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San Giovanni in padella
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Secondo la tradizione, l’evangelista Giovanni - colui che giovinetto posò il capo sul petto di Gesù - fu condannato sotto la persecuzione di Domiziano ad un insolito e atroce supplizio: essere fritto in una grande padella piena d’olio bollente.
Miracolosamente illeso, fu confinato dall’imperatore a Patmos.
Naturalmente questa storia, riferita da Tertulliano, è ritenuta incredibile dalla critica storica laica. Tuttavia, è possibile che la conferma venga da una fonte non cristiana, sia pure in modo criptico: dal satirico Giovenale.
Nella sua Satira IV, Giovenale racconta di un grottesco consiglio imperiale convocato da Domiziano per discutere come cucinare un grosso pesce, pescato nell’Adriatico.
Ma non c’è niente di allegro in questo consesso: ciò che Giovenale descrive è l’incubo di una dittatura mostruosa in cui dovette vivere.

Domiziano, questo «Nerone calvo» (Nerone  come modello del mostro morale), è uno che «ha svuotato Roma di anime insigni, di uomini famosi», mandandone a morte tante per un minimo sospetto.
«Che cosa può esservi di più imprevedibile dell’orecchio di un tiranno:un amico che si metta a chiacchierare del caldo, della pioggia o dei temporali primaverili può rischiare la morte», tanto che «Ormai da un pezzo per un nobile è un miracolo invecchiare».
I delatori sono «appostati da ogni parte».
Persino il barcaiolo che pesca lo strano pesce, di cui si rileva la grossezza insolita, «destìna questa meraviglia a Domiziano. E chi mai avrebbe osato venderla o comprarla, con tutta la spiaggia piena di spie?».
L’imperatore, l’ultimo dei Flavi, ha creato attorno a sé il terrore.
La sua corte è piena di sicofanti, adulatori, delatori complici dei suoi assassinii, eppure essi stessi terrorizzati dal crudele arbitrio del capo supremo.
C’è «Rubrio, colpevole di un antico e innominabile crimine, più sfrontato di una checca», c’è «Pompeo, che fa sgozzare la gente con una semplice soffiata»; c’è «Catullo, l’assassino, un mostro di proporzioni incredibili anche per un tempo di mostri come il nostro, adulatore cieco, cortigiano di strada».
Eppure anche questi esseri ripugnanti «in viso recano impresso lo sgomento per questa  augusta e infausta amicizia».

 

Giovenale descrive qui l’entourage di un antico Stalin, proprio come lo descrisse Kruscev:
le stesse bassezze, la propensione al delitto per godere dei privilegi, la stessa paura di cadere in disgrazia agli occhi del capo sospettosissimo, e precipitare in un attimo dalla vita gaudente della nomenklatura ai sotterranei della Lubianka.
In quell’atmosfera da incubo, anche i buoni si corrompono, diventano vili.
Crispo, per esempio, è «un  vecchietto amabile un’anima mite, la cui facondia è pari solo al suo carattere. Certo, un consigliere ideale per chi reggeva terre mari e genti, se sotto quella peste sanguinaria fosse stato possibile condannare la crudeltà ed esporre un parere onesto. Ma cosa può esservi di più imprevedibile dell’orecchio di un tiranno? […] Per questo Crispo non si pose mai contro corrente: non era uomo capace di esprimere liberamente il suo pensiero o di sacrificare la vita alla verità. Così poté vedere molti inverni e l’ottantesimo solstizio, difeso da queste armi anche in quella corte».
Sì, un’intera generazione di russi  ha vissuto questo clima sovietico, in cui era impossibile esprimere liberamente il proprio pensiero, e ben pochi scelsero di «sacrificare la vita alla verità». Anche sotto Stalin, nella sua corte più intima era «impossibile condannare la crudeltà ed esprimere un pensiero onesto».
Domiziano si trova ad Albalonga, «che sebbene in rovina conserva ancora il fuoco venuto da Troia», quando gli presentano «il grosso pesce».

E’ quasi come se Giovenale fosse stato presente: «La folla stupefatta per un poco gli ostacolò l’ingresso», al pesce e al suo catturatore.
Chi componeva quella folla stupefatta, e perché cercò di impedire che il «pesce» fosse presentato al tiranno?
Nella chiusa della Satira, Giovenale dice: «Solo quando cominciò ad averne terrore il popolino [Domiziano] cadde: questo gli fu fatale, mentre ancora grondava del sangue dei Lami».
La parola usata per «popolo» è «cerdones», una plebe di piccoli artigiani.
Che abbiano cercato di proteggere il «pesce»?
Ma non precorriamo i tempi.
Dunque Domiziano si trova ad Albalonga quando riceve il ragguardevole dono.
Subito convoca il consiglio per decidere come cucinarlo.
Accorrono «coi mantelli svolazzanti» i delatori, i leccapiedi, i complici e i vili che non osano dire la verità, spaventati, pronti a qualunque adulazione.

