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La natura dell’amor proprio
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Gioverà non occultare i propri difetti, facendo tuttavia attenzione a non recar scandalo ai semplici, accettando le umiliazioni che ne derivano.

Spesso succede che il Signore ci guarisce dalla vana gloria mandandoci qualche umiliazione. Perciò, è bene vedere nelle diverse umiliazioni che occorre soffrire dei rimedi provvidenziali; una sorta di medico e medicina assieme, inviati da Cristo stesso a guarire le nostre ferite spirituali e specialmente la superbia.

Per fare tutto ciò dobbiamo riuscire a ignorare la nostra ascesi, ossia la nostra presunta bravura spirituale e le nostre pretese virtù. Gesù ci ha detto: “Non sappia la tua mano destra ciò che ha fatto la sinistra” (Mt., VI, 3); anzi anche quando avessimo fatto tutto ciò che ci è comandato da Dio, dovremmo considerarci come “servi inutili e peccatori” (Lc., XVII, 10).

Un rimedio molto efficace che ci aiuta grandemente a non sentire orgogliosamente di noi è quello di riportare brevemente e senza scendere nei dettagli (per non riattizzare la tentazione) alla memoria i molti peccati che abbiamo commesso.

Insomma “chi si abbassa sarà innalzato e chi si eleva sarà abbassato” (Lc., XIV, 11), poiché coloro che cercano la gloria quaggiù non ne godranno lassù.

L’Imitazione di Cristo ci raccomanda “ama nesciri et pro nihilo reputari” cioè se vuoi essere conosciuto e amato da Dio, devi essere ignorato e disprezzato dagli uomini.

Gli atteggiamenti esterni che sono una spia per accorgerci di essere affetti dalla febbre dell’amor proprio sono: la pretesa di sapere, la smania di mostrare agli altri di sapere, l’ostinazione nel proprio giudizio e la sfiducia preconcetta in quello degli altri, la certezza assoluta di avere ragione totalmente, lo spirito di contraddizione e di polemica esagerata, la voglia di salire in cattedra e d’insegnare a tutti gli altri, il desiderio di comandare e il rifiuto di sottomettersi a chi sta in alto.

Perciò, per guarire occorrerà: lottare contro la ricerca della volontà propria, dei propri capricci; munirsi di una sana diffidenza o perplessità nei riguardi del proprio giudizio; rinunciare ad autogiustificarsi; evitare di contraddire gli altri tranne quando neghino verità evidenti di ordine naturale o soprannaturale; non salire in cattedra, non dar sfoggio di sé, parlare poco e non voler comandare.

In san Paolo è divinamente rivelato: “Cos’hai, che non abbia ricevuto da Dio? Se l’hai ricevuto perché te ne glorifichi come se fosse tuo?” (I Cor., IV, 7).  Inoltre: “L’iniziativa non è dell’uomo che vuole o che corre, ma di Dio che fa misericordia” (Rom., IX, 16).

Infine, il “rimedio dei rimedi” per vincere la febbre dell’orgoglio è l’orazione mentale: ossia, il colloquio amoroso con Dio, come un amico parla con l’amico, infatti, solo l’aiuto, il soccorso e la cura protettrice di Dio potranno farci prendere coscienza di quel che siamo veramente (un nulla) e di quel che possiamo da noi stessi (il male, la menzogna e il peccato).

I peccati “occulti”

Soltanto Dio invisibile può scorgere e guarire il nostro orgoglio più o meno nascosto, di cui neppure noi abbiamo piena consapevolezza: “Et ab occultis meis munda me” (Salmo XIX, 13). Nessun uomo riuscirebbe a guarire l’orgoglio invisibile e occulto di cui non è pienamente consapevole; tutto ciò è paragonabile a un morbo grave e insidioso, che cova e lavora segretamente nel nostro organismo senza alcun sintomo sino a che non esplode, ma allora è molto spesso troppo tardi.

San Massimo il Confessore insegna che “spesso ci s’inorgoglisce delle doti intellettuali, per esempio l’intelligenza, la memoria, il bel parlare e il bello scrivere” (Centurie sulla Carità, III, 84); poi, spiega san Giovanni Climaco, la situazione si aggrava e diventa molto più pericolosa perché a ciò fa seguito l’invaghirsi delle proprie qualità spirituali, come “il pregar molto, il predicar bene, essere virtuosi” (La scala, XXI, 31), questo è il “peccato occulto” per eccellenza. Ora la vanagloria o l’invaghirsi di qualità esteriori (ricchezze, bellezza, forza, simpatia) è un vizio evidente e grossolano di cui ci si accorge e ci si può correggere più facilmente (san Giovanni Cassiano, Conferenze, V, 11; san Gregorio Magno, Moralia, VIII, 43), mentre l’orgoglio o vanagloria intellettuale è già più sottile, perché si situa al livello puramente raziocinativo e mentale. Normalmente, una persona che si dà veramente alla vita spirituale si accorge di questo difetto. Il pericolo estremo o il vero “peccato occulto” è il gloriarsi delle proprie “virtù apparenti”, come se fossero nostre e non un dono gratuito di Dio.

San Giovanni Climaco insegna, perciò, che “il demone della vanagloria sente una gioia particolare quando vede moltiplicarsi le virtù in un’anima portata all’orgoglio spirituale, e che, come la formica aspetta che avvenga la raccolta e il grano sia maturo, così la vanità spirituale aspetta che tutte le nostre buone azioni siano ammassate” (La scala, XXI, 2-3).

Sant’Evagrio Pontico costata che “l’orgoglio spirituale arriva solo dopo la distruzione dei difetti più appariscenti” (Riflessioni, 57). E san Massimo il Confessore insegna: “Se tu vinci le passioni più grossolane, fa attenzione alla vanagloria spirituale che sùbito ti assalirà” (Centurie sulla Carità, III, 59).

È per questo motivo che Gesù ci ordina di “rinnegare noi stessi” (Mt., XVI, 24) e di “morire a noi stessi” (Gv., XII, 24). Se non mortifichiamo noi stessi e il nostro egoismo, le nostre azioni, anche quelle apparentemente più buone, saranno guastate dal nostro amor proprio, dalla volontà propria, dalla fiducia presuntuosa ed esagerata in noi e il giorno del Giudizio ci ritroveremo senza meriti soprannaturali, avendo agito per amor nostro e non per la gloria di Dio.

Santa Maria Maddalena de’ Pazzi diceva: “Il maggior traditore che abbiamo è l’amor proprio, il quale fa come Giuda, in baciarci ci tradisce” (A. Puccini, Vita di Maria Maddalena de’ Pazzi, vol. II, Firenze, 1611, parte 6, cap. 1, p. 499).

San Tommaso d’Aquino insegna che “L’uomo veramente umile si stima inferiore agli altri, non per gli atti esteriori, ma perché teme di compiere per orgoglio nascosto persino il bene che fa” (S. Th., II-II, q. 161, a. 3).

Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange insegna che uno dei maggiori ostacoli alla vita spirituale è l’orgoglio dell’anima, per il quale ci gloriamo della nostra perfezione e giudichiamo con molta severità gli altri.

“Allora, Gesù ci spoglia dei beni sui quali avevamo concentrato la nostra affezione disordinata, e pensa Lui stesso a scavare nel nostro io malato a una profondità tale che neppure noi sospettiamo” (Vita Spirituale, Roma, Città Nuova, 1965, p. 177).

“Quale triste eredità del peccato, la natura umana è fortemente inclinata verso il male. L’egoismo, che è radicato nelle più segrete profondità del nostro essere, offusca la chiarezza dell’intelletto. Allora, l’egoismo c’impedisce la visione retta e oggettiva delle cose. Ciò avviene soprattutto quando l’amor proprio è interessato a farcele vedere in un determinato modo” (A. Royo Marìn, Teologia della perfezione cristiana, Roma, Paoline, 1960, p. 502).

Vale più la pratica della grammatica

Venendo alla pratica, san Luigi Maria Grignion de Montfort scrive che “Chi non ha lo spirito di Gesù Cristo, che è lo spirito della Croce, non appartiene a Cristo (Rom., VIII, 9)” (Lettera Circolare agli amici della Croce, in Opere, Roma, Centro Mariano Monfortano, 1977, p. 219).

