...e continuano: la Bronco-Pneumopatia-Cronica-Ostruttiva
Adolfo Di Bella
19 Marzo 2011
«Preferisco i malvagi agli imbecilli: almeno i primi, ogni tanto, si riposano» (A. Dumas figlio)
Iniziamo questa terza parte attingendo alla fresca cronaca, che segnala come continuino imperturbabili comportamenti e strategie che abbiamo già passato in rassegna. Stesso copione: un’altra patologia inventata, col suo bravo acronimo ed il rimedio già scodellato, in omaggio al curioso costume della ricerca, e che sarebbe più semplice presentare la nuova gemma del genio farmaceutico quale rimedio per malattie già conosciute: ma cari amici, laddove la logica scientifica sembra risentire di uno scambio funzionale tra cervello e glutei, le uniche ragioni che contano sono quelle del cuore (di Wall Street). Dove andrebbe a finire la forza d’impatto dell’azione di marketing? E poi, vogliamo proprio far sprofondare l’Era della Scienza ai livelli del tempo in cui farneticavano empiriconi come Pasteur e Koch, e si blaterava di rabbia, carbonchio, tubercolosi?
Ma rientriamo nei binari. Una malattia che suoni il campanello dei potenziali acquirenti e porga con mano guantata il proprio biglietto da visita, istoriato da un altisonante BPCO, Bronco-Pneumopatia-Cronica-Ostruttiva, lascerà a bocca aperta il buzzurro onorato da cotanto personaggio. Un po’ come accadeva qualche secolo fa, di fronte a personaggi dalle ricche vesti, spadino al fianco, cappello con piume da far trascolorare d’invidia un pavone e, soprattutto, una lunga lista di titoli nobiliari che richiedeva lunghi minuti per essere sciorinata per intero. Volete mettere le borghesuccie colite, ulcera, emorroidi con la sangueblu Bronco-Pneumopatia-Cronica-Ostruttiva, che impegna la pronuncia quasi come la celebre sopra la panca la capra campa/sotto la panca la capra crepa? E che figurone fa il medico che spara questa complessa diagnosi con disinvoltura, rapidamente, guardando il paziente di traverso e con gli occhi semichiusi dal disprezzo, come a dirgli: Pezzo d’asino! Cosa vuoi capire tu di queste cose, ignorante come sei?». Il fine di abbindolare il cliente, fargli credere si tratti di una nuova malattia prima sconosciuta, ma oggi identificata e curabile grazie ai progressi della ricerca, appare evidente.
Ed ora la solita domanda da plebeo semianalfabeta: ma che è ‘sta Bronco-Pneumopatia-Cronica-Ostruttiva-BPCO? Coscienti del nostro abbrutimento culturale, ce lo facciamo spiegare da numi della scienza: «La BPCO è caratterizzata da mancanza di respiro, tosse cronica e un’eccessiva produzione di muco. Occasionalmente si verificano casi di notevole peggioramento dei sintomi, denominati esacerbazione o crisi polmonare, che possono durare più settimane. La respirazione viene gravemente compromessa e i pazienti possono avere bisogno di ricovero ospedaliero. Le esacerbazioni sono eventi traumatizzanti, che comportano un maggiore stato d’ansia del paziente, un peggioramento dello stato di salute, un calo della funzionalità polmonare e un maggior rischio di morte».
Dopo gli scongiuri di rito - i più efficaci dei quali sono notoriamente quelli localizzati ad hoc - emerge che non si tratta di una patologia, ma di una serie di sintomi propri di uno stato di infiammazione la cui genesi (la questione è sempre la solita...) può essere quanto mai variegata: fumo, malattie professionali, inalazione di polveri, stati enfisematosi, bronchiti mal curate o cronicizzate da eccessi antibiotici, e così via. Altro che... esacerbazione polmonare!
Una delle cose che non pochi medici sembrano ignorare - approfondiamo l’argomento data la diffusione di patologie bronchiali - è che sia sulla mucosa nasale che sull’epitelio interno del polmone sono disseminate cellule ciliate, così denominate per la loro foggia, pensata da un Tale che prima di creare l’uomo non aveva pubblicato statistiche truccate né ideato acronimi. Le cellule ciliate, per la loro stessa struttura, provocano un movimento convettivo dell’aria inspirata, inducendo un flusso non laminare, ma rotatorio. Forse qualche farmacologo o luminare istituzionale criticherà il Padreterno per questa bizzarria, ma il risultato è evidente per tutti coloro la cui scatola cranica non sia stata svuotata di materia grigia per far posto a certe benigne elargizioni: basta pensare che un tubo di gomma, poggiato su una superficie predeterminata, risulterà molto più lungo e voluminoso se arrotolato su se stesso anziché steso bello dritto. Questo significa che l’atto inspiratorio fa affluire una quantità d’ossigeno cospicua, a tutto vantaggio del risparmio nella frequenza respiratoria e di un minor logorio dei polmoni e delle strutture dedicate al loro movimento. In breve: si campa di più e meglio. Pur nella rudimentalità della nostra esposizione, questa, gentili lettori, è Fisiologia. Gli antibiotici, specie se usati impropriamente e per tempo prolungato, uccidono le cellule ciliate, creando col tempo le premesse per un’insufficienza respiratoria e turbe cardiocircolatorie. Basterebbe non incaponirsi a trattare forme virali come fossero batteriche ed usare, fin quando possibile, sostanze come lisozima, vitamina C, vitamina A - totalmente innocue nei dosaggi consigliati, eutrofiche e non inventate da qualche Sir Girolami, ma da quel Tale di cui parlavamo sopra - per eliminare buona parte di situazioni prese golosamente a pretesto per creare la cosiddetta BPCO.
La solita aberrazione - dunque - di confondere (o voler confondere) manifestazione di un male (sintomo) con malattia. La tragedia - per i Girolamini ed i beneficati dai droghieri del farmaco - sarebbe che si risalisse alla causa, e si affermasse (o meglio: si riaffermasse) quella mentalità medico-scientifica, sapientemente obnubilata negli ultimi decenni, che mira a rimuovere l’effetto rimuovendo la causa. Infatti, se il medico stacca la spina dalla cultura che ha il dovere morale di possedere ed arricchire incessantemente, e come i cavalli che trascinano le poche romantiche carrozzelle rimaste si riferisce alla limitatissima visuale consentitagli dal paraocchi delle Linee-Guida, farà gli interessi di chi dall’interesse soltanto è mosso. In altre parole: il farmaco xy non risolverà mai la patologia, ma darà (e non sempre) quel po’ di sollievo che basta a farlo acquistare da chi avverte un disturbo; e poi riacquistare, e così via. Cosa che non accadrebbe se risolvesse la causa del disturbo. Questa è una delle colonne portanti degli utili dell’attuale mondo farmaco-medico-sanitario e dello sconfinato potere abbinato.
Ma è scomponendo l’acronimo che emerge la parola magica: l’ggettivo cronico!!! Mai risolvere le malattie, ma cercare di prolungarle, cronicizzarle, o farle considerare croniche. Al tempo stesso - attenzione perché è un punto cruciale - produttori di farmaci e salmerie al seguito faranno di tutto perché venga tacitato, con le buone o le cattive, chi parla di cause di determinate patologie, e di tutto farà perché nessuno possa disporre delle sostanze in grado di risolvere davvero queste cause, nessuno possa rendere note e praticare acquisizioni scientifiche ed applicazioni terapeutiche capaci di scronicizzare i disturbi e guarire (o cercare di guarire) certe patologie. Questa è la storia della lotta feroce, rabbiosa, da bava alla bocca - lotta di un Golia vigliacco e tremebondo - condotta contro la Fisiologia, la corretta concezione di Scienza, la pratica medica secondo Scienza e Coscienza, le vitamine, tante sostanze fisiologiche, farmaci vecchi ma insostituibili ed innocui, e chi basa sulla scienza e non su editti e linee-guida un moderno approccio a tanti mali che affliggono l’manità: in particolare al problema cancro. Ma ne parleremo a conclusione di questi nostri scritti.
Quello che, per ora, ci preme sottolineare è come tutto l’Apparato attacchi, come fosse un esercito schierato, con entrambe le ali, ed applichi contemporaneamente due strategie: una, palese e urlata al megafono, attuata attraverso l’infiltrazione nei poteri governativi e nella società e diretta a suffragare un’accezione di scienza che poco con la scienza ha a che fare, molto col denaro; una seconda, silenziosa, occulta, a quota periscopica, da novella Santa Inquisizione alla ricerca di eresie ed eretici, diretta a censurare, impedire, perseguitare, oscurare e, se qualche cavallo scappasse dal recinto, esecrare, calunniare, ridicolizzare. Oggi, per giunta, si fatica meno di un tempo: spesso basta ignorare e far ignorare, attendendo che la gracile logica, la labile memoria della gente e la seguente alata filosofia facciano il resto: ne parla la tv?... ahhhh, allora dev’esser vero; non ne parla affatto??? Come pensavamo: era tutta una fola.
Quanto diremo, a chiusura dell’argomento BPCO, ci sembra comunque segnali difficoltà un tempo più rare, quando non inesistenti, nella sfilata sotto l’arco di trionfo delle vendite. Di primo acchito non si scorge alcuna traccia, alcun effetto delle critiche severe al malcostume farmaceutico sollevate da ricercatori e medici moralmente integri, ed i tanti articoli o libri di denuncia cui fatto prima cenno parrebbero sfoghi improduttivi di idealisti che si sono illusi di poter cambiare il mondo. Ma forse qualcosa sta cambiando davvero.
Il Roflumilast, specialità Daxas, è stato prodotto dalla Nycomed per il trattamento della BPCO.
Ovviamente - come da copione – c’è stata la consueta campagna preparatoria, con dati e statistiche estratti dal cilindro (il 5% degli italiani sarebbe interessato dalla neosindrome, i morti sarebbero 20.000 all’anno nel mondo...); gli studi sono stati pubblicati sul Lancet nell’agosto 2009 e comunicati il mese dopo a Vienna al congresso annuale della ERS (European Respiratory Society). Ma non tutto è andato liscio come altre volte. Anzi, all’inizio le cose sembravano mettersi maluccio, dato che il Panel della FDA aveva votato contro l’approvazione del farmaco. Nycomed è una multinazionale con sede centrale a Zurigo, con un fatturato di appena 3,2 miliadi di € nel 2009, ma una gran voglia di fare meglio. Ha pensato fosse opportuno siglare un accordo con la Merck (fatturato: $12,1 miliardi) per il Daxas, e di puntare comunque sul mercato europeo. E qualche maligno potrebbe leggervi un nuovo corso, diretto a non indisporre il governo insidiando troppo la salute degli americani, sempre più sospettosi nei confronti di Big Pharma, ma propinare le ultime porch... - scusate - i farmaci più recenti agli indigeni delle colonie che compongono il vecchio continente: a noi, ascari bianchi. D’altronde la storia insegna come i nipoti dello zio Sam siano sempre stati bravi a declamare sacri princìpi ed ancor più ad imporli con la pelle altrui. Sia come sia, il farmaco alla fine è stato approvato dalla EMA (corrispondente europeo della FDA), ma con scarso entusiasmo e tutta una serie di specifiche limitative, dubbi e raccomandazioni, mentre il SMC (Scottish Medicines Consortium) ne ha sconsigliato l’impiego senza mi e senza ma. Quanto agli effetti collaterali più comuni (diarrea, nausea, cefalea, perdita di peso), si ammette che non sono ristretti a pochi soggetti con criticità peculiari, ma che appaiono più frequenti del desiderabile.
Tutto qui? Pare di no, dato che nei documenti ufficiali della EMA si parla di «… rischio di disturbi psichiatrici come insonnia, ansietà, depressione nei pazienti che assumono Daxas e con potenziale rischio di suicidio. Da qui, la necessità di valutare attentamente il rapporto rischio-beneficio di questo trattamento nei pazienti con sintomi psichiatrici pre-esistenti o con una storia di depressione e di informare i pazienti di riportare qualsiasi cambiamento nel comportamento, nell’umore ed ogni ideazione di suicidio. Daxas non è quindi raccomandato in pazienti con una storia di depressione associata a ideazione o comportamento suicidario». E poco oltre: «… potenziale rischio di tumori maligni e la mancanza di esperienza in pazienti con una storia pregressa di cancro. Il trattamento con Daxas non deve essere iniziato o deve essere interrotto nei pazienti affetti da cancro (eccetto il carcinoma delle cellule basali)». Per non tralasciare nulla, occorre considerare anche il «... potenziale rischio di infezioni: il trattamento con Daxas non deve essere iniziato, o deve essere interrotto, nei pazienti con problemi di infezioni acute gravi. L’esperienza limitata in pazienti con infezioni latenti come la tubercolosi, l’epatite virale o le infezioni da herpes». Per non fare torto ad alcun aspetto, si rileva anche come un motivo di prudenza sia costituito da «... informazioni limitate o mancanti nei pazienti con insufficienza epatica. Daxas è controindicato nei pazienti con insufficienza epatica moderata o grave... i dati clinici sono considerati insufficienti per consigliare un aggiustamento della dose e quindi bisogna osservare cautela nei pazienti con moderata insufficienza epatica».
Cari lettori, converrete che la nostra non è polemica pretestuosa: qui c’è veramente - a sfuggire l’accusa di maschilismo discriminatorio - da rigirarsi tra le dita quei gingilli comuni nel Meridione e raffiguranti un gobbetto, indice e mignolo protesi, cilindro in testa e un corno al posto delle gambe...