Catullo l’assassino si produce «in sperticati elogi, mentre il pesce giaceva alla sua destra».
Veientone «non è da meno, ma come un fanatico ispirato dal delirio profetizza: Magnifico augurio! Sublime e memorabile trionfo avrai!».
Questo adulatore aggiunge: «Questa grossa bestia è straniera» (peregrina est belua, v. 127) ,
«e poco mancò che ne precisasse patria ed età».
Dunque uno «straniero», di cui si può precisare patria ed età: non è un po’ troppo, per un vero pesce?
Domiziano vuol sapere se «tagliarlo a pezzi».
Ma  Montano, altro adulatore: «Lungi da lui questo affronto: si trovi piuttosto una padella profonda (testa alta) con orli sottili…».
L’idea piace.
E il tiranno scioglie la seduta.
«Ordina di andarsene ai dignitari, che il sommo duce aveva convocati tremebondi e in gran fretta nella rocca d’Alba, come se volesse discutere dei Catti o dei minacciosi Sigambri, come se da terre lontane gli fosse giunto per corriere un messaggio angoscioso. Oh, se avesse speso solo in queste sciocchezze la sua vita efferata!».
Dunque il grosso rombo straniero viene messo in padella in un pezzo solo.
E se «non c’è padella che possa accogliere un tal pesce», la si fabbrica.
Più sopra, qualche altro sicofante precisava che quel pesce «res fisci est», ossia «apparteneva al fisco».
L’ipotesi avanzata da Marta Sordi (1) e dalle sue allieve romaniste è che qui si alluda al «fiscus judaicus», ossia alla lieve tassa, introdotta da Vespasiano, con cui gli ebrei potevano esentarsi da tutti gli atti di culto pubblico, compreso quello all’imperatore.

L’ebraismo era religio licita, religione riconosciuta.
Ma proprio Domiziano aveva inasprito questa tassa, attorno all’anno 90-92, quando erano diventate più frequenti le delazioni contro uno strano gruppo di persone: gente che viveva «alla giudaica» pur non dichiarandosi ebrei («improfessi»).
E chi potevano essere questi «improfessi», che nell’imminenza della persecuzione dei cristiani avrebbero potuto salvarsi dall’esecuzione capitale solo dichiarandosi ebrei e pagando la didracma, eppure non lo facevano?
Certo il motivo non era una furbesca evasione fiscale.
E se non erano ebrei, cosa impediva loro di bruciare incenso all’immagine dell’imperatore?
Sappiamo da Dione Cassio che Domiziano mandò al supplizio molti nobilissimi romani perché «avevano deviato verso costumi giudaici» e per «ateismo» (non sacrificavano al numen imperiale). Gente del suo «entourage» più stretto, della sua stessa famiglia, della «gens Flavia».
Il più noto è Flavio Clemente: che era addirittura console mentre fu giustiziato, carica  cui non si accedeva senza il benvolere imperiale: il che dice la subitaneità dei mutamenti d’umore di Domiziano, che vedeva dappertutto congiure contro di sé.
E infatti da una congiura fu eliminato, nel 95.
Ossia pochi mesi dopo il consolato di Flavio Clemente, passato dagli onori al patibolo in quello stesso anno.
«Domiziano uccise fra molti altri Flavio Clemente mentre era console, sebbene  fosse suo cugino», racconta Dione, «e avesse in moglie una parente, Domitilla».

