La Gabanelli non è assicurabile
Stampa
  Text size
Con 30 procedimenti sul groppone, rappresenta un costo sicuro e non un costo eventuale

Cause civili dovrebbero essere possibili dopo condanne penali

E meno male che Mamma Rai alla fine s'è commossa e la tutela legale a Milena Gabanelli l'ha ripristinata: altrimenti chissà se la repubblica (quella italiana, non quella di De Benedetti) avrebbe retto allo choc di vedere la Calamity Jane del giornalismo investigativo nostrano imbavagliata dall'impossibilità di pagarsi gli avvocati.

La soluzione «privatistica» che l'autrice di Report aveva invocato, in una lettera al Corriere della Sera, era sembrata infatti a tutti gli addetti ai lavori imprecisa e, come dire, un po' massimalista, come sono spesso i contenuti dei suoi reportage, a volerli guardare per qualche istante in controluce. La Gabanelli aveva infatti denunciato il riprovevole comportamento delle compagnie di assicurazioni tra le quali non ne aveva trovata nessuna disponibile ad assicurarla sul costo delle cause. Aggiungendo candidamente di averne in corso trenta.

Chiarissimo l'equivoco: gli assicuratori, notoriamente «vil razza dannata» (effettivamente, sanno fare fin troppo bene i fatti loro) sono tuttavia nel loro buon diritto a non voler fare beneficenza. Quindi assicurano i rischi, non i costi sicuri. Le trenta cause in corso contro la Gabanelli rappresentano appunto un costo sicuro, non un costo eventuale. Facile azzardare una previsione: se per una causa legata a un reato a mezzo stampa, tipicamente la diffamazione, si può stimare una spesa legale di sei o settemila euro all'anno e una durata media di tre anni, è presto raggiunta in questo caso la ragguardevole cifra totale di 600 mila euro circa. E che premio dovrebbero mai farsi pagare da una cliente così rischiosa, gli eventuali assicuratori? A meno di non volerla finanziare in perdita, come avrebbero fatto secoli fa i Mecenati per le opere d'arte.

Del resto, la frequenza dei «sinistri legali» di Report autorizza a prevedere il peggio sul trend dei prossimi anni: e perchè mai, oggettivamente, Milena Gabanelli dovrebbe cambiare uno stile, e un format, che riscuotono tanto successo di pubblico?

Niente polizze, quindi, e viva la Rai. Eppure la Gabanelli, pur con la sua foga piuttosto egoriferita, denunciava un problema reale: cioè l'effetto inibitore delle cause sulla maggior parte degli editori, che piuttosto di rischiare l'osso del collo per una severa condanna per danni o per spese legali di difesa esorbitanti, sono fatalmente indotti a mettere la sordina ai loro cronisti d'assalto. E allora?

Allora un paio di soluzioni ci sarebbero. E praticabili senza sacrifici privati.

Il primo è quello di istituire una sorta di «avvocatura d'ufficio» di alto livello professionale (per intendersi: molto più alto di quello cui arrivano gli avvocati d'ufficio ordinari nei tribunali italiani) per la tutela a spese pubbliche degli inquisiti per reati a mezzo stampa. In questo modo si trasferirebbe all'erario (che certo non dovrebbe permettersi ulteriori costi oltre ai tanti che già ha, eppure ha le spalle fiscali comunque più larghe di quelle di qualsiasi impresa privata) l'onere della difesa.

Perché una simile generosità? Per dare riscontro concreto a quel principio dell'«interesse pubblico» ad un'informazione libera e imparziale (e come tale anche irriverente, sempre che serva, e quindi investigativa e disinibita) che l'articolo 21 della Costituzione sancisce in modo inequivocabile.

Ma c'è dell'altro, e forse ancor più rilevante, perché è una manifestazione concreta del problema che non riguarda (anzi: non colpisce) solo i cronisti molto d'assalto come la Gabanelli ma può colpire anche tanti altri giornalisti meno sospinti dal demone dell'investigazione aggressiva e semplicemente dediti a fare il loro onesto lavoro quotidiano.

Contro questi colleghi, per fortuna numerosi e quindi meno celebri, l'arma più efficace che le loro «vittime» adoperano ottenendo quasi sempre utili risultati è quella della causa per danni: uno strumento con il quale, chiedendo risarcimento esorbitanti per asserite lesioni d'immagine che nessun collegio giudicante penale ha mai ratificato, di fatto congelano l'attività dei cronisti, che si vedono più o meno garbatamente consigliati, spesso dai loro editori e a volte anche dai loro direttori, a desistere dal seguire piste che potrebbero risolversi in un rovinoso boomerang economico per le loro case editrici. Contro questo costume ormai tanto diffuso da essere diventato un malcostume (l'uso interdittorio dell'azione civile) giace da tempo in parlamento una proposta di legge molto intelligente, e quindi puntualmente trascurata, che proibisce l'instaurazione di una causa civile per un danno d'immagine conseguente a un articolo di giornale o a un servizio radiotelevisivo (o web) che non sia stato precedentemente riconosciuto come diffamatorio in sede penale.

Se la proposta diventasse legge, ricondurrebbe qualunque azione legale in materia di stampa alla sede propria, quella del procedimento penale per diffamazione (o calunnia, o aggiotaggio eccetera) e solo in caso di condanna del giornalista, la parte lesa acquisirebbe il diritto di chiedere i danni. È chiedere troppo, l'auspicare che questa proposta passi? In Italia, è sicuramente chiedere troppo.

Giulio Genoino

Fonte >
  Assinews.it | 9 ottobre

Home  >  Worldwide                                                                                          Back to top