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And the winner is…
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«Il vincitore delle primarie è Israele», mi dice via mail un amico blogger americano.
E’ stanco e irritato dalle primarie, che i nostri giornalisti TV descrivono con rapimento, come l’apparizione di Santa Democrazia.
In realtà, l’assurdo meccanismo del voto «privato» (le primarie sono elezioni private) sta selezionando, come al solito, i candidati autorizzati.
Ciò che vollero i padri fondatori, latifondisti oligarchi, ben consci di costruire «una repubblica, non una democrazia».

Forti dubbi avanzano sui brogli («non illegali», in elezioni private): gli exit poll sono smentiti dai risultati in modo troppo evidente.
O è l’elettorato americano che mente ai sondaggisti?
La sola cosa che emerge è una frammentazione irriducibile, aspra, della società.

Sul versante repubblicano, McCain viene già proclamato il selezionato presidente, ma in realtà non può raccogliere, nelle presidenziali vere, i voti del Sud cristianista e biblico; e i suoi concorrenti come Romney, continuano ad ottenere suffragi, i loro seguaci non demordono.
E nemmeno quelli di Ron Paul.
«Frange» che non scompaiono, nonostante tutti i trucchi dei media e dei capi-partito.
Dissidenze interne che possono esplodere in fratture visibili, segno di candidature che non propongono un futuro cui la maggioranza possa credere.

Pat Buchanan nota come i candidati si rifacciano a figure del passato, a Reagan, a Kennedy.
Ma Reagan e Kennedy non si atteggiavano ai presidenti di ieri, agli Eisenhower e ai Roosevelt: indicavano «nuove frontiere», o «città luminose sulla collina».
Obama dà qualche speranza in più?
Il suo slogan è «Yes, we can», e dicono che trascina: ma, ironizza Tom Engelhardt, «We can… but what, exactly?».
«Sì possiamo, ma cosa precisamente?»
Per la sua vacuità programmatica, sicuramente lo adotterà anche Veltroni (già famoso per
«I care»).

Sul lato democratico, la spaccatura è visibile, tra Hillary e Obama.
La loro novità è tutta inquadrata dal clichet: «la prima donna-presidente» e «il primo presidente nero», due «trasgressioni» politicamente corrette che tengono il posto della rivoluzione necessaria. Resta che nessuno dei due viene indicato come il selezionato certo, incontrovertibile.
Per il resto, l’essenziale, c’è «una cosa» che unifica i semi-programmi e le mezze promesse degli aspiranti.
Repubblicani o democratici, donna o nero, «religioso» e no, tutti sono per Israele.

McCain ha canterellato «Bomb, bomb, bomb Iