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La pillola RU486, la morte con un bicchier d’acqua
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Non è un farmaco perché la gravidanza non è una patologia. E perché il figlio-embrione non è un virus. La RU486 è una pillola-killer, altro che una innocua pasticca indolore! E la sua commercializzazione in Italia, decretata il 30 luglio scorso, dopo quattro ore di riunione, dal Consiglio di amministrazione dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, è solo una presa d’atto. Il mifepristone, la sostanza contenuta nella RU486, è già stata utilizzata in Italia facendola arrivare dall’estero: nel 2006 è stata utilizzata negli ospedali del Piemonte, dell’Emilia Romagna, della Toscana, delle Marche e a Trento per un totale di 1.151 casi; nel 2007 ancora in Emilia Romagna, Toscana, Marche, Puglia e Trento per un totale di 1.010 casi. Evitarne la commercializzazione avrebbe scatenato un’ondata di proteste: «Negato il diritto all’aborto chimico», «L’Aifa cellula del Vaticano», «I talebani dell’Aifa contro le donne», insomma il solito bla-bla…

Secondo le disposizioni impartite dall’Aifa la pillola della morte potrà essere utilizzata in Italia solo in ambito ospedaliero per il «massimo rispetto della legge 194 (al festival dell’ipocrisia ci sono sempre nuovi attori - ndr -) (…). Dopo una lunga istruttoria è stato raccomandato di utilizzare il farmaco entro il quarantanovesimo giorno, cioè entro la settima settimana».

Pochi giorni fa si è potuto discutere, in una melassa di stupidità, tra chi era a favore dell’aborto legale e chi per quello clandestino. Oggi le fazioni vengono fatte schierare così: c’è chi vuole l’aborto chirurgico e chi quello chimico. E’ la solita tattica per un finto dibattito. Creare uno schieramento, poi l’altro e farli contrapporre all’infinito… il problema è un altro, e sta molto più in alto della falsa giornalistica dicotomia tra il Vaticano e la Scienza (maiuscolo, please!).

La carità della verità impone chiarezza, onestà intellettuale, rigore scientifico. E può essere utile iniziare facendo un po’ si storia.

Tanto per intenderci la paternità della RU486 (sigla derivante dal nome della ditta francese Roussel Uclaf e dalla etichettazione della molecola, 38486) è attribuita a Etienne-Emile Baulieu, un endocrinologo francese consulente dal 1963 della stessa ditta francese. In realtà è l’ungherese Arpad Istvan Csapo che muove le prime ricerche sugli effetti del progesterone sull’utero ravvisando l’interruzione della gravidanza quando viene bloccato lo stesso progesterone (è un ormone a struttura steroidea, sintetizzato dall’ovaio e dal surrene) (1). Siamo alla fine degli anni Sessanta, inizio degli anni Settanta. Le sue ricerche, le ipotesi di lavoro sono riprese dal gruppo di studio di Baulieu che occupandosi del controllo della fertilità - un’altra ossessione del femminismo - nel 1970 giunge ad individuare il recettore del progesterone nell’utero. E’ George Teutsch a sintetizzare il mifepristone nell’aprile del 1980 con il codice RU38486. Teutsch è un chimico e direttore delle ricerche endocrinologiche della Roussel Uclaf (2).

La miscela conoscitiva dei tre medici inizia ad esplodere per le prime applicazioni nell’ottobre del 1981: su 11 donne nove abortiscono con mifepristone e due devono ricorrere all’aborto chirurgico. Decisamente, un buon inizio di morte…

Ufficialmente la pillola abortiva è introdotta in Francia nel 1988 (non è irrilevante sottolineare che il Governo possedeva il 36% della Roussel Uclaf e che in piena bagarre il ministro socialista della Sanità francese Claude Evin ebbe a dire che «la RU486 è diventata proprietà morale delle donne»).