Non mancano - doveroso riferirlo per completezza - elogi del farmaco e minimizzazioni degli effetti collaterali da parte di augusti cattedratici, anche nostrani. Ma in questo campo ed in simili ambienti, bisogna meravigliarsi solo di meravigliarsi ancora di qualcosa.
I farmaci blockbuster, affari e malaffari
Prima di andare a constatare come né la tarda età né l’infanzia riescano ad innestare rudimenti di scrupolo morale nei mercanti di pillole, è tempo di parlare dei cosiddetti farmaci blockbusters. Con questa terminologia si designano i farmaci campioni delle vendite: come si trattasse di detersivi, autovetture, televisori coinvolti in una gara a chi ne piazza di più e più guadagna. Già questa dichiarata aspirazione al primato la dice lunga su fini, morale, idealità delle case farmaceutiche e mette di fronte anche gli ottimisti (spontanei o a cottimo) di fronte ad un’evidenza incontestabile.
Sostanzialmente questo concetto, accompagnato dalla relativa terminologia gergale, nasce dai fasti Glaxo dell’era Paul Girolami ed in particolare dal famoso Zantac: farmaco tutt’altro che prodigioso e tutt’altro che immune da magagne nascoste. I pareri che contano nella politica farmaceutica non sono quelli di ricercatori e scienziati, ma quelli degli analisti finanziari. Dell’immortalato e nobilitato... Paul, il ricercatore dottor Jack, che aveva abbandonato schifato la Glaxo sbattendo la porta, disse in un'intervista: «Per parlarci chiaro, quell’uomo non ha la minima considerazione né per i ricercatori, né per la scienza ed i suoi princìpi. Gli interessa solo il denaro. Non credo gli importi di lavorare bene».
Se non interessava a Girolami, alla Glaxo ed alle altre multinazionali produrre farmaci realmente efficaci e necessari, importava ed importa ancor meno a chi investe per speculare e per governare a bacchetta il mondo intero. Marc Mayer, esponente della Sandford C. Bernstein & Co, colse bene come il nuovo corso farmaceutico fosse una miniera d’oro sia per i produttori di farmaci che per l’esercito di jene, sciacalli, vampiri, zecche, sanguisughe & affini di tutte le Borse del mondo:
«... valeva la pena investire grosse cifre in quei farmaci destinati alla cura di malattie croniche in grado di garantire un ampio margine di guadagno» dichiarò durante l’intervista rilasciata nel 1991 alla rivista Fortune. A questo din fece subito eco il dan di un’altra mignatta della finanza, analista di Morgan Stanley: «Il farmaco che negli anni ‘70 valeva 50 milioni di dollari all’anno, nel decennio successivo garantiva un ritorno dieci volte maggiore». Come nota la Petersen, «… si venne così a delineare a poco a poco una serie di strategie di vendita che gli addetti ai lavori definirono ‘modello blockbuster’. La ricetta era più o meno questa: concentrare gli investimenti finanziari e le attività di marketing sui farmaci destinati a curare malattie croniche o problemi come bruciori di stomaco, colesterolo alto e depressione».
La ricetta - pubblicità a tutto campo+malattie croniche (o rese croniche) - è stata la carta vincente per i giganti del farmaco, la carta perdente per la salute dell’umanità. I numeri, del resto, parlano chiaro: Pfitzer nel 1947 dedicava alle spese promozionali e amministrative il 6% degli incassi, cinquant’anni dopo il 40%.
Ma un altro è il punto fondamentale, il più importante di tutti, perché consente di comprendere l’anima nera della medicina contemporanea e la sua filosofia mercantilistica. Scrive l’autrice (pagina 180): «Le medicine che garantivano un migliore ritorno economico erano quelle che non guarivano da nessuna malattia, limitandosi a curarne i sintomi. Il paziente che comprava questi medicinali si trasformava né più né meno in una sicura fonte di reddito, proprio come il fumatore o l’amante del caffè espresso lo erano per la tabaccheria e il bar, contribuendo a garantire anni di considerevoli guadagni alla società produttrice».
Torniamo ad avvertire il lettore: questa è la chiave di volta e la spiegazione di linee guida, farmaci imposti, farmaci e sostanze censurate, ricerche consentite, ricerche proibite, programmi di studio universitari, stage e master di aggiornamento, commissioni ministeriali, comitati etici e di tutta la costellazione di entità che oggi possono imporre e vietare, soffocando, insieme alla civiltà scientifica, l’aspirazione dell’umanità alla salute ed al benessere.
Tanto per intenderci, un farmaco blockbuster, al tempo del conio di questo neologismo, doveva vendere almeno 500 milioni di dollari l’anno. Ora si parte da 1 miliardo di dollari (cifra che, per avere un metro di misura immediato, significa duemila miliardi delle vecchie lire), per puntare a multipli. Quindi, un blockbuster che si rispetti realizza almeno il fatturato della Ferrari auto (€1,9 miliardi Nel 2010).
I fatturati delle sette e più sorelle del farmaco raggiungono livelli inimmaginabili. Ray Moynihan e Alan Cassels, nel loro Farmaci che ammalano, parlano di un fatturato USA di 500 miliardi di dollari (circa 1 milione di miliardi di lire), superiore al PIL di parecchie nazioni, con un crescendo non solo ininterrotto, ma anche logaritmico. Dell’utile netto - senza confronti nei riguardi di qualsiasi attività economica umana - si è già parlato. Ci limitiamo ad osservare che, se da una parte il pur titanico profitto sarebbe doppio senza il costo di capillari ed endemiche corruzioni, dall’altra ungere significa investire, e non soltanto spendere, in quanto:
- assicura una vivificante rete commerciale di corrotti (cattedratici, medici, politici, imbrattacarte mediatici, testimonial, ecc.); - presidia il sistematico progresso del giro d’affari; - toglie di mezzo la concorrenza della vera ricerca, della vera medicina, di una efficace farmacopea.
Senza rinunciare volontariamente a qualche miliardo in... sacre unzioni, prima o poi si sarebbe obbligati a rinunciare a cifre maggiori di introiti. Attraverso questa politica, le chiocce del farmaco «... realizzano profitti a velocità più che doppia rispetto al resto del mercato... e... non conoscono crisi».
Ma attenzione, non esistono solo i blockbuster ma anche i mega-blockbuster! E non si tratta solo di cifre, ma del rafforzarsi di una mentalità ancor più totalizzante. Citiamo la Petersen: «La ricetta del blockbuster farmaceutico funzionava talmente bene che Wall Street si innamorò ben presto dei profitti elevati che generava. Già alla fine degli anni ‘90, per una casa farmaceutica non bastava più poter mostrare un incremento rispettabile delle vendite e dei profitti annuali. Dalle maggiori case farmaceutiche gli investitori ormai si aspettavano incrementi come minimo del 15%, se non decisamente superiori. Gli azionisti si affrettavano a punire qualunque produttore osasse deludere le loro aspettative annunciando guadagni in crescita rapida, ma comunque leggermente inferiori a quanto Wall Street si attendeva... In breve, persino un farmaco capace di vendite per un miliardo di dollari all’anno non fu più abbastanza».