Si tratta di Flavia Domitilla, della gens imperiale, mandata in esilio a Pandataria come Giovanni fu mandato a Patmos.
«Rinfacciava ad ambedue l’accusa di ateismo, per la quale furono condannati molti altri che deviavano verso usi giudaici».
Dunque «ateismo» e «costumi giudaici» erano tutt’uno.
Si trattava di nobilissimi «improfessi», che pur di non dichiararsi ebrei non pagavano il fiscus judaicus.
E si noti che un’aperta professione di ebraismo, la conversione all’antica fede giudaica, a quel livello sociale, avrebbe comportato il disprezzo e il ridicolo, ma non la morte.
D’altra parte, il non pagamento del fiscus judaicus comportava una multa, non certo la pena capitale.
Infatti la Chiesa venera questo console Flavio come San Clemente, martire.
Ma c’erano «molti altri», dice Dione: alcuni sono sicuramente degli stoici, poco propensi a divinizzare un imperatore, dunque sospetti di pensare ad altra forma di governo (rerum novarum molitores); molti senatori; molti devono essere stati cristiani.
Un cronografo indipendente da Dione, Brutius, dice chiaramente di una Flavia Domitilla mandata in esilio a Ponsa per cristianesimo.
Attenzione: non è la stessa Domitilla moglie di Flavio Clemente, bensì nipote e omonima.
Insomma in famiglia erano tutti cristiani?
Secondo Marta Sordi, ad un certo punto Domiziano prese la decisione di «colpire il cristianesimo nella aristocrazia», una tendenza che gli era ben nota (erano suoi parenti e cortigiani), e per questo «si mise a riscuotere con più asprezza il fiscus judaicus», come strumento smascheratore:
e i delatori e i leccapiedi di cui Giovenale parla con disprezzo devono essersi scatenati in soffiate e accuse anonime, la delazione fruttando parte dei beni del denunciato.
Così, in quel periodo di terrore, il console Flavio Clemente cadde in disgrazia «repente ex tenuissima suspicione».
E fra i molti altri, per le stesse accuse, Acilio Glabrione, che «era stato console insieme a Traiano», insomma un governante d’alto livello (gli imperatori condividevano il consolato con personalità che intendevano onorare in modo particolare).
Ma in più, su Glabrione pesò un’altra accusa: d’aver combattuto nel circo con le belve.
Era una situazione vergognosa per un nobile.

Ma da Dione Cassio sappiamo che era stato Domiziano stesso a costringere Glabrione a questo:
«Domiziano aveva concepito contro di lui un’invidia profonda, soprattutto quando lo aveva costretto, mentre era console, durante gli Juvenilia di Alba, ad uccidere un grosso leone, e quello non solo non ne aveva avuto danno alcuno, ma lo aveva sistemato con destrezza».
Attenzione: il fatto avvenne ad Alba, ossia ad Albalonga.
Lo stesso luogo dove Giovenale situa la scena della sua satira, il tragicomico consiglio che si riunisce per sapere come cucinare il «grosso pesce», la «belva straniera» che finirà in padella:
la figura in cui pare di riconoscere Giovanni evangelista.
E’ una interessante coincidenza, e non la sola.
Giovenale pare alludere anche a Glabrione.
Senza farne il nome, beninteso.
Dice: «Ormai da un pezzo per un nobile è un miracolo invecchiare… A nulla gli è servito, pover’uomo, aver trafitto in corpo a corpo gli orsi di Numidia, indifeso cacciatore nel circo di Albalonga».

Qui si descrive un tipo di spettacoli chiamati «venationes» (le cacce), dove  gli uomini che combattevano contro le belve erano privi di armature e protezioni (talora nudi) e armati di una corta lancia soltanto, o anche solo di un gladio.
Erano per lo più schiavi o criminali condannati, e le loro esibizioni forzate avvenivano al mattino, prima che il circo si riempisse di spettatori che accorrevano, nel pomeriggio, a vedere i gladiatori professionisti, famosi e spesso strapagati.
I «venatores» non avevano il prestigio dei veri gladiatori.
Erano carne da macello.
Dunque ad Alba, Glabrione fu trattato da carne da macello, e scampò grazie alla sua atletica abilità militare.
La Numidia essendo l’area africana compresa fra Marocco e Tunisia, zona non famosa per gli orsi, «orsi di Numidia» non è che una contorta  perifrasi poetica per leoni.
Del resto a Roma gli elefanti.
Quando Pirro li portò in Italia, furono chiamati «buoi di Lucania».
Perché Giovenale non nomina Glabrione, ma vi allude come al «pover’uomo»?

Forse per la stessa ragione per cui non parla dell’ebreo Giovanni se non come di «grosso pesce» straniero.
Tutta la satira quarta è un dire e un non dire.
Anche i nomi dei delatori sono inventati.
Da una parte, il satirico allude qui a fatti troppo noti al suo tempo per aver bisogno di precisazioni. Dall’altra, i tempi erano tali da consigliare la reticenza.
Si era appena usciti dall’incubo del terrore di Domiziano, e nulla garantiva che il prossimo imperatore non avrebbe fatto peggio.
Nerva era un buon imperatore, ma vecchio: morì infatti solo tre mesi dopo essere succeduto al tiranno.
Tempi duri per gli scrittori, e per i testimoni del tempo.
Come nell’URSS di Stalin, dove Bulgakov scrive «Cuore di cane» che è una satira feroce del ceto dei funzionari comunisti, sub-umani e arrivisti, ma in modo tale da poter dare l’impressione che tutto sia il divertissement di una fantasia scatenata.
E già così il rischio era enorme.
Doveva esserci anche un interdetto sottinteso a non parlare di «cristiani».