E’ un prodotto chimico sotto forma di pastiglia che contiene una sostanza chiamata mifepristone, uno steroide sintetico che inibisce il progesterone, (come si scriveva poc’anzi, l’ormone deputato a consentire il naturale proseguimento della gravidanza). Presa la pasticca (alcuni protocolli prevedono una dose di 600 mg, ma già 200 sono letali), (3) sostanzialmente, l’embrione muore lentamente in grembo. Il 3-5% delle donne abortisce. Non c’è bisogno dell’ospedale, di un’assistenza, di un medico. L’azione omicida della RU486 è combinata con un’altra sostanza, il misoprostol - una prostaglandina -, contenuta in un’altra pasticca (400 mcg) che scatena nell’utero le contrazioni necessarie per l’espulsione del sacco amniotico contenente il figlio-embrione. Due pasticche da inghiottire con un bicchier d’acqua e da prendere a distanza di due-tre giorni, apparentemente innocue. Un mix micidiale per l’embrione. Il procedimento tra la prima e la seconda pasticca deve avvenire entro il 49° giorno di gestazione. L’80% delle donne abortisce dopo la seconda pasticca. Il 12-15% espellerà il figlio-embrione entro 15-20 giorni. Un calvario lunghissimo. Il 5-8% delle donne sarà costretta, comunque, a ricorrere all’intervento chirurgico o all’isterosuzione per lo svuotamento completo dell’utero.

Venduta e pubblicizzata come rimedio facile al più temuto cruento aborto chirurgico, la realtà finora ha contraddetto le più rosee previsioni. Sono gli effetti collaterali, soprattutto nella fase espulsiva a destare maggiori preoccupazioni: «Dolori addominali e crampi (seconda la FDA - l’americana Food and Drug Administration - ndr - se ne lamenta il 96% delle donne), nausea (per il 61% delle donne), ma il di testa (31%), vomito (il 26%) diarrea (il 20%), vertigini (il 12%), affaticamento generale (10%), mal di schiena (9%). In misura minore si possono presentare brividi, esantema, perdita di coscienza, variazioni nella pressione del sangue e anche la febbre, che fino a 38° non è considerata un sintomo pericoloso» (4). Inoltre il flusso emorragico conseguente all’assunzione delle due pasticche è per quantità e durata notevolmente maggiore di un regolare flusso mestruale: da 8 a 17 giorni (5).

La stessa introduzione in Francia non è stata esente da problemi. E’ stato necessario modificare la vecchia legge Veil (1975) estendendo la possibilità di aborto fino alla 14ma settimana. Nel 2004 sono state aggiornate le linee guida.

La sua decantata innocuità è solo una misera bandiera ideologica, abilmente messa in campo da quelle agenzie politico-culturali che sanno orchestrare bene la musica da suonare per i loro scopi.

Eppure con questa «velenosa zigulì» sono morte 29 donne.

Ecco una breve lista di coloro che sono state immolate sull’altare del paleo-femminismo, oggi travestito da tecno-scientismo: Nadine Walkowiak muore in Francia, l’8 aprile del 1991 a 31 anni per uno shock cardiovascolare dopo un’iniezione di sulprostone (è la prostaglandina associata alla RU486), Brenda Vise a 38 anni, il 12 settembre del 2001, dopo l’assunzione del Cytotec (è il misoprostol col suo nome commerciale) mai approvato dalla FDA per l’interruzione di gravidanza. Rebecca Tell Berg il 3 giugno del 2003 in Svezia, dissanguata nella doccia; c’è poi Holly Patterson che muore il 17 settembre del 2003 a San Francisco: esegue tutta la procedura dell’aborto a domicilio. Sta in casa, però inizia a stare male perseguitata da nausea, vomito, barcolla. Portata in ospedale, muore per uno shock settico. Un altro sacrificio utile alla causa. Lo slogan del femminismo sessantottino diventa mortale: «L’utero è mio e così muoio anch’io…». Il rosario di decessi continua: Chanelle Bryant, il 14 gennaio del 2004 per arresto cardiaco, dopo un edema generalizzato e la presenza di un litro di liquido peritoneale, non ce la fa più a vivere... abitava a Pasadena.

Nomi, date che tuttavia non scuotono né coscienze né i capibastone della ditta francese. Il mondo intero è tenuto abilmente all’oscuro di queste morti. Raramente, e additati come profeti di sventura, alcuni giornali mettono in risalto i rischi della kill-pill.

Qualsiasi medico di buon senso richiederebbe accertamenti, indagini, sospenderebbe il giudizio, se non l’applicazione. Parliamo di medici che hanno a cuore la vita, le persone; oggi, purtroppo Erode si veste di bianco: la professione medica è diventata, in certi ambienti, un tradimento del giuramento di Ippocrate (Ippocrate, lo precisiamo per il lettore che lo ignori, non era cattolico, formulò il suo giuramento nel 430 avanti Cristo e il suo giuramento è un laico inno alla professione medica).

