verbo).

Quel cuore non si risolve nella corporeità, ma sa di esser «sede dell’anima» e, come scrisse Maria Zambrano, non confonde questa con i fatti psichici o con gli atti di coscienza.
Ella, riprendendo piuttosto l’articolazione che ne dette Aristotele, orna l’anima con le fattezze di una «mano» lieve ma al tempo stesso onnivora del reale che sfiora.
Così la Zambrano ha potuto dire che «…se la filosofia, come cammino, attecchisce, ciò avverrà solo se ha conquistato in qualche modo il cuore» (18).
Il cuore buono di una parte degli italiani, tanti quanti sono gli «uomini sotterranei» della Zambrano (pagina 100) non può dimenticare, però, da quale reale è circondato, quale reale è  costretto a «toccare delicatamente».
In questi casi è necessario avere saldo il principio gramsciano: «pessimismo dell’intelligenza, l’ottimismo della volontà» (19).
Purtroppo però il pessimismo culturale che oscura troppo spesso quel cuore, è il prezzo che esso deve pagare ogni volta che vede disfarsi il vincolo comune su cui la nostra società dovrebbe fondarsi e che dovrebbe essere iscritto - prima che nelle leggi - nel nostro costume e nella tradizione dei nostri millenni che, invece, non sono più capaci di indicare un destino condiviso.
Nelle società tradizionali era la religione a definire il senso di un tale destino, la cui condivisione è venuta meno nel momento in cui la nostra religione, la fede della nostra Chiesa, è scaduta, sfilacciandosi nella mera religiosità e nell’esperienza di una fede privata.
Per questa via si comprende l’incapacità di quest’ultima di assurgere a vincolo buono per l’intera società e di indicare un destino condiviso.
Era questa la ragione che faceva protestare vivacemente l’indimenticato De Corte quando metteva in guardia (siamo negli anni ‘70) dalla dissoluzione delle comunità di destino.
La società si edifica su di esse e non sugli individui: esattamente come la casa che viene edificata sui mattoni piuttosto che sui granelli di sabbia giustapposti.
Il sociale, diceva De Corte, si fa con il sociale (con le famiglie, in particolare).
E’ accaduto così che a furia di sottrarre al corpo sociale le sue comunità di destino e di iniettare in esso individui «individualizzati» ed individui pericolosi socialmente (penso ai pedofili, agli stupratori, agli autori di delitti efferati, ai delinquenti abituali o professionali, ai recidivi…) il vincolo tissutale si sia sfarinato, esattamente come un castello di sabbia si disfa per i grani divenuti troppo secchi.

Ed occorre aggiungere che in conseguenza di una sostanziale intesa fra i sistemi giudiziari - a me sembra, per la verità, una vera congiura diretta a realizzare il solve iniziatico - i responsabili di gravi crimini vengono troppo spesso re-immessi nella società in ossequio alla logica giudiziaria garantista del massimo favore verso il reo, presunto innocente, quasi che la società e gli individui non fossero stati già profondamente violati.

Spesso mi trovo a sostenere che si sia restati in pochi ad amare la società, realtà misconosciuta e spregiata dallo spirito neo-liberale cui dava fiato la boccuccia di rosa della Thatcher di cui si è detto. Io, parafrasando Dahrendorf, credo quia absurdum, «I believe in the resurrection of Italy quia impossible est / 4 times to the song of Gassir / now in the mind indestructible» (20).

Giuliano Rodelli



1) Gabriele Fergola, «Italia invertebrata», Controcorrente, 1998. Una delle sue tesi di fondo è quella di un’Italia che è stata «resa» invertebrata.
2) Si trova in Rino Cammilleri, «Elogio degli italiani», Leonardo, 1995 pagina 221.
3) George Orwell, «Senza un soldo a Parigi e a Londra», Mondadori, 1981.
4) Alberto Martinelli, «La modernizzazione», Laterza, 1998, pagina 11.
5) Ralf Dahrendorf, «Il conflitto sociale nella modernità», Laterza, 1990 pagine XII e XIII.
6) Marcel De Corte, «Fenomenologia dell’autodistruttore», Borla, 1967. Molti dei suoi scritti importanti sono stati tradotti in italiano, ma non scorgo all’orizzonte personalità del calibro di Del Noce, Cattabiani, e molti altri che favorirono la conoscenza di scrittori, prevalentemente di scuola francese, che ci sono più vicini.
7) Si trova in David Harvey, «Breve storia del neoliberismo», il Saggiatore, 2007, pagina 33.
8) Il Corriere della Sera, Inserto «7» del 25 febbraio 1989.
9) Fredric Jameson, «Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo», Fazi, 2007, pagine 22 e seguenti. Dell’opera esiste una vecchia edizione, ma breve, realizzata da Garzanti nel 1989.
10) Potrà essere utile consultare di Ulrich Beck, Anthony Giddens, Scott Lash, «Modernizzazione riflessiva», Asterios, 1999 specie nelle pagine 163 e seguenti in cui Scott Lash sintetizza le due precedenti posizioni (quella di Beck e quella di Giddens).
11) Miguel Benasayag, Gerard Schmit, «L’epoca delle passioni tristi», Feltrinelli, 2007.
12) «L’avvocato del diavolo», con Al Pacino.
13) Oliver Bennet, «Pessimismo culturale», il Mulino, 2003. Si vedano particolarmente le pagine 185 e seguenti.  
14) Baruch Spinoza, «Etica-trattato Teologico-politico», UTET, 2005, pagina 208.
15) http://www.agenfax.it/index.php/content/view/14551/85/
16) Eugenio Borgna, prefazione a Alain Ehrenberg, «La fatica di essere se stessi», Einaudi, 1999 pagina XVIII.
17) Hans Jonas, «Il principio di responsabilità», Einaudi, 1993, pagina 125.
18) Maria Zambrano, «La confessione come genere letterario», Bruno Mondadori, 1997. Si vedano in particolare le pagine 58 e seguenti dedicate al cuore.
19) Antonio Gramsci, «Quaderni dal carcere», Q. I (XVI) pagine 56 bis-57.
20) La traduzione è libera, ma sentimentalmente giustificabile: «Credo nell’Italia e nella sua
impossibile rinascita …», Ezra Pound, «Canti Pisani», LXXIV.


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