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L’Amor proprio
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La guarigione dell’orgoglio

La natura dell’orgoglio

L’orgoglio è un peccato dello spirito, che in sé è meno vergognoso e meno degradante dei peccati carnali, ma è molto più grave di essi (comunque – pure essi – sono “peccati mortali”[1]), poiché ci allontana molto di più e diametralmente da Dio (S. Th., I-II, q. 73, a. 5).

I peccati carnali non si trovano nel demonio, che è un puro spirito e si dannò per il suo orgoglio, il quale lo spinse a gridare “non serviam!”.

La divina Rivelazione ripete assai spesso che l’orgoglio è il principio di ogni altro peccato (Eccli., X, 15), poiché esclude ogni vero e sano rapporto con Dio; cioè, la sottomissione della creatura al Creatore. Perciò, esso interrompe ogni nostra relazione con Dio e ci separa irrimediabilmente da Lui.

Anche il peccato originale fu un peccato d’orgoglio (S. Th., I-II, q. 84, a. 2), cioè il voler “essere come Dio” (Gen., III, 5) e il conquistare da sé la “scienza del bene e del male” (Gen., III, 6), per poter guidarsi da solo senza essere sottomesso a nessuno e neppure a Dio.

San Tommaso d’Aquino (S. Th., II-II, q. 162, a. 8 ad 1um) spiega che l’orgoglio è qualcosa di più di un peccato capitale, infatti esso è la sorgente e la radice di tutti i peccati capitali e soprattutto della vanagloria, che è uno dei suoi primi effetti.

La definizione esatta dell’orgoglio è abbastanza difficile poiché esso si oppone non solo all’umiltà, ma anche alla magnanimità o grandezza d’animo.

Ora, occorre fare molta attenzione a non confondere la grandezza d’animo con l’orgoglio e neppure confondere l’umiltà con la pusillanimità, cosa che purtroppo è abbastanza frequente.

L’anima umile deve essere d’animo nobile e grande, ossia deve tendere umilmente a fare grandi cose.

L’Angelico ci aiuta molto a ben discernere l’umiltà dall’orgoglio, la pusillanimità dalla magnanimità.

L’orgoglio è definito dall’Aquinate amore disordinato della propria eccellenza. Infatti, il superbo vorrebbe apparire superiore a quello che è realmente. Questo disordine, quando si porta verso beni sensibili, si trova nell’appetito irascibile, per esempio colui, che si gonfia della sua forza fisica. Invece, si trova nella volontà, quando tende a beni spirituali o meta/sensibili, per esempio, l’orgoglio intellettuale e spirituale. In questo secondo caso il nostro intelletto considera, più del dovuto, le nostre qualità e le deficienze altrui e arriva sino a ingrandire le altrui miserie per elevarsi sopra gli altri.

Come si vede l’orgoglio è assai diverso dalla magnanimità: ad esempio un soldato deve desiderare ardentemente la vittoria della sua Patria, invece, l’orgoglioso desidera smodatamente la propria eccellenza.

Ecco perché l’orgoglio è rappresentato da una benda posta sugli occhi. Infatti, esso c’impedisce di “vedere” o meglio conoscere la realtà sia riguardo a Dio, di cui si nega la grandezza infinita, sia riguardo al prossimo di cui non si sopportano le qualità e specialmente riguardo ai superiori dei quali non si vuol accettare la loro superiorità. Insomma, l’orgoglio ci acceca.

Le varie forme dell’orgoglio

San Gregorio Magno (Moralia, XXIII, cap. 5) enumera vari gradi d’orgoglio:

1°) credere che sia nostro quello che invece abbiamo ricevuto da Dio;

2°) credere di aver meritato per la nostra bontà ciò che abbiamo ricevuto gratuitamente per pura Misericordia divina;

3°) attribuirci virtù che non abbiamo;

4°) disprezzare gli altri e pretendere di essere migliori di loro e, dunque, preferirci a loro.