Per i problemi, le morti che nel mondo vanno scatenandosi è costretta a muoversi la FDA, siamo nel 2004. Il 5 novembre dello stesso anno, visto il crescente cumulo di morti, la FDA aggiunge informazioni relativi al «rischio di infezioni e perdite di sangue (che) avvengono molto raramente a seguito di aborti spontanei, chirurgici e medici, compresi quelli con il Mifeprex» (6).
La scia di morte, purtroppo, non si arresta (perché dovrebbe?): il 14 giugno del 2005 è il turno (macabro visti i precedenti) di Orlane Shevin, trentaquattrenne figlia del presidente del Comitato nazionale di bioetica francese, il medico Didier Sicard. Vive a Sherman Oaks, in California. Ridondante la sintomatologia che l’accompagna nel feretro: nausea, vomito, dolori addominali. Tempo 12 ore dopo il ricovero e Shevin se ne va per sempre. Il 9 giugno aveva assunto, indovinate un po’?, le due innocenti pasticche.

Il 1° dicembre del 2005, a scanso di equivoci, si pronuncia la più autorevole delle riviste mediche, il New England Journal of Medicine: con il metodo chimico, spacciato per sicuro e indolore, si muore 10 volte di più rispetto all’aborto chirurgico a parità di settimane di gravidanza (fino alla settima) (7).

In poco tempo si viene a scoprire che probabilmente all’aborto chimico si associa l’infezione da Clostridium sordelli, un raro batterio che scatena nella donna infezioni mortali. Il Clostridium sordelli non provoca febbre, la morte giunge inaspettata. Una giovane donna canadese di 26 anni lascia questa vita per uno shock tossico dovuto all’infezione da Clostridium sordelli, sempre dopo l’assunzione di RU486.

Incontrovertibilmente il buon senso è alleato della ricerca scientifica: uccidere il figlio-embrione non è un fatto indolore sebbene la grancassa mediatica continui a sottolineare la procedura come «indolore e innocua».

E l’Italia? Stranamente, sembra tagliata fuori dalle polemiche e dall’uso della RU486. Giungono solo lontani echi delle schermaglie intorno a questa pillola. Su patrocinio dell’OMS, però, nella IIIª Clinica Ginecologica dell’Università degli Studi di Milano dal 1986 al 1989 si effettua una sperimentazione su 200 donne. La clinica è diretta da Pier Giorgio Crosignani.

Scientificamente la RU486 pone tanti problemi, troppo delicati da poterla introdurre a cuor leggero anche in Italia. Ma come accade di sovente, c’è un trucco, una strategia mirata per poterla introdurre da noi. Cominciare a parlarne, gridare al «mancato esercizio del diritto all’aborto», cominciare a far quel «rumore mediatico» necessario perché l’uomo comune sia portato comunque a schierarsi. Chi poteva farlo? Chi sono i campioni del «rumore mediatico»? Ovviamente quelli del Partito Radicale, che hanno una radio di partito per cavalcare le proprie campagne mortifere (aborto, eutanasia) e, sotto la «foglia di fico» delle trasmissioni in diretta dal Parlamento, ricevono contributi dallo Stato senza aver svolto una gara d’appalto.

Così, pian piano, nel 2000 in terra italiana inizia la campagna-RU486. Sono gli esponenti radicali nel Consiglio Regionale piemontese a chiedere perché viene negato l’aborto chimico in Italia. Un autogol visto che, è la risposta, la Exelgyn, la nuova azienda che la distribuisce, dopo la Roussel Uclaf, non ha mai chiesto la registrazione nel nostro Paese del prodotto killer (si capirà poi perché).

Questo a novembre. Già a gennaio però, il 29, il ginecologo Silvio Viale (8), militante radicale diventa l’ariete della RU486. Viale è un medico furbo che recita bene la parte che gli è stata assegnata: omettere informazioni, tranquillizzare le donne sulle morti, banalizzare i rischi, utilizzare da buon radicale la «cosmesi del linguaggio». Ad esempio evita di parlare di aborto dell’embrione. Parla di «espulsione» dell’embrione e non di aborto (9) che è più ripugnante per una coscienza vigile. Si emancipa nel linguaggio strada facendo quando a proposito della RU486 afferma: «E’ naturale che a un flusso di materiale indefinito sia attribuito un valore etico diverso da quello di un embrione, o di un feto, di un’epoca successiva, più formato e più visibile» (10). Flusso di materiale indefinito! E noi pensavamo che il culmine della «cosmesi del linguaggio» l’avesse raggiunta la psicanalista Marisa Fiumanò che a proposito di embrione ebbe a definirlo «materiale sessuale umano» o l’oncologo-nichilista Umberto Veronesi quando parlò di «ovulo fecondato» invece che di embrione (11)!