Si comprende quindi l’obbligata entrata in funzione di un meccanismo automatico di pressioni incrociate. Anche qualora lo staff dirigenziale di un big del farmaco non se la sentisse di superare determinati limiti morali, non esisterebbe alternativa ad un corso ormai obbligato: un po’ come chi prima sobilla la folla e poi si trova, anche avesse cambiato idea, ad esserne sospinto e strattonato. Se non assecondi l’incendio che hai appiccato, o sei sostituito o scompari. Una delle conseguenze più gravi è che «... composti sperimentali che potevano rivelarsi provvidenziali per la salvezza di molti pazienti, ma che non avrebbero mai potuto garantire le vendite di un mega-blockbuster sarebbero stati ceduti in licenza ad altre società produttrici o abbandonati su uno scaffale a prendere la polvere». E questo è niente. Immaginiamoci cosa accade (ed è accaduto), per sostanze che non solo non rendono, ma insidiano o vanificano le mega-vendite!!! Ve lo diciamo subito: rischia di scapparci il morto. Enrico Mattei fu incidentato per affari e cifre immensamente inferiori. Anche se oggi, con il progresso delle tecniche mediatiche e l’ubiquitario controllo della società, nella maggior parte dei casi basta ignorare, isolare o mistificare.
Insieme ai blockbuster, veri purosangue, assi ed orgoglio dei farmaco-Arpagoni, trainano il carro migliaia di tozzi e robusti cavalli normanni, che assicurano un profitto unitariamente meno clamoroso, ma da non buttar via. Se i plebei criniti portano a casa meno soldi, si tratta comunque di soldi tanti e sicuri, e che non costano nulla; in secondo luogo non bisogna dimenticare come diversi di questi abbiano dei magnifici effetti collaterali che, diagnosticati per malattie autonome e non da farmaco, provocheranno una domanda di altri farmaci per combattere (o far finta di combattere) mali indotti da loro colleghi. Basti pensare al sinergismo aspirinetta-gastoprotettori. Un’aspirinetta al giorno toglie l’arteria di torno. Basta aver avuto episodi di ipertensione, qualche problema circolatorio, e portarsi almeno una decina di lustri sulle spalle. Il bello (si fa per dire) è che non si tratta di prescrizioni temporanee, ma sine die. La sclerotizzazione arteriosa, che giunge inesorabile col tempo, frutterà tanti esami diagnostici e tante capsuline multicolori, particolarmente abbondanti se, con l’aiuto dell’età avanzata e di inflessibili giornalieri diuretici, si potrà contare su succulenti sintomi di arteriosclerosi e, con un po’ di fortuna, sull’induzione o accelerazione di quel pozzo senza fondo che è l’aureo Alzheimer. Niente di male per le specialità povere ed infeconde, dalle mammelle rinsecchite: c’è sempre tempo per pensionarle e magari sostituirle quando, arruolato qualcuno dei luminari che scalpitano per farsi ungere, assemblato qualche studio da pubblicare su riviste compiacenti, scoperta una nuova malattia, si varerà finalmente un nuovo farmaco-transatlantico dagli oblò sfavillanti, sulla cui prua qualche coniglietta di Play Boy manderà a rompersi una bottiglia di champagne, tra lacrime di Girolamini commossi e gli evviva degli investitori di Borsa.
Timonieri, farmaci fotocopia e prezzi gonfiati
Non è stata certo l’indisponibilità di validi ricercatori a determinare la mediocre efficacia di tanti farmaci, né, tantomeno, sono stati defatiganti itinerari sperimentali a provocare prezzi elevati. Ne sia la prova il caso del dottor James W. Black, che già nel 1958 aveva individuato una formula utile ai malati di angina pectoris e, nei sei anni successivi che lo avevano visto lavorare per la società chimica inglese ICI, aveva realizzato i betabloccanti. Black sarebbe stato insignito di uno dei pochi Nobel meritati dei tempi moderni, ed avrebbe successivamente realizzato un farmaco antiulcera, il Tagamet: e qui ci ricolleghiamo ad una vicenda della quale ci siamo precedentemente occupati, quella dello Zantac. Lo Zantac, in sostanza, era una fotocopia del Tagamet, ma con il sex appeal di un prezzo superiore del 50%! Si tratta solo di un episodio, che si perde tra miriadi di altri analoghi, che dimostra quanto siano ingiustificati molti prezzi di specialità e sia un alibi falso quello dei costi della ricerca. La prassi dei farmaci-fotocopia (così definiti da diversi studiosi, tra i quali la professoressa Angell) è veramente endemica. Non, purtroppo, l’onestà di ricercatori come Black, il quale attribuì al lavoro di R. Ahlquist il merito della scoperta dei betabloccanti, nonostante si trattasse di un lavoro che lo aveva illuminato e non di un plagio brutale. Ma la Glaxo, produttrice del leggendario Zantac, come era arrivata alla sua dorata specialità? In un modo molto semplice: parassitando le idee di Black. Infatti ad un ciclo di lezioni tenuto dallo scienziato, era presente il dottor David Jack, capo del dipartimento ricerche della Glaxo, il cui parere caustico su Girolami abbiamo riportato prima. Il gigante britannico cominciò a seguire ricerche e progressi di Black e dei suoi collaboratori e, al momento opportuno, scodellò lo Zantac, la cui formula differiva da quella del Tagamet quel tantino sufficiente a non violare il brevetto. Fu lo stesso Jack - come riferisce Independent del novembre 1991 - a spiegare che la creazione del formidabile blockbuster Glaxo aveva richiesto più o meno lo «... stesso tempo rispetto a quello necessario a risolvere un problema di chimica»: alla faccia di Black, aggiungiamo noi. Costume del resto non confinato al plagio di farmaci, ma anche a quello - tentato o consumato - di idee.
Al di là di valutazioni negative ed esecrazioni, è la realtà delle cose che svela gli effettivi retroscena e suffraga una visione critica dell'agire delle case farmaceutiche. Tre esempi che non abbisognano di commenti: nel 2001 la guida della Bristol-Myers Squibb fu assunta da Peter Dolan, la cui summa di cultura scientifica era rappresentata dalla proposizione di uno snack alla cioccolata prodotto da General Foods; la Novartis nel 2000 affidò la gestione totale dell'azienda a Thomas Ebeling, già responsabile marketing della Pepsi; Randall Tobias, stratega della Pfitzer, era dirigente nella azienda telefonica AT&T. Quindi, tra snack, pepsi-cola e telefoni, si raggiunge il top della scienza. Bene prenderne nota.
