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Californication
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Tre mesi; ci hanno impiegato pressappoco 3 mesi per passare dalla fiction alla realtà: il 6 marzo scorso Canale Jimmy mandava l’episodio pilota di Californication in cui il telespettatore era indotto ad immaginare senza fatica una fellatio eseguita ai piedi dell’Altare da alcuni bipedi; il 2 giugno scorso a Cesena due esseri eseguivano una fellatio nel confessionale durante la celebrazione della Santa Messa.
Il fatto che la celebrazione fosse in corso, corrisponde allo stato di avanzamento della «(grande) opera» relativa ai lavori di perversione dei cuori.
L’avanzamento si è verificato nei tre mesi e segna il passaggio fra il medium (stimolo) e la risposta realizzatrice (risposta).
Per chi non lo sapesse si chiamerebbe società della comunicazione ovvero: «It is the (economy of) communication, stupid !!!».
E questo solo in Italia.

Provate a moltiplicare l’avanzamento per gli individui sensibili, a spasso nel resto del mondo ed otterrete il numero di anime che sono state consegnate, in quest’unico frangente, al principe di questo mondo (fatta salva la gratuità dell’intervento della misericordia Filiale).
Voglio tenermi lontano dal versante morale e dalle implicazioni di carattere religioso: potrei concludere dicendo: non ho parole, senza con questo volermi trarre d’impaccio.
Probabilmente mi sta accadendo qualcosa di simile a ciò che spinse Franco Cardini a dire «io comincio a non riconoscere più il mondo in cui vivo» (1) e Massimo Fini a dover ammettere «io non mi riconosco più nel mio Paese».

Intendiamoci: non ho parole, nel senso che probabilmente il dizionario della lingua italiana non contiene, se non per approssimazione, un termine o comunque un segno semiologico utile per contrassegnare questa realtà; in verità ho anche difficoltà a formulare un concetto compiuto sulla base del quale azzardare un giudizio.
Ricorderete la questione dei sassi lanciati sulle auto dai cavalcavia?
Quel che scioccava inquirenti e medici risiedeva nella necessità di dover prendere atto del fatto che non ci fossero ragioni che avessero determinato il soggetto a delinquere.
Non se ne capacitavano.
In presenza di casi di apparente annichilimento delle facoltà umane, devo dire che non mi attrae l’ipotesi che qualcosa di simile a ipotetici messaggi subliminali possa aver condizionato le menti o patti con altri esseri umani o entità spirituali sataniche abbia indotto gli umani a frequentare i confessionali per ridurli a lupanari.
Non mi convince la causa diretta: a seguito di un’intesa, vado dove non dovrei.

Né mi attrae l’ipotesi corrispondente ad una eresia cristiana, ad una «bestemmia» filosofica, tuttavia cara a molti esoteristi, secondo cui si sarebbe trattato del cambio subìto dalla natura umana.
Certo qualcosa, da una decina anni, gira nell’aria.
Jeremy Rifkin, lo sapete, é personaggio ben noto, ricco di pubblicazioni e dotato di idee suggestive. In una delle sue prime opere tradotte in italiano scriveva «Algenia significa cambiare l’essenza di una cosa vivente. Le arti algeniche sono rivolte al miglioramento degli organismi viventi già esistenti e alla progettazione di organismi interamente nuovi con l’intento di perfezionare le prestazioni… Gli algenisti sostengono che tutte le cose viventi sono riducibili a un materiale biologico di base, il DNA, che può essere estratto, manipolato, ricombinato e programmato… l’algenista può creare imitazioni di organismi biologici… Lo scopo dell’algenista é quello di costruire l’organismo perfetto… L’algenista é l’estremo ingegnere» (2).
Con un po’ di immaginazione si potrebbe fantasticare a proposito di possibili manipolazione psichiche che in dieci anni la tecnoscienza potrebbe essere riuscita a realizzare.
Mi sembra, al contrario, più convincente l’ipotesi, forse più banale, della causa mediata.

L’«avventura» erotica perpetrata durante la celebrazione della Santa Messa potrebbe essere stato l’effetto determinato da altro, causato a sua volta da un ulteriore fattore ben noto.
Fuor di metafora, mi sembra coerente pensarla alla maniera di Marcel De Corte che, citato da Orsola Nemi, scriveva: «Il nostro mondo del XX secolo è così poco materialista da essere, da capo a fondo, fin nelle sue turpitudini, perfino nel suo erotismo, una costruzione mentale» (3).
Più avanti, lui stesso ricordava un graffito scritto nel ‘68 dagli studenti in rivolta, sui muri della Sorbona: «Immaginate nuove perversioni sessuali» (4).
La causa, chiederete voi ?
Dice de Corte: l’aver ridotto le tre intelligenze aristoteliche di cui l’essere umano è dotato, ad una sola di esse, all’ultima, all’intelligenza poietica [dal greco «poieo»fare, costruire, fabbricare (qualcosa che cada sotto il dominio dei sensi)] non permette di arrivare al «bene» e al «vero».
Detto così sembrerebbe uno sproposito; certo non ci aspettiamo che gli umani protagonisti di tali imprese ambiscano a praticare l’uno e a cercare l’altro ma, dice de Corte, l’assenza di quelle intelligenze, rispettivamente la pratica e la teoretica (o speculativa), determina una «mutazione» (mortale) nell’essere (ex) umano perché accade che «…le nozioni di verità e di bene, tenute in mano dall’intelligenza speculativa e pratica, sono immolate sull’altare della volontà di potenza dell’uomo, ormai cieco intellettualmente che stringe nella sua presa l’universo ed il genere umano stesso».

Ed infatti, se l’intelligenza poietica funziona insieme alle altre due e, soprattutto alla luce di
entrambe, l’essere umano «funziona» normalmente; diversamente, l’atrofia della speculativa e della pratica lascia libera la poietica di immaginare di potersi fabbricare a piacimento, dunque a seconda dell’«input» o «stimolo» che riceve in quel momento ogni possibile realtà.
In altri termini, lo stimolo, non più sottoposto all’esame dell’intelligenza speculativa o di quella
pratica, diventa preda di quella poietica che risponderà, ormai svincolata da ogni legame, «si fa»,
«si può fare», «voglio fare» senza se e senza ma.

La citazione che seguirà sarà utile per comprendere il clima in cui nacque il concetto di stimolo-risposta: «Fin dal 1948, Norbert Wiener vede nella tecnologia dell’informazione il mezzo per evitare che l’umanità sprofondi nuovamente nel ‘mondo di Belsen e di Hiroshima (Norbert Wiener, Cybernetics or Control and Communication in the Animal ad the Machine, Cambridge, Mass., MIT Press, 1948)’. Ma il padre della cibernetica sottolinea che il presupposto per un buon funzionamento di tutto il complesso dei ‘mezzi per raccogliere, utilizzare, memorizzare e trasmettere l’informazione’ è la possibilità di farla circolare senza ostacoli: una condizione che contrasta con le ragioni del potere e del denaro. Questo suo scetticismo gli impedisce di condividere la mistica del progresso infinito della scienza, che nel 1945 aveva indotto Vannevar Bush, inventore del primo calcolatore analogico completo (1931) ed ex responsabile dell’Us National Defense Research Committee, a proporre un massiccio programma di sostegno alla ricerca da parte dello Stato, volto ad accelerare l’avvento di un’‘era post-storica’. La guerra fredda vanificherà tutte queste speranze. La prospettiva umanista di Wiener è estranea alla teoria matematica della comunicazione formulata nel 1949 da Claude Shannon, uno dei suoi ex allievi al Massachusetts Institute of Technology (MIT), ingegnere presso i laboratori della Bell Telephone (Claude E. Shannon e Warren Weaver, ‘The Mathematical Theory of Communication’, Urbana, III: University of  Illinois Press, 1949). La sua definizione dell’informazione è rigorosamente fisica, quantitativa, statistica. Il problema è posto in relazione al calcolo della probabilità: trovare la codificazione più efficiente (in termini di velocità e costi) di un messaggio telegrafico per raggiungere un destinatario. Questo modello meccanico, interessato esclusivamente al canale, discende da una concezione behaviorista (stimolo-risposta) della società. ‘Il destinatario è in qualche modo votato allo status di clone del mittente’. La costruzione del senso non figura nel programma di Shannon, ove la nozione di comunicazione è nettamente separata da quella di cultura. Come nota lo specialista James W. Carey, questo tropismo della comunicazione si richiama a una rappresentazione peculiare della società americana: ‘Il concetto di cultura è una nozione debole ed evanescente nel pensiero sociale (James W. Carey, ‘A Cultural Approach to Communication’, Communication, 1975, volume 1, numero 2)’. Questa accezione della ‘comunicazione’ farà presto il giro del mondo. La nozione di ‘informazione’ si trasforma  frattanto rapidamente in scatola nera, o in parola chiave che fa da passe-partout e da risposta a ogni problema. E questo avviene tanto più facilmente in quanto la teoria di Shannon sarà eretta a paradigma anche da numerose discipline umanistiche, desiderose di vedersi riconosciuta la legittimità attribuita alle scienze naturali. La nebulosità che circonda la nozione di informazione avvolge della sua aureola anche quella di ‘società dell’informazione’. E si nota una tendenza sempre più accentuata ad assimilare l’informazione al ‘dato’ - un concetto derivato dalla statistica - così come quella di ravvisare l’informazione soltanto laddove è legata a un dispositivo tecnico.
In questo modo prende piede un’idea puramente strumentale della società dell’informazione. Così, con l’a-topia sociale del concetto, si fa sempre più indistinta anche la valenza socio-politica di un’espressione che dovrebbe designare le sorti future del mondo. La guerra fredda fa da sfondo alla costruzione dei concetti deputati ad annunciare, se non a spiegare, che l’umanità si trova alle soglie della nuova era dell’informazione, e pertanto di un nuovo universalismo... Fine dell’era dell’ideologia,  fine del politico,  fine delle classi e delle loro lotte, ma anche fine dell’impegno e degli intellettuali contestatari. Tutte queste eclissi sono all’ordine del giorno. Vi si postula che l’analisi sociologica stia spazzando via i pregiudizi dell’ideologia, per attestare la nuova legittimità della  figura dell’‘intellettuale liberale occidentale’. Un’altra tesi ricorrente,  formalizzata  fin dal 1940 dal filosofo americano James Burnham, in rotta con la IV Internazionale (trotzkista),  fa da corollario a questa serie di tesi terminali prospettando la rivoluzione manageriale, l’irresistibile ascesa degli organization men, alfieri di una nuova società; la managerial society che prefigura la convergenza dei regimi capitalista e comunista. Emerge una comunità di pensiero. Una ventina d’anni dopo, Daniel Bell commenta: ‘Insieme ad altri sociologi, quali Aron, Shils e Lipset, sono stato indotto a vedere gli anni ‘50 come caratterizzati dalla fine dell’ideologia
(Daniel Bell, ‘The Cultural Contradictions of Capitalism’, New York, Basic Books, 1976)’. Nel 1960 lo stesso Bell (altro ex simpatizzante trotzkista) pubblica ‘The End of Ideology’; e tra il 1965 e il 1968 presiede la Commissione sul 2000, istituita dalla American Academy of Arts and Sciences, nel cui ambito lavora intorno al concetto di ‘società post-industriale’. Sempre negli anni ‘60 si conferisce legittimità all’idea che esistano metodi obiettivi per esplorare il futuro. Nel 1973 Daniel Bell pubblica ‘The Coming of Post-Industrial Society’, in cui la sua precedente tesi della fine dell’ideologia si collega al concetto di ‘società post- industriale (Daniel Bell, ‘The End of Ideology’, Glencoe, III., Free Press, 1960; ‘The Coming of Post-Industrial Society. A Venture in Social Forecasting’, New York, Basic Books, 1973)’, definita anche ‘società dell’informazione’ o ‘del sapere’, che sarebbe scevra da ideologie. ‘Il sapere è più che mai potere’ Come indica i sottotitolo del libro, ‘A Venture of Social Forecasting’ (‘Un tentativo di previsione sociale’), Bell formula una serie di pronostici, e costruisce, estrapolando alcune tendenze (trend) strutturali osservate negli Stati Uniti, una società-tipo ideale, caratterizzata dall’ascesa di nuove élites (il cui potere risiederebbe nella nuova ‘tecnologia intellettuale’ concepita in funzione dei processi decisionali) e dalla preminenza della ‘comunità scientifica’, una ‘comunità carismatica’, universalista e disinteressata, ‘senza ideologia’» (5).