Viale chiede di poter utilizzare quale metodo di aborto quello chimico. La Direzione dell’ospedale di Torino tentenna. Chiede di predisporre un progetto e la documentazione necessaria (per i radicali è un invito a nozze, già tutto pronto). Un anno e mezzo dopo, ad ottobre, la Commissione regionale di bioetica approva la sperimentazione. Il «Mar Rosso della RU486» si è aperto anche in Italia…

manca l’ok della Consiglio Superiore della Sanità che non tarda ad arrivare (luglio 2004). Il 1° settembre del 2005 le donne «dure e pure» raggiungono la «Terra Promessa» della morte perché, anche in Italia, inizia ad essere usata la RU486. Non senza errori e ipocrisie perché dopo ventuno giorni gli ispettori dell’Aifa, sguinzagliati dal Ministro della Salute Storace, ravvisano anomalie: una donna ha abortito a casa, non dentro una struttura pubblica, un’altra ha avuto un aborto parziale sempre tra le mura domestiche con il rischio di setticemia. Violazione della 194. Ipocrisia su ipocrisia. Si cercano strade giuridiche per conciliare la 194 con l’aborto casalingo dimenticando che la funzione originaria della kill-pill è proprio quella di rendere domestico l’aborto, un aborto fai-da-te… E sulle problematiche mediche, le infezioni, la pericolosità della RU486 Viale delira: «Balle messe in giro dal movimento della vita americano, che sfrutta cinque righe che la FDA ha ordinato di inserire nelle controindicazioni della RU486: la probabilità di morte di un caso ogni centomila è omologa a quella dell’aborto chirurgico. Prendere la pillola abortiva non è più pericoloso che fare un viaggio in auto: se le vetture avessero i bugiardini  le controindicazioni sarebbero più numerose». (12)

Viale, dimostra, se fosse necessario, di non leggere (apparentemente) il New England Journal of Medicine, e di disinteressarsi della FDA. Il progetto di morte medico-culturale deve andare avanti. E così sarà fino ai nostri giorni non senza lasciare interrogativi e dubbi.

Per esempio la strategia della stessa Exelgyn. Ha temporeggiato per mesi e mesi non chiedendo la commercializzazione del prodotto in Italia. Perche? Ovvio: le problematiche poste dalla RU486 devono essere risolte percorrendo la strada della politica e della cultura (così agiscono le lobby).

Allora sponsorizza («golden sponsor») un Congresso della Fiapac (associazione internazionale degli operatori di aborto e contraccezione) il 13 e 14 ottobre del 2006, congresso romano al quale vi partecipano la radicale Emma Bonino, la paladina dell’aborto a tutti i costi, e la comunista Maura Cossutta (rappresenta l’allora ministro della Salute Livia Turco); lo scopo del convegno è «dare supporto alle donne italiane, tra le poche in Europa a non avere ancora l’accesso all’aborto farmacologico. Una violazione dei diritti umani, intollerabile anche da un punto di vista medico» (13). E’ il collasso delle parole: non c’è la RU486? Si violano i diritti umani. L’aborto come diritto umano (sic!). Intollerabile poi da un punto di vista medico! Su tanti camici bianchi gronda sangue innocente (5 milioni circa gli aborti praticati dal 1978 in Italia, una città come Roma) e lorsignori reclamano, urlano di voler applicare ancor più l’aborto… E’ così un gioco da ragazzi, semplice, avere dall’Aifa il placet per la commercializzazione.