Qualche lettore avrà sicuramente osservato come tutto questo poema di truffe da baracconi è stato scritto in assenza di reazioni governative. La cosa non può non suscitare forti perplessità e giustifica qualcosa di più. La celebrata, mitica F.D.A., Food and Drug Administration, la cui evocazione piega il ginocchio di ossequiosi ratti d’ateneo e di farmacologi a gettone, sembra tutt’altro che stagna a pressioni e colonizzazioni. Tanto per cominciare, non ha mai preteso la prova che un nuovo farmaco sia più efficace, e con le stesse o minori controindicazioni, di analoghi già in circolazione: e già questo non ci pare poco. D’altra parte, come meravigliarsi, dato che le prove comparative - che già di per sé farebbero venire il mal di stomaco per le risate ad un cavallo - vengono effettuate tra il farmaco ed un placebo e non tra il farmaco e un concorrente? Abbiamo detto in premessa che ci atterremo ai fatti, e quindi di fatti parliamo. Il Center for Drug Evaluation della FDA, nei tre lustri intercorrenti fra il 1990 ed il 2004 ha autorizzato l’immissione in commercio di 1.100 farmaci, solo 400 dei quali non spudoratamente ed evidentemente pantografati su altri preesistenti. Ma, come se ciò non bastasse, la maggioranza di questi non costituiva un miglioramento effettivo rispetto ai farmaci pensionati: la Petersen, esaminando con attenzione i documenti FDA, conclude che solo 183 dei nuovi - appena il 16% del totale - potevano ritenersi una novità di rilievo rispetto al passato.
Ma vi sono incontrovertibili conferme di queste stime. Nel 1994 il dottor David Kessler, alto esponente della FDA, pubblicò insieme ad altri quattro colleghi un articolo sul New England Journal of Medicine (allora diretto dalla professoressa Marcia Angell) sul malcostume farmaceutico. In questo articolo gli autori parlarono di frenesia promozionale dei produttori di farmaci, derivante dalla consapevolezza che i prodotti immessi in commercio erano «… virtualmente indistinguibili gli uni dagli altri»; solo «... una minoranza dei 127 nuovi medicinali approvati fra il 1989 ed il 1993... aveva dimostrato di poter offrire un qualche miglioramento rispetto ai farmaci già in commercio. Le case farmaceutiche sfruttavano la promozione per far credere che i nuovi farmaci fossero in qualche modo diversi e utili».
Un incidente di percorso riguardante un dirigente di una società farmaceutica offrì una conferma di prima mano di questa realtà: si trattò di una nota redatta - ovviamente - per uso interno. Eccone un passo: «... non sono ammessi errori a riguardo: lo studio sul... (seguiva il nome del farmaco) è la più importante iniziativa di vendita in programma per il 1993. Durante la fase I, 2.500 medici lo somministreranno ai loro pazienti... mantenendo sotto controllo la loro pressione... Grazie al (nome del farmaco) … se almeno 20.000 dei 25.000 pazienti coinvolti nello studio continueranno ad assumere il..., le vendite potranno raggiungere quota 10.000.000 di dollari. Nel corso della Fase II questa cifra dovrà raddoppiare».
Dopo che Kessler lasciò l’incarico all’interno della FDA, gli subentrò un oncologo, Michael Friedman, che allentò le già lente restrizioni sulla pubblicità dei farmaci e spalancò a questa il potente mondo della promozione televisiva. Friedman sarebbe passato successivamente alla vicepresidenza di una casa farmaceutica... e... vissero tutti felici e contenti.
Il citato Jones, nel corso dell’udienza promossa dal senatore Kennedy (ne abbiamo parlato in una precedente parte di questo scritto), condensa in poche rabbrividenti righe la logica dei prezzi e lo spirito criminale (non si può definire altrimenti) dei produttori di farmaci: «Come minimo si valutano le alternative di cui il malato dispone: il prezzo sarà direttamente proporzionale alla disperazione ed alla sofferenza del paziente e inversamente proporzionale al numero di alternative a disposizione. Intorno a questi argomenti si svolgono normali discussioni che riguardano virtualmente ogni farmaco in commercio».
Uno dei tanti esempi di questa filosofia inqualificabile venne riferito dallo stesso Jones. I dirigenti della Abbott Laboratories (fatturato di circa 31 miliardi di US$) fecero una bella pensata per risolvere un problema di liquidità a breve termine: sfornarono una specialità per la cura della SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), malattia degenerativa sempre letale e crudele, pur sapendo in partenza che era totalmente inefficace, in quanto «... i medici avrebbero impiegato circa sei mesi per verificare l’inefficacia del farmaco sui pazienti, il che avrebbe consentito alla società di incassare milioni di dollari, nonostante la scarsa diffusione del morbo... fu questo il motivo che spinse Abbott a far pagare il medicinale... circa 10.000 dollari a paziente…». Il prezzo elevato venne giustificato dalla società con l’indisponibilità di tecniche automatizzate; ma quando i tecnici annunciarono che avevano trovato il modo di ridurre ad un quinto il costo di produzione, i dirigenti dissero che «... non c’erano ragioni per abbassare il prezzo e di non preoccuparsi, perché ci sarebbero sempre stati dei vicini caritatevoli, pronti ad organizzare vendite di beneficenza per raccogliere il denaro necessario ai malati di SLA. Le persone convocate a quella riunione erano sotto shock». La conclusione di Jones fu che «... ogni società si impegna a fondo per nascondere ciò che in realtà sta facendo. Queste aziende vivono di truffe legalizzate».
Che non fosse una visione malevola di Jones emerse poi da parecchi altri elementi e da testimonianze analoghe.
A questo punto dovrebbero essere chiare molte delle strategie correnti adottate da Big... ma anche Little Pharma, perché i cattivi esempi fanno più proseliti di quelli buoni: specie quando questi ultimi sono accanitamente oscurati. Un flash tutto nostrano (e del quale c’è sicuramente poco di che andar fieri) conferma, oltre alla extraterritorialità della filosofia d’azione, almeno tre cose: quanto rende fabbricare farmaci - come manchino (o vengano dolosamente omessi) i controlli statali - che l’appetito vien mangiando; per cui, oltre alle truffe di prammatica, non si rinunzia anche a quelle fiscali. Il Gruppo Menarini è il primo in Italia, il quindicesimo in Europa ed il trentacinquesimo del mondo, riferiscono giornali economici nazionali. Ma abbiamo dubbi in proposito, dato che il fatturato 2009 ha sfiorato appena i 3 miliardi di €. Sia come sia, nel novembre 2010 Carabinieri dei NAS e Guardia di Finanza hanno sequestrato beni per un miliardo e 212 milioni di euro, frutto di una truffa a danno del Servizio Sanitario Nazionale, perpetrata fin dal 1984 gonfiando prezzi di farmaci forniti a questo. L’ingente somma, per la cronaca, era occultata all’estero con un collaudato sistema di scatole cinesi e la gentile collaborazione di paradisi fiscali. E se è lecito pensare che tale cifra riguardi solo i beni rintracciati, lo è ancor di più chiedersi come mai le nostre istituzioni farmaco-sanitarie - efficientissime quando si tratti di acquistare stock di vaccini inutili o dannosi - non si siano accorte di nulla in ventisei anni di fregature sistematiche rifilate loro, cioè a noi, dato che i soldi dello Stato non sono altro (o così dovrebbe essere) che i nostri. Ma a chi puntasse il dito contro il nostro Paese, potremmo rispondere che chi è senza FDA scagli la prima pietra.