I cristiani erano seguaci di una «religio illecita», e per di più, a quanto pare di constatare, erano numerosi nell’alta società, e di questi si faceva finta di non conoscere l’appartenenza, quando dominava una certa tolleranza di fatto.
Anche i delatori li denunciavano come «improfessi», di aderenti a «costumi giudaici».
Così si lasciavano una via d’uscita: quando accusavano i parenti dell’imperatore, lasciavano all’imperatore la possibilità di risparmiarli, comminando una multa o l’esilio, oppure di giustiziarli applicando loro l’etichetta proibita, e la parola vietata, «cristiani».
Ed anche questa reticenza l’ha conosciuta chi ha vissuto nei regimi del terrore del nostro secolo.
I nomi di Trotzky e degli alti dirigenti sovietici che Stalin accusava venivano cancellati persino dalle enciclopedie.
Lo stesso termine «trotzkismo» veniva evitato dai giornali, e si parlava di «deviazionismo di destra», di «cosmopolitismo» o altre metafore del genere: e tutti capivano al volo che si colpivano i trotzkisti.
Dunque possiamo ricostruire la storia così: l’evangelista Giovanni, un noto capo degli innominabili, viene identificato probabilmente in una città adriatica (Ancona?).

Per paura delle spie e dei delatori, chi lo ha identificato lo consegna.
L’apostolo viene condotto ad Alba, dove già l’imperatore  ha condannato Acilio Glabrione
il console, in un macello di cristiani.
Forse una piccola folla di «cerdones», di artigiani, cerca di salvare il prigioniero?
Non possiamo dirlo.
Certo è che la piccola folla non osa atti di forza, fa resistenza passiva: vige il terrore.
Si tiene un consiglio, tra il serio e il ridicolo.
Somiglia alle famigerate cene di Stalin dove i nomenklaturisti si ubriacavano non osando rifiutare l’ennesimo brindisi del compagno Josip, tremando e ridendo degli insulti che venivano loro rivolti dal tiranno, e ballavano sul tavolo agli ordini del dittatore (Kruscev lo fece e lo ammise lui stesso). Quello «straniero» appartenente al «fisco giudaico» era una grossa preda.
Può darsi che nel consesso si scherzasse sulla sua natura di selvaggina.

Ma non lo si trattò come «una grossa lepre» o «un cinghiale», bensì come un pesce, un enorme rombo.
Il pesce, sappiamo, era il segno di riconoscimento dei cristiani.
Un segno criptico, ma certo noto a quel consesso di delatori ben informati.
Dunque, ecco gli scherzi atroci e sinistri attorno all’antica figura bianca: «Un bel pescione! S’è fatto pescare lui stesso!».
Di qui dev’essere nata l’idea di friggerlo come un pesce.
In una padella ben profonda, sulla sua misura.
In un mare d’olio bollente.
Accadde l’indicibile?
Che faccia avrà fatto il tiranno, se davvero l’olio bollente risparmiò Giovanni?
Ebbe paura?
Sappiamo solo che un uomo, poco dopo, avrebbe scritto: «Io, Giovanni, vostro fratello e a voi associato nella tribolazione e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos,
a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Rapito in estasi nel giorno del Signore, udii una voce possente…».
E’ il prologo dell’Apocalisse.
Giovanni, se quell’uomo era lui, doveva essere ottantenne, se era un adolescente quando posò il capo sul petto del suo Messia.
L’anno doveva essere il 95, pochi mesi dopo Domiziano sarebbe stato pugnalato.

Sappiamo che Giovanni terminò il suo scritto ad Efeso, dove andò - presso il luogo dove s’era addormentata la Vergine, quella che prese come Madre - quando fu liberato (2).
L’Apocalisse sfolgora oscuramente di quel potere-bestia, di quel potere che si vuol far adorare, della Babilonia meretrice: l’esperienza di chi ha vissuto il terrore di Domiziano, «grondante del sangue dei Lamii», ma legge, fra metafore tremende, come imperio dell’Anticristo, perché lui c’era, il cristiano.


1) Marta Sordi, «I cristiani e l’impero romano», Jaca Book, pagine 76-81.
2) Nerva, che succedette a Domiziano ucciso, fra i suoi primi atti eliminò l’estensione della tassa giudaica agli improfessi, vietando le delazioni in proposito. E celebrò questa amnistia in una moneta da lui emessa, in cui è scritto: «Fisci judaici calumnia sublata», ossia: tolta la delazione calunniosa dal fisco giudaico.