Bando ai sofismi e alle omissioni: l’uso della pastiglia RU486 ha come scopo dichiarato (libero ed intenzionale) la soppressione di un essere umano innocente nel grembo materno. Questa pillola non fa che incrementare la menzogna già contenuta nella 194 che all’articolo 1 afferma che «Lo Stato tutela la vita umana sin dall’inizio». Che poi l’aborto sia praticato con un ventaglio di metodi non cambia la natura dell’atto, intrinsecamente e moralmente ripugnante. La natura di omicidio rimane sia se commesso con pistola sia se eseguito con una corda. L’aborto di per sé è e rimane un delitto contro l’uomo. I rischi da uso di RU486 che si è cercato di illustrare non fanno che aumentare il già deciso no all’aborto. E’ solo un’offerta in più per abortire. Per questo è falso il problema: aborto chirurgico o chimico? Il problema è molto più drammatico: può una civiltà consentire per legge l’uccisione dei propri figli, dei propri cittadini? Può un Stato corrompere le coscienze di giovani generazioni mettendo a disposizione uno strumento di morte?

La RU486 è la prima pillola destinata, e da utilizzare, per uccidere selettivamente i bambini in utero. Ha natura essenzialmente occisiva. Culturalmente per la donna rappresenta un salto di qualità. All’indietro. Dopo il già riprovevole aborto chirurgico con questo «pesticida antiumano» (14) per la donna si aprono nuovi subdoli scenari: diventa protagonista della morte del proprio figlio. Non è più il medico che in anestesia uccide il figlio-embrione con una delle tecniche offerte della medicina-omicida, ma è la donna stessa che ingurgitando la pasticca-veleno dà la morte al proprio figlio (15). E’ alla donna che viene chiesto di gestire il processo abortivo. Il medico tutt’al più svolge la funzione di controllo ma non è più parte attiva. Sulla donna non grava più solo la scelta dell’aborto, il «sacrosanto» diritto rivendicato a più non posso dal vetero-femminismo. La donna è costretta a «sentire» il proprio figlio morire. Un salto mortale richiesto dal femminismo. Un doppio salto mortale richiesto dall’emancipazione e un triplo salto mortale dal progresso morale.

Una miscela di morte è ora a disposizione di donne. Un veleno. Lentamente, se ne può percepire il dramma, la donna nel proprio corpo, nel corso di 3-7 giorni, assiste alla morte del proprio figlio-embrione. Assiste, com’è accaduto a molte donne nel mondo, anche di vederne fisicamente l’espulsione giacché assiste ad «un piccolo parto». Ma a rovescio perché, ahimè, la donna nega la vita e la rifiuta in sé. Ancora una volta colei che la natura - e per i cristiani Dio creatore - ha destinato alla custodia della vita, alla sua accoglienza, viene spinta da una tecno-scienza omicida (e da lobby culturali) a fare e farsi violenza. La donna schierata in contrapposizione al proprio figlio, figlio da espellere come un ospite indesiderato, un nemico della propria realizzazione personale. Un’escrescenza da estirpare. Il prima possibile. Prima che un «calcetto» in quel grembo ti faccia avvertire la consapevolezza del divenire mamma.

L’uso della RU486 è anche la conferma dell’eterogenesi dei fini del femminismo: dalla clandestinità delle «mammane» si doveva uscire - asserivano - con la «socializzazione dell’aborto» mettendo (addirittura) a carico del Servizio Sanitario Nazionale (cioè di tutti i contribuenti) le spese per gli aborti praticati negli ospedali. Oggi con la RU486 dalla socializzazione si torna alla privatizzazione dell’aborto. La donna lasciata sola a vivere un dramma che dura, almeno fisicamente come si è cercato di far capire, giorni. E ad essere liberati, altro che liberazione della donna!, sono quelli della classe medica: «non si compromettono carriere, non si impegna la struttura sanitaria, non si immobilizza la sala operatoria, non si candida il proprio reparto a farsi carico della massa di interventi abortivi» (16).

C’è spazio anche per il ridicolo se il lettore ha avuto pazienza nel seguire il percorso di morte tracciato: leggendo la brochure del Mifegyne (il nome commerciale della pillola-veleno) si può trovare scritto che «è particolarmente raccomandata quando la paziente vuole, per motivi personali, interrompere la gravidanza conservando intatta la sua verginità» (17). Dopo la RU486 parlano di verginità… il caos come regola, il disordine morale come virtù, il collasso delle parole come linguaggio comune, la dissoluzione delle coscienze come vivere civile… non si fa molta fatica ad avvertire il ghigno satanico in tutto ciò.

