La blogger siriana non esiste ha fatto tutto una coppia americana
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Per mesi hanno creato e alimentato sul web un piccolo mito, la blogger siriano-americana, lesbica e dissidente, straordinariamente dotata nella scrittura, Amina Arraf. Poi, la settimana scorsa, forse stanchi della grande attenzione che la loro creatura virtuale stava ricevendo dai media del mondo con il suo blog "A gay girl in Damascus", la coppia di americani Tom MacMaster e Britta Froelicher ha deciso di farla sparire: ancora una volta virtualmente, quasi letterariamente, lanciando dal blog l'allarme 1 di una fantomatica cugina che raccontava di come la coraggiosa Amina fosse stata sequestrata da uomini armati e portata in chissà quali carceri del regime di Assad. La blogosfera, che Amina aveva imparato a conoscere, seguire e amare, si è rivoltata come solo il web ai tempi delle rivolte via internet sa ormai fare. In pochi minuti una pagina facebook per la liberazione di Amina ha raccolto 15 mila adesioni. E petizioni, richiami, persino il dipartimento di Stato che si muoveva per cercare questa sua misteriosa cittadina, o almeno la sua misteriosa famiglia (inventata anche quella: madre americana, padre siriano, lei nata in Virginia).

Ma l'ultima bufala era troppo grossa perché potesse passare indenne dalle maglie di una Rete che in questo caso sembrava aver assorbito tutto  -  trascinando con sé grandi media come Cnn, Guardian, New York Times che avevano reso Amina una piccola star, intervistandola seppur sempre solo via email. Qualche giornalista più attento e accurato, come Andy Carvin di Npr e la blogger Liz Henry, ha cominciato a chiedersi come mai nessuno conoscesse Amina nel "mondo reale" 2, poi è venuto fuori che le foto spacciate dalla blogger erano in realtà quelle di un'ignara ragazza inglese. Piano piano, si sono messi insieme i pezzi  -  informatici, come gli indirizzy proxy da cui Amina postava i blog, o empirici, come alcune foto postate sia sul blog di Amina che su altre identità del web  -  per risalire a un unico utente: Tom MacMaster. Americano, 40 anni, attivista pro-palestinese, da poco trasferito a Edimburgo (le tracce di Amina portavano proprio all'università della città scozzese dove MacMaster sta seguendo un master in studi orientali) e ora in vacanza a Istanbul. Sua moglie, Britta Froelicher, è un'esperta di questioni siriane e attivista di un'associazione americana per la pace in Medio Oriente. Né siriana, né lesbica, né donna, dunque. Amina era un eterosessuale quarantenne americano, che ha rubato foto su Facebook per dare un volto alla sua creatura (peraltro attraente, con caratteri fisici ben precisi come il neo sopra il sopracciglio dell'ignara cittadina britannica Jelena Lelic) e per mesi ha dato interviste rispondendo alle email dei giornalisti, ha flirtato con una donna canadese convinta di essere la compagna di Amina, ha intrecciato rapporti d'amicizia. "Sick", commentano ora in molti sul web: "malato".

Dalla Turchia, stanato ormai dalle indagini di Carvin 3 e nelle ultime ore da un accurato lavoro investigativo del blogger Ali Abunimah 4, MacMaster ha reso la sua confessione. Lo ha fatto sul blog della ragazza gay di Damasco, intitolando l'ultimo post: "Scuse ai lettori": 5 "Non mi sarei mai aspettato questo livello di attenzione e non penso di aver fatto del male a nessuno, penso di aver creato una voce importante su questioni in cui credo fermamente (...) Spero che la gente presti altrettanta attenzione ai popoli del Medio Oriente e alle loro lotte. Io ho solo cercato di illuminarli per un pubblico occidentale. Quest'esperienza conferma tristemente le mie convinzioni di quanto superficiale sia la copertura mediatica del Medio Oriente"". MacMaster ha poi promesso che nelle prossime 24 ore darà un'intervista a un media a sua scelta, e lì si capirà da dove e come prendeva le sue informazioni dettagliate sulla vita a Damasco e quella sensibilità specifica che ho condotto molti a credere che Amina fosse reale.

Ma la Rete sta già dando il proprio responso: una valanga di tweet carichi di delusione, alcuni anche di insulti, si è riversata intorno all'hashtag #amina in pochi minuti. C'è preoccupazione per i ricaschi che la bravata di MacMaster avrà sulla credibilità e la libertà di espressione dei blogger arabi, e soprattutto per la comunità gay del Medio Oriente, già pesantemente vessata. C'è rabbia per il tempo perso intorno a una causa inesistente, mentre migliaia di veri dissidenti sono rinchiusi - senza alcuna campagna di sostegno - nelle carceri siriane, e mentre in Siria il regime sta facendo carne da macello nelle città dove l'opposizione è più forte. E c'è autentico dolore per il colpo che la grande "famiglia" della blogosfera militante si è sentita infliggere dall'interno. Alcune persone sono state in contatto con un'identità chiamata Amina per almeno cinque anni, credendo anche di aver intrecciato un'amicizia, e hanno "perso il sonno" pensandola in un carcere siriano. Alla fine, come spesso accade in Rete, intorno alla bufala di Amina sono nati anche scherzi e tormentoni, il che non rende la vicenda meno amara. Con una consolazione, non piccola: sono stati gli stessi blogger a svelare l'inganno e a dare ai media tradizionali la chiave di lettura di un moderno intrigo internazionale. Dimostrandosi ancora una volta capaci di scavare a fondo, in tempi record.

RAFFAELLA MENICHINI

Fonte >  Repubblica.it



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