Proviamo a mescolare «amore e morte» in un facile miscuglio di sapore neoromantico, lasciamo che «amore» si degradi fino a coincidere con emozioni, passioni, desideri ed erotismo, eccitiamo la capacità «immaginifica» di realtà sessuali alle quali sono stati tolti i freni come ad un cavallo, libero di agire per aver «sentito» il vento, uniamoli alla vertigine prodotta della
consapevolezza di essere protagonisti (di un fare, di un fabbricare a nostro piacimento) di una eccezionale trasgressione (colpire il Cuore di Dio con il sensualismo, espressione tipica del satanismo) ed otterremo gli scenari sui quali la pornografia, spero di sbagliarmi sonoramente, si eserciterà nel prossimo futuro.
Ce lo ricorda Ignacio Ramonet «Gli avvenimenti che producono immagini forti, come violenze, guerre, catastrofi e sofferenze prendono dal quel momento il sopravvento nell’attualità: si impongono sugli altri soggetti anche se in assoluto la loro importanza è secondaria. Il conflitto emozionale che producono la immagini televisive e soprattutto quelle di pena, di sofferenza e di morte non si può nemmeno paragonare a quello che possono produrre gli altri mezzi d’informazione» (6).

In conclusione; dopo aver denunciato il prometeismo dell’algenista e con la sua figura, usata da sfondo, invitato il lettore a riandare con la mente al punto cui è pervenuto il prometeismo attuale, la clonazione dell’essere umano, mi è sembrato convincente rifarmi alla nostra tradizione filosofica, rileggere lo spirito umano alla luce di essa e ipotizzare che alcune modalità d’attacco a quel tipo d’uomo siano eseguite mediante sollecitazioni prevalentemente televisive destinate ad aver successo ogni volta che dimentichiamo di cercare il vero e praticare il bene quando, cioè, dimentichiamo le nostre profonde radici cattoliche e l’incrollabilità della nostra Chiesa costruita su basi
eccezionalmente solide come quelle greco-romane.

E per finirla alla mia maniera devo ricordare a me stesso che i superclonatori sempre all’avanguardia, autorizzati dai governi e benedetti dalle loro opinioni pubbliche anglicane, sono, vivaddio, «les angles».
Di una «intelligenza emotiva» (in negativo) vi dirò un’altra volta.

Giuliano Rodelli



1) Franco Cardini, «Non sto né coi terroristi né con Sharon», in Libero, 6 dicembre 2001.
2) Jeremy Rifkin, «Il secolo biotech», Baldini e Castoldi, 1998, pagine  67 e seguenti.
3) Orsola Nemi, In presentazione a Marcel de Corte, «L’intelligenza in pericolo di morte»,
Volpe, 1973, pagina 6.
4) Ibidem, pagina 8.
5) Armand Mattelart, «Come è nato il mito di internet», LeMonde-archivio, settembre-2000, 0009lm30.01.html
6) Ignatio Ramonet, «La tirannia della comunicazione», Asterios, 1999 pagina 30.


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