Il grado massimo d’orgoglio è quello luciferino, che pretende di eguagliare Dio. Tuttavia, questo grado è assai raro in maniera esplicita. Sennonché, se in teoria riconosciamo che Dio è il nostro Creatore e noi le sue creature, in pratica ci accade spesso di stimare esageratamente noi stessi come se fossimo gli autori delle qualità che Dio ci ha dato. Questa è una forma di pelagianesimo o addirittura di “luciferismo”, implicito, pratico o anonimo. Allora, ecco che esageriamo le nostre poche qualità e chiudiamo gli occhi sui nostri numerosi difetti. Tutto ciò ci porta inavvertitamente ma immancabilmente a preferirci agli altri e a disprezzarli, come il fariseo che salito al Tempio per pregare non faceva altro che lodare se stesso, disprezzare il pubblicano e non pensava per nulla a lodare Dio (Lc., XVIII, 10 ss.).

Queste colpe d’orgoglio, che inizialmente sono veniali, possono diventare mortali se ci portano a compiere atti reprensibili.

San Bernardo di Chiaravalle (De gradibus humilitatis, cap. X) enumera dodici gradi di orgoglio:

1°) la curiosità, dalla quale ci guardiamo assai poco e che invece è molto nociva per la nostra anima;

2°) la leggerezza di spirito, che oggi va molto di moda;

3°) la sciocca gioia e fuori luogo;

4°) la boria o alterigia;

5°) l’arroganza;

6°) la presunzione;

7°) l’ostinazione nel non voler riconoscere i propri torti;

8°) il negare e nascondere i propri difetti e sbagli;

9°) la rivolta;

10°) la libertà sfrenata o libertinaggio;

11°) l’abitudine a peccare sino a voler disprezzare Dio per giustificare il proprio vivere disordinato;

12°) la singolarità e il voler essere fuori da ogni regola.

Molto pericoloso è l’orgoglio intellettuale e ancor più quello spirituale. Infatti, esso può portarci a non accettare l’interpretazione tradizionale dei dogmi, ad attenuarli o addirittura a deformarli per renderli più accessibili alle esigenze dello spirito del mondo contemporaneo. In altri l’orgoglio può produrre un attaccamento ostinato alle proprie opinioni sino al punto di non voler neppure ascoltare le ragioni della parte contraria. Infine, alcuni che – in teoria – sono nella verità, sono talmente pieni di sé e soddisfatti della loro conoscenza speculativa, che si dimenticano di dovere tutto quel che hanno ricevuto a Dio. Ora, se uno è pieno di sé, come può ricevere la grazia di Dio? Quest’orgoglio intellettuale e spirituale è un ostacolo insormontabile alla grazia salvifica.

Da punto di vista spirituale, l’orgoglio può portarci a un grande accecamento, che ci fa arrivare a ritenere la nostra stessa vita spirituale come una sorgente segreta d’orgoglio, perché finiamo per compiacerci delle nostre opere buone stimando eccessivamente noi stessi come se fossimo gli autori principali di esse.

I difetti che nascono dall’orgoglio

Il primo grado dell’orgoglio è la presunzione, che consiste nel desiderio disordinato di fare cose che sono aldilà delle proprie forze (S. Th., II-II, q. 130, a. 1). Per esempio pensiamo di poter risolvere le questioni più difficili, sentenziamo con precipitazione e con assoluta certezza sui problemi disputati e più ardui, volendo insegnarli a tutti gli altri. Invece di costruire la nostra vita spirituale sull’umiltà, si aspira soprattutto all’azione eclatante, clamorosa e vistosa o si presume di essere giunti ai massimi gradi della vita unitiva o mistica.

Il secondo grado è l’ambizione. Infatti, siccome presumiamo eccessivamente delle nostre forze e ci reputiamo superiori agli altri, allora nasce in noi la smania di dominarli, di imporre loro le nostre opinioni in materia di dottrina anche con una certa prepotenza e arroganza (S. Th., II-II, q. 131, a. 1).