Invece di continuare con elencazione di casi, basterebbe convenire del perfetto analogismo tra produzione consumistica e produzione di farmaci, affratellati dalla stessa filosofia e dall’identico appetito di guadagno: un appetito insaziabile da Pantagruel che esige soddisfazione totale, rapida e facile. Come le dispense si sono riempite di ogni genere commestibile, le case di ogni genere di apparecchiature elettroniche preferibilmente inutili, così gli armadietti dei farmaci straripano di pillole, capsule, supposte, fiale, fialette, sciroppi. E’ il consumismo della salute, tutt’altro che disinteressato, come quello deputato ad altri aspetti dell’esistenza, ma con ben diverso impatto sulla nostra vita. E le analogie non si fermano qui. Basti pensare al sofisticato tecnicismo costruttivo finalizzato a minare la durata degli oggetti, al quale si affianca l’esasperante pubblicità diretta a far apparire superato ed anacronistico quanto acquistato in tempi non recentissimi. Il farmaco, fabbricato prevalentemente per incidere (nel migliore dei casi) sulla malattia senza risolverla e che, anche se valido, viene sostituito da altri di nuova generazione che nuova magari non è, segue la stessa traccia. Dal che, non solo facile, ma obbligata, emerge la concezione praticata dalla società contemporanea: il malato-oggetto, il paziente-cliente, l’essere umano fattore di reddito.
Da quanto riportato in queste pagine risulterà ormai chiaro come la libido degli sputa-farmaci guardi con fosca concupiscenza soprattutto alle malattie croniche, che assicurano redditi corposi perché gonfiati e corposi perché costanti.
Erode è tornato
Per brevità, tralasciamo tutta quella nebulosa di specialità conculcate speculando sull’ansietà istintiva per la propria salute (disturbi gastrointestinali, problemi relativi all’attività sessuale, ecc.), ed i (ne)fasti dell’esasperata (e redditizia) tecnologia diagnostica impotente a raggiungere il cercine di tutta la medicina, quello che Luigi Di Bella definiva «il tratto quasi divino dell’arte medica»: la diagnosi. Intendiamo riferirci alla variegata famiglia dei tratti caratteriali di ognuno e dei comportamenti che ne conseguono, a volte primigeni, altre derivati dall’educazione ricevuta e dall’esperienza di vita ricavata: il mondo inafferrabile della psicologia umana e, in particolar modo, di quella infantile.
Era una tentazione troppo grande tuffarsi in un campo nel quale è difficile contestare una diagnosi, specie da parte dei più ingenui, e nel quale si poteva contare sull’emotività e la istintiva insicurezza dei genitori. Decisive, nel consentire questa ennesima mistificazione e (qui bisogna parlar chiaro) opera criminale, due delle piaghe del nostro tempo: la progressiva descientificazione della medicina ed il suo inquinamento da parte di professioni empiriche. Da una parte, l’oblìo doloso disceso su fisiologia e neurofisiologia ha fatto compiere alla medicina un passo indietro di secoli, vanificando acquisizioni dovute all’impegno e alla genialità di tanti ricercatori; dall’altra, sono stati parificati alla logica scientifica teoremi indimostrabili, come quelli propinati dalla psicologia e, peggio ancora, dalla psicanalisi. Questo irrazionalismo diffuso, che costituisce una delle incoerenze ed assurdità della pretesa epoca della scienza, ha trovato un sinergico e favorevole terreno nella diseducazione collettiva, nell’indotta paralisi della logica e del ragionamento, nella lotta senza quartiere a quella tutela dell’infanzia e dell’adolescenza prima assicurate dall’educazione familiare e scolastica.
Il risultato è stato di abbattere quel diaframma prezioso, quella blindatura che proteggeva le nuove generazioni dal mercantilismo senza limiti e dall’immoralità montante. Ecco quindi la progressiva trasformazione in malattie di timidezza, introversione, vivacità, svogliatezza, sensibilità, carenza di volizione, e perché no - diciamoci tutta la verità - scarsa intelligenza, e, concomitante con questa trasformazione, l’impiego di farmaci per rimediare a caratteristiche o difetti caratteriali immutabili, ovvero a transitorie situazioni ovviabili con la naturale maturazione o con la correzione da parte di genitori e/o insegnanti. Per essere più precisi, parliamo degli psicofarmaci: salvo casi del tutto particolari sempre e comunque deleteri, impropri, forieri di danni il più delle volte irreversibili e di un asservimento moralmente ripugnante, ma commercialmente prodigioso. Il tema è di una complessità immensa, riguarderebbe una intera concezione della vita che si è andata formando in questa disgraziatissima epoca e non solo un aspetto sanitario: ma trattare di questo argomento ci porterebbe lontano. Suggeriamo solo spunti di riflessione che ognuno può individualmente elaborare e conseguenzializzare. Così sarebbe opportuno pensare alla strettissima parentela tra lassismo - a livello legale e di promossa tolleranza sociale - nei confronti della droga, e ricorso, senza risparmio, a questa classe di farmaci: dei quali tristi fenomeni è legittimo supporre l’esistenza di un finalismo che non può non evocare gli inquietanti scenari del 1984 di George Orwell. Gli psicofarmaci, in buona sostanza, non sono altro (nella maggior parte dei casi) che droga legalizzata e prescrivibile.
Altrettanto potrebbe dirsi a proposito dell’abdicazione, così procurata, alle difficoltà della vita e alla diseducazione collettiva che fa assistere ad innumerevoli episodi di resa, di fuga dai problemi, di svirilizzazione dei giovani, pronti a diversivi pur di non affrontare le situazioni e superare gli ostacoli, di delegazione ad altri e ad altro di nodi che solo il singolo può e deve sciogliere. Una folla di ragazzi, potenzialmente ricchi di doti umane ed intellettive, che vagano smarriti, boccheggianti, privi di appigli, riferimenti, esempi, validi aiuti: prede predestinate di chi tutto vuole aggiogare e sfruttare e di quanti vedono nell’individuo il nemico da contrastare, nella massa amorfa il naturale alleato dei propri squallidi ed infami disegni. E ancora: la tendenza immorale ed antiscientifica di aggirare le situazioni invece di studiarle e risolverle, imbellettando i malati e riconsegnandoli - fantasmi senza luce, né volizione, né affettività, né consapevolezza - ai propri cari. La Medicina dell’apparenza che punta a mantenere malati i malati, a nascondere gli inevitabili insuccessi dietro statistiche da gioco dei tre bicchieri e sfruttare sofferenza e morbilità allo stesso modo in cui un tempo si setacciava la sabbia dei fiumi in cerca di pagliuzze d’oro. Ma questo è oro rosso.
Un caso apparentemente lontano, ma in realtà strettamente imparentato, ci vide testimoni di questa mentalità dell’apparenza una quarantina d’anni or sono. Due chirurghi, senza finalità eversive, ma per amor di fama e - si va a finire sempre qui - scarsissima dimestichezza con la neurofisiologia, ebbero un momento di celebrità quando introdussero in Italia la vagotomia, intervento col quale ritenevano di avere risolto il problema dell’ulcera gastrica. In occasione di una conferenza, dopo salamelecchi e bizzeffe di esimi colleghi da parte della baronale colleganza, dovettero assistere alla demolizione, impietosa, del loro teorema.
«Nella giustificazione della vagotomia si è posta in particolare risalto l’ipercloridria nell’etiopatogenesi dell’ulcera gastrica, e si è data importanza alle sparute fibre eccito-secretorie del vago, dimenticando la criticabilità di una delle dimostrazioni dell’azione di queste fibre, quella cioè degli abnormi parametri di stimolazione. Lungo le fibre del vago, non solo toracico, ma anche addominale, vi sono neuroni non solo sensitivi, ma anche vegetativi... la vagotomia sottodiaframmatica è a mio parere una deconnessione vegetativo somatica... molti operati vivono e stanno ‘bene’; come non male stanno, finchè la malattia non ha progredito notevolmente, i siringomielici, i tabetici, eccetera. Credo che questi esempi dovrebbero saggiamente ammonire e suggerire complementi di studi prima di pentirci forse un domani in ritardo!».
In poche parole: il paziente veniva operato e non avvertiva più la sgradita sintomatologia precedente, per il semplice fatto che i segnali non partivano più, essendo stata resecata la linea telefonica... Peccato che, insieme ai sottili fili dei segnali in partenza, fossero stati tagliati anche i grossi di quelli in ingresso, di importanza vitale perché neuromotori. Il malato usciva radioso ed in posizione eretta dall’ospedale; salvo uscirne in posizione supina al primo scontato nuovo ricovero. Questa contestazione venne mossa ai due chirurghi dal professor Luigi Di Bella, al termine di una trionfale conferenza tenutasi nel 1968 al Policlinico di Modena. I due medici, alquanto mortificati, ebbero comunque la correttezza di scusarsi pubblicamente con il fisiologo, tra stizza e digrignar di denti degli azzimati cattedratici che li avevano applauditi fino allo spellamento delle mani ed all’orrenda figuraccia finale. E di vagotomia non si parlò più, specie dopo che lo scienziato comunicò la sua opinione in un congresso internazionale a Bruxelles (Seance extraordinaire de la Societè Belge de Gastro-Enterologie, 29 settembre 1968: La secrétion chlorhydrique de la muqueuse isole de rat vagotomisé ou non).
La filosofia d’azione degli psicofarmaci ci sembra esattamente la stessa. Con, in più, sinistri ed allarmanti risvolti.
Trattando dello sfruttamento dell’infanzia, occorrerebbe passare in rassegna l’indecente ed interessato abuso che è stato e viene fatto delle vaccinazioni. Il tema obbligherebbe ad una trattazione troppo estesa per la forzata economia di questo scritto ed inoltre non si attaglia perfettamente ai parametri ispiratori di questo inesauribile appetito nato dal magico aggettivo cronico; dato che, pur con la tenera e premurosa foga dei legislatori e degli enti sanitari, ci si può vaccinare una volta sola, ed oltre eventuali richiami non si va o non si può essere obbligati ad andare. Le vittime delle vaccinazioni sono sotto terra o, se vive, sopravvivono minorate in famiglie distrutte. Nel nostro Paese, nonostante i genitori si siano organizzati in associazioni per avere l’aiuto del quale hanno diritto da parte dello Stato (che tentazione scriverlo con la esse minuscola!), non sono riusciti ad ottenere giustizia. Quello che lascia sbigottiti è che nonostante quanto emerso da più fonti e, soprattutto, da un’inchiesta della giornalista Milena Gabanelli (che si è occupata anche di malattie inventate, purtroppo senza continuare, o poter continuare a battere sul tema), la Giustizia non si sia mossa: nemmeno quando un noto personaggio dell’Istituto Superiore della Sanità, pressato dalle domande di alcuni genitori, dovette ammettere che erano state distribuite partite di un vaccino imperfetto, pur disponendo di altre molto più sicure, perché occorreva... svuotare i magazzini. Morti e disabili sono stati quindi la quisquilia da pagare per avere un magazzino ordinato.
Concludiamo il tema vaccinazioni con la saga dell’influenza A/H1N1. L’OMS - altro organismo spesso pappa e ciccia con il potere farmaceutico - dopo essersi vergognosamente prestata a diffondere il panico su questa inesistente epidemia, parlando di inesistenti pericoli e sparando cifre che non erano nemmeno cugine di quarto grado della verità, ora invita ... «ad evitare il panico...», dopo decessi in tutto il mondo e inabilitazioni. Pensate: il rischio di narcolessia nei vaccinati c’è (bontà loro), ed è «nove volte superiore...» (a che?), ma riguarda solo la fascia d’età fra i 4 ed i 19 anni... e chi è geneticamente predisposto! Come dire: se sei nato male, mica è colpa nostra! Nessuno è finito in manette (o meglio, con palla di ferro al piede e piccone in mano) per questo incredibile e vergognoso episodio di truffa organizzata: né i produttori del vaccino, né gli esponenti di commissioni ministeriali, né luminari al neon prestatisi a fare da testimonial per la truffa. Tutti innocenti. Questa è una delle occasioni perdute per tutti noi. Invece di manifestare per le cose più cretine che mente umana possa ideare e ripetere slogan ritmati in due quarti coniati da Napoleoni dell’imbecillità, i cittadini di tutto il mondo avrebbero dovuto scendere in piazza, prendere a calci nel sedere le cassandre a provvigioni, pretendere dimissioni dei responsabili e azioni legali contro di loro. Ma l’azione penale, non era obbligatoria? In mancanza di tutto questo, è bene ricordarsi chi abbia lanciato l’allarme ostentando, con talento melodrammatico, voce fosca e sguardo costernato; e chi abbia consigliato queste vaccinazioni. Basterebbe un po’ di memoria per individuare i disonesti e gli iscritti a libro paga di Big Pharma, e liberarsene. E’ stata, in sostanza, un’azione-spot di cinica speculazione, utilissima per fare affluire denaro sporco, a volte di sangue, in forzieri ormai all’orlo del cedimento.
Ma almeno, grazie ai galletti dei notiziari televisivi, abbiamo imparato un’altra bellissima parola, oltre alla misteriosa (e spaventosa) sigla A/H1N1: pandemia!!! Un contributo storico alla cultura collettiva, che ben valeva qualche centinaio di morti. Pandemia... non la banale, incolta Epidemia, razza di ignoranti che non siete altro. Ringraziate chi semina cultura, e vi ha insegnato tante altre cose importantissime: come, ad esempio, che i fiumi esondano (straripano lo dicono solo i sottoproletari della cultura)... ed i maremoti (termine piccolo-borghese-reazionario) si chiamano tsunami! Lo sapevate, buzzurri, prima che la TV ve lo insegnasse? Questa è civiltà, questa è cultura. Sia come sia, qualche statista non del tutto prono si è ribellato e detto chiaro e tondo che era ora di finirla col raccontare balle da Zeppelin, facendo venire i sudori freddi al pool di multinazionali che si stavano fregando le mani. Che, dopo qualche timido tentativo di rinverdire i fasti influenzali, si sono accontentate delle poche decine di miliardi di euro e dollari rimediati. E’ stato un crac, una crepa un tempo inconcepibile, nella crosta pataccara dell’industria del farmaco e, forse, un segnale, una svolta storica: della quale certi valorosi giornalisti d’inchiesta - quelli abituati a tuonare contro i deboli e scodinzolare di fronte a tutti i forti dei quali non sia ancora disponibile il certificato di morte - si sono ben guardati dall’approfittare.
Concludiamo questa penultima puntata con un accenno - solo un accenno - al Disease Morgening indirizzato all’infanzia e all’adolescenza ed al business collegato. Occorrerebbe scrivere libri interi per esaminare, con la pretesa di un minimo di completezza, tanti argomenti correlati: a partire da quello, sconvolgente, dell’alimentazione. Non possiamo esimerci dall’annotare il coinvolgimento di alcune case farmaceutiche anche nel settore dell’alimentazione umana. Ci riferiamo non tanto agli omogeinizzati per l’infanzia (a titolo di cronaca: molti anni fa fu soffocato a stento uno scandalo per l’impiego di carne di ratto; sterilizzata finché volete, ma sempre ratto era), quanto alla geniale trovata - attribuita ai chimici Pfitzer - di integrare il mangime per gli animali da allevamento (maiali, pollame, suini) con antibiotici, allo scopo di stimolarne la crescita. Col magnifico risultato che gli animali tendono a selezionare batteri sempre più resistenti (passando a noi quest’eredità negativa), le loro carni sono sempre più povere di vitamine, ed i bambini in particolare, data anche la contaminazione dei foraggi ad opera di aggressivi concimi chimici, ben di rado possono contare su un’alimentazione sana e genuina.
Ricollegandoci a quanto accennato all’inizio di questo paragrafo, le malattie inventate che hanno particolarmente (ma non esclusivamente) interessato i minori sono state: l’ansia generalizzata, il disturbo da deficit attentivo (ADHD), gli attacchi di panico. Una incredibile quantità di psicofarmaci si è riversata sui bambini, a volte anche su quelli che cominciavano appena a camminare. Per limitarci ad esempi, il Ritalin, prescritto per vincere la timidezza... ha fatto registrare dal 1990 un incremento dell’800% delle vendite, mentre il sonnifero Ambien, nel solo periodo tra il 2000 ed il 2004, raggiunse un aumento dell’85% delle prescrizioni nella fascia d’età tra i 10 ed i 19 anni. Lo Xanax, indicato quale rimedio per gli attacchi di panico ed il Paxil per l’ansia generalizzata, non sono certo stati da meno. La Angell scrive a questo proposito: «... la GlaxoSmithKline ha sepolto prove che il suo antidepressivo, il Paxil, top nelle vendite, è inefficace e potenzialmente dannoso per i bambini e gli adolescenti; GlaxoSmithKline fu obbligata, nel 2004, a transare sulle accuse di frode pagando 2,5 milioni di dollari». Ma cos’erano 2,5 milioni di dollari rispetto ai 2.700 milioni di vendite annuali del Paxil? Per non fare favoritismi, l’ex direttrice del New England, scrive: «… sei anni fa quattro ricercatori, invocando il Freedom of Information Act, hanno ottenuto dalla FDA relazioni su ogni studio clinico - che prevedesse il confronto-pacebo - presentato per ottenere l’approvazione iniziale dei sei più usati farmaci antidepressivi approvati tra il 1987 e il 1999: Prozac, Paxil, Zoloft, Celexa, Serzone e Effexor. Essi hanno scoperto che, in media, l’80% dei placebo hanno la stessa efficacia di questi farmaci. La differenza tra farmaco e placebo è stata così piccola che era improbabile che essa potesse rivestire un qualche significato clinico. I risultati sono stati più o meno gli stessi per tutti e sei i farmaci: tutti sono risultati egualmente inefficaci. Ma visto che sono stati pubblicati solo i risultati ‘favorevoli’ e quelli sfavorevoli sono stati... sepolti (in questo caso, all’interno della FDA), il pubblico e la professione medica hanno ritenuto questi farmaci potenti antidepressivi». E questo sarebbe il meno, se l’uso di questi psicofarmaci, specie non occasionale, non portasse a danni irreversibili a livello della sfera intellettiva e neuromotoria, tenuto anche conto della dipendenza indotta negli assuntori. Una dipendenza sempre più stretta e soffocante, come si fosse tra le spire di un pitone, che porta gradualmente alla spersonalizzazione dell’individuo, proiettato in un limbo asettico di stupori silenziati, di suadenti allucinazioni, di perdita della volizione, di sterilizzazione della vita emotiva.
Chiudiamo questo nostro scritto, in attesa di concludere tra breve la serie, accennando ad un altro incommentabile sfruttamento dell’infanzia: la somministrazione del GH (Growth Hormon, l’ormone della crescita) per stimolare lo sviluppo fisico dei bambini. E’ bene ricordare come il valore dell’ormone della crescita risulti di regola elevato in ogni tipo di tumore e che le cellule neoplastiche bevano avidamente questa sostanza, fornite come sono di recettori del Gh in numero molto superiore a quello delle cellule sane. In poche parole, l’uso del GH, propagandato per avere figli belli, alti, grandi e sani, pone una serie ipoteca alla nascita di processi tumorali od al forte sviluppo di forme che, normalmente, sarebbero contrastate e vinte dalle difese naturali dell’organismo.
Adolfo Di Bella
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