Inoltre: «Dio permette che i suoi più grandi Santi cadano in qualcuna delle colpe più umilianti, sia per abbassarli di fronte a se stessi e agli altri, sia per distogliere il loro sguardo e il loro pensiero da un ripiegamento vanitoso sulle grazie che Egli loro concede e sul bene che fanno, “perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio” (1 Cor., I, 29). […]. Appena il nostro spirito, si sofferma con occhio di compiacenza su qualche dono di Dio, sùbito questo regalo, quest’azione, questa grazia si macchia e si rovina, e Dio ne distoglie lo sguardo. […]. A quante umiliazioni e croci Dio ci manda allora incontro! In quante colpe ci lascia cadere»donna ci lii libera dai o  (Lettera Circolare agli amici della Croce, in Opere, Roma, Centro Mariano Monfortano, 1977, pp. 242-243).

S. Agostino dice che “Dio sopporta meglio le azioni cattive accompagnate dall’umiltà, che non le opere buone infettate dall’orgoglio”. San Gregorio Nisseno aggiunge: “Un carro di buone opere, ma tirato dalla superbia, conduce all’inferno, mentre un carro di peccati ma condotto dall’umiltà, arriva in Paradiso”. 

In breve, la via per giungere all’umiltà sono le umiliazioni e non c’è mortificazione più grande che quella di vedere le nostre miserie e di toccarle con mano.

Sant’Ignazio nei suoi Esercizi Spirituali ci insegna che per unirci a Cristo dobbiamo imitarlo nel “patire ogni ingiuria, ogni disprezzo” (La Regalità di Cristo e la sua chiamata, n. 98). Inoltre, Gesù ci chiama “al desiderio degli obbrobri e dei disprezzi, perché da queste due cose nasce la vera umiltà” (I due stendardi, n. 146). Infine, ci ammonisce che per amare, imitare e rassomigliare veramente a Gesù Cristo dobbiamo “scegliere gli obbrobri con Cristo coperto di essi piuttosto che onori, e preferire essere stimati da niente e stolti per Cristo, che per primo fu ritenuto tale, piuttosto che savio e prudente agli occhi del mondo” (I tre gradi di umiltà, n. 167).

Un rimedio efficacissimo, è quello insegnatoci da san Luigi Maria Grignion de Montfort.

Egli spiega che “quando si versa dell’acqua pura in un vaso dal fondo cattivo, oppure quando si versa del buon vino in una botte guasta; l’acqua limpida e il buon vino prendono facilmente un cattivo odore”.

Lo stesso avviene, “quando Dio mette le sue grazie e rugiade celesti nel vaso dell’anima nostra, guastata dal peccato originale e attuale: i suoi doni ordinariamente si corrompono a causa del cattivo lievito e del fondo malvagio lasciati in noi dal peccato, e le nostre azioni, non escluse quelle ispirate dalle virtù più sublimi, ne risentono” (Trattato della vera devozione a Maria Santissima, parte II, cap. I, § 3, n. 78, in Opere, Roma, Centro Mariano Monfortano, 1977, p. 312).

La necessità della schiavitù mariana

Di qui la necessità della vera devozione a Maria per vuotarci del cattivo fondo che rimane in noi. Infatti, da noi stessi non vi riusciremmo mai, sia perché nessuno è buon giudice di se stesso (cercheremmo di coprire o di non mettere a fuoco le nostre cattive inclinazioni), sia perché non abbiamo da soli la forza necessaria ma abbiamo bisogno della grazia di Dio, che è distribuita da Maria “Mediatrice universale di ogni grazia”.

Perciò, in primo luogo dobbiamo conoscere bene, con la luce dello Spirito Santo e il buon consiglio di Maria, le nostre cattive inclinazioni e soprattutto quelle più nascoste ai nostri occhi carnali.

Poi, con l’aiuto dello Spirito Paraclito e di Maria, possiamo avere la forza per combatterle e sradicarle del nostro animo. Non a caso uno dei sette Doni dello Spirito Santo è quello del Consiglio e una delle litanie della Madonna la invoca quale “Mater Boni Consilii”.

La devozione o schiavitù mariana è definita da san Luigi de Montfort “un segreto nell’ordine della grazia per fare in poco tempo, con dolcezza e facilità operazioni soprannaturali, come lo spogliarsi di sé, il riempirsi di Dio e il divenire santi” (Ibidem, parte II, cap. I, par. 3, n. 82, p. 315).

La devozione alla Madonna è necessaria anche a causa della nostra condizione di natura ferita, la quale è talmente inclinata al male che se ci appoggiassimo solamente sulle nostre capacità, le nostre azioni rischierebbero fortemente di essere macchiate dall’amor proprio.