Infine, con il terzo grado, l’orgoglio ci porta alla vanagloria ossia alla bramosia di essere stimati per noi stessi senza riferire tale onore a Dio. Questo è il caso del pedante che si compiace di fare sfoggio della sua scienza parlando senza posa, che arriva poi sino alla pertinacia, ossia alla contesa aspra nel difendere le proprie opinioni, causando la discordia, la critica acerba e piena d’acredine (S. Th., II-II, q. 132, aa. 1-3).

Come guarire l’orgoglio

Il grande rimedio è riconoscere la grandezza infinita di Dio e la nostra dipendenza totale da Lui che è nostro Creatore, non solo in teoria ma anche in pratica. Infatti, spesso sappiamo teoricamente di essere stati creati dal nulla ma nella pratica ci comportiamo come se fossimo la causa e il fine di noi stessi.

San Tommaso d’Aquino spiega: “Siccome l’amor di Dio per noi è causa di ogni nostro bene, Dio non ci ama perché siamo buoni, ma amandoci ci rende buoni, perciò nessuno sarebbe migliore di un altro se non fosse più amato da Dio, che ama tutti sufficientemente” (S. Th., I, q. 20, a. 3).

Insomma, è del tutto sciocco gloriarsi di un bene che è in noi, come se non lo avessimo ricevuto da Dio, come se fosse nostra proprietà e non fosse ordinato a onorare Dio, sorgente e fine di ogni bene.

In breve il rimedio contro la mala pianta dell’orgoglio è riconoscere non solo de iure ma anche de facto che da noi stessi siamo nulla, che siamo stati creati dal nulla, dall’amore totalmente gratuito di Dio, indipendentemente da ogni nostro merito.

Attenzione! È importante che questo principio non resti in noi come pura teoria, ma che sia vissuto nella pratica e diriga tutti i nostri atti.

Per arrivare a tanto sono necessarie le umiliazioni concrete, che sole potrebbero purificare l’orgoglio radicato in ogni uomo dopo il peccato originale.

Le litanie dell’umiltà

Il cardinale Raffaele Merry del Val ha compendiato la dottrina dell’umiltà, alla quale in pratica si giunge solo attraverso le umiliazioni, in queste bellissime litanie, dette dell’umiltà, che sottopongo alla riflessione del lettore, raccomandandogli di recitarle e meditarle spesso:

«O Gesù, mite e umile di cuore, esaudiscimi.

Dal desiderio di essere stimato, liberami o Gesù.

Dal desiderio di essere amato, liberami o Gesù.

Dal desiderio di essere onorato, liberami o Gesù.

Dal desiderio di essere lodato, liberami o Gesù.

Dal desiderio di essere preferito agli altri, liberami o Gesù.

Dal desiderio di essere consultato, liberami o Gesù.

Dal desiderio di essere approvato, liberami o Gesù.

Dal timore di essere umiliato, liberami o Gesù.

Dal timore di essere disprezzato, liberami o Gesù.

Dal timore di essere respinto, liberami o Gesù.

Dal timore di essere calunniato, liberami o Gesù.

Dal timore di essere dimenticato, liberami o Gesù.

Dal timore di essere preso in giro, liberami o Gesù.

Dal timore di essere ingiuriato, liberami o Gesù.

Dal timore di essere sospettato, liberami o Gesù!».

Che la Madonna ci ottenga la grazia di mettere in pratica quanto chiesto in queste litanie.

d. Curzio Nitoglia

continua



[1] Non tutti i peccati mortali hanno la stessa gravità. Infatti, essi sono - più o meno - gravi, a seconda che si allontanano più o meno dalla retta ragione. La gravità del peccato varia secondo il loro oggetto, ossia se il peccato è commesso contro una cosa, una persona o Dio. Inoltre, la gravità del peccato varia anche secondo la dignità delle virtù cui esso va contro. Perciò, i peccati della carne sono di maggiore infamia, ma sono inferiori ai peccati di spirito (S. Th., I-II, q. 73, aa. 2-5).

 
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