Alessandro Di Matteo


Nella notte del 5 agosto gli angeli sono venuti a prendere il piccolo Andrea  - il figlio della famiglia Di Matteo affetto da una grave patologia cardiaca (LINK) - : il suo cuore ora batte nel cuore di Dio. In cielo è festa per il suo ritorno. EFFEDIEFFE.com si unisce alle preghiere di Alessando e famiglia nella speranza un giorno di poter contemplare la Gloria di Nostro Signore come ora sta facendo Andrea.

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1) Già da qui è possibile scorgere una delle moderne sovversioni della professione medica: un medico è affascinato dall’interruzione di un processo di vita, misterioso e meraviglioso, per offrire alla donna un percorso di morte per sé (dal punto di vista psicologico) e per il figlio-embrione.
2) Queste e molte altre informazioni sono tratte da A. Morresi-E.Roccella, «La favola dell’aborto facile, Miti e realtà della pillola Ru486», Franco Angeli, 2006.
3) Per il protocollo e le procedure si possono consultare www.fda.gov/cder/drug/infopage/mifepristone/default.htm, www.who.int/reproductive-health/publications/safe_abortion/safe_abortion.pdf e  www.ancic.asso.fr/memoire.php.
4) A. Morresi-E.Roccella, «La favola dell’aborto facile, Miti e realtà della pillola Ru486», opera citata, pagine 21-22.
5) S.C. Maitre, P. Bouchard et al., «Medical termination of pregnancy», New England Medical,
2000, 342, 946-56.
6) http://www.fda.gov/cder/drug/infopage/mifepristone/mifepristone_historical.htm.
7) M.F. Greene, «Fatal infections associated with mifepristone-induced abortion», N.Engl. J. Med., 2005, 353, 2317-8.
8) Ecco un breve curriculum medico-sociale di Viale. Presidente dell’associazione radicale Adelaide Aglietta, consigliere di Exit Italia, sodalizio pro-eutanasia. Leader di Lotta Continua, ha scontato 6 mesi di carcere per poi scappare all’estero. E’ stato eletto tra i Verdi nel Consiglio Comunale di Torino, nel 1996 ha proposto la «sperimentazione per la somministrazione controllata di oppiacei». Per far festa con le donne, l’8 marzo del 2004 ha prescritto 100 ricette della «pillola del giorno dopo» distribuendole alle studentesse universitarie che devono coniugare eros e fatica sui libri. Nel suo ospedale ogni anno sono praticati circa 4.000 aborti (il 37% del Piemonte), Il Giornale, 26 settembre 2005.
9) Confronta Il Corriere della Sera, 23.09.2005.
10) Confronta Il Foglio, 24 settembre 2005.
11) La questione non è irrilevante. Se ho in mano una pallina rossa e dico che è rossa il mio interlocutore ha ben chiaro il colore della pallina. C’è una identificazione chiara. Se dico invece che la pallina non è nera lascio aperta la porta per diverse interpretazioni. E’ il trucco utilizzato, finemente, nella «cosmesi del linguaggio». Così, cambiare linguaggio, camuffarlo ha il preciso scopo di voler cancellare dal cuore e dalla mente delle donne (e della coscienza civile) l’esistenza di un delitto e una presenza troppo ingombrante, quella del figlio. Il figlio-embrione è un ostacolo per l’individualismo nichilista.
12) Citato in A. Morresi-E.Roccella, «La favola dell’aborto facile», opera citata, pagina 79.
13) Confronta Avvenire, 17 ottobre 2006.
14) J. Lejeune, «Il messaggio della vita, Cantagalli, 2002, pagina 73.
15) Moralmente il medico rimane responsabile dell’aborto al di là della forma prevista. Se nell’aborto chirurgico la sua responsabilità è diretta perché è lui che materialmente uccide il bambino, nell’aborto chimico è sempre il medico a prescrivere la pillola omicida. In tal caso si può ravvedere in lui una responsabilità morale indiretta. Permane dunque sia a carico della donna che del medico la scomunica dell’aborto come precisato da monsignor Elio Sgreccia, presidente merito della Pontificia Academia pro Vita (Il Corriere della sera, 30 luglio 2009). Si veda il Codice di Diritto Canonico al numero 1398.
16) A. Morresi-E.Roccella, «La favola dell’aborto facile», opera citata, pagine 83-84.
17) Confronta Avvenire, 17 ottobre 2006.


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