San Luigi de Monfort scrive:

«Quanti “cedri del Libano” e “stelle del firmamento” son caduti e hanno perso la loro altezza e il loro splendore! Da che dipende questo strano cambiamento? Non certamente dalla mancanza della grazia divina, ma, dall’assenza d’umiltà. Costoro si credevano – occultamente e impercettibilmente – più forti e più abili di quanto non fossero. […]. Così, per questo loro appoggio sulle loro forze – anche se pareva loro di contare soltanto sulla grazia di Dio – il Signore ha permesso che fossero derubati e abbandonati a se stessi» (Ibidem, parte II, cap. I, par. 5, n. 87, pp. 319-320).

È chiaramente espresso anche qui – alla luce della Mariologia – il concetto di “peccato occulto”, ossia ci si appoggia su di sé, per un certo impercettibile e inconfessabile amor proprio, egoismo e orgoglio spirituale, non esplicitamente, ma occultamente, sembra che si conti solo su Dio invece si segue il proprio “io” e allora si va incontro alla rovina illudendosi di avanzare sulla via della santità, che è puramente esteriore e per nulla affatto reale e interiore.

Il rimedio proposto da san Luigi de Montfort è quello d’affidare a Maria Santissima il tesoro della grazia divina, che portiamo in vasi fragili (2 Cor., IV, 7), affinché ce lo custodisca e ci difenda dal nostro peggior nemico, che non è il mondo e neppure il demonio, ma il nostro “io” nel quale vive “quel certo spirito di proprietà che si insinua  impercettibilmente anche nelle migliori azioni” (Ib., parte III, cap. II, par. 1, n. 137, p. 349) e che biblicamente si chiama “peccato occulto” (Sal., XIX, 13).

La Madonna è colei che “purifica le anime da ogni macchia di amor proprio e dall’impercettibile attaccamento alla creatura che s’insinua insensibilmente anche nelle migliori azioni” (Ib., parte III, cap. II, par. 3, n. 145, p. 355).

Infatti “Gesù esamina il dono che gli facciamo e spesso lo respinge per le macchie di amor proprio di cui è contaminato” (Ib., parte III, cap. II, par. 3, n. 149, p. 356).

“Con la luce che lo Spirito Santo ci darà, per mezzo di Maria, conosceremo il nostro fondo cattivo, la nostra corruzione e incapacità di ogni bene soprannaturale […]. In séguito ci disprezzeremo come una lumaca che tutto insudicia con la sua bava […]. Insomma, la Vergine Maria ci renderà partecipi della sua umiltà. Perciò ci disprezzeremo, non disprezzeremo nessuno e ameremo di essere disprezzati” (Ib., parte III, cap. IV, par. I, n. 213, pp. 399-400); come diceva anche san Filippo Neri: “Sperne teipsum, sperne nullum, sperne se sperni”.

Conclusione

Raccomandiamoci a Maria con la bella preghiera che ha scritto san Luigi de Montfort: «Tenete, mia cara Madre, tutto ciò che ho fatto di bene con l’aiuto della grazia, del vostro Figlio divino; io non sono capace di mantenerlo a causa della mia debolezza e della mia incostanza. Purtroppo si vedono tutti i giorni i cedri del Libano cadere nella polvere e le aquile che s’innalzavano sino al sole diventare uccelli notturni; “mille giusti cadono alla mia sinistra e diecimila alla mia destra”[1]. Perciò mia potentissima Regina, mantenete e custodite tutto il mio bene perché ho paura che me lo rubino, sorreggetemi perché ho timore di cadere; io vi do tutto ciò che ho. “Depositum custodi”[2]. “Scio cui credidi[3]. So bene chi siete ed è per questo, che mi raccomando e consacro totalmente a voi; voi siete fedele a Dio e agli uomini e voi non permetterete che perisca nulla di ciò che io vi confido; voi siete potente e nessuno può nuocervi né tanto meno rapire ciò che avete tra le vostre mani» (Il segreto di Maria, parte II, cap. 3, par. 5, n. 40, in Opere, Roma, Centro Mariano Monfortano, 1977, p. 460).

Dominicus



[1] Sal., XC, 7.

[2] 1 Tim., VI, 20.

[3] 2 Tim., I, 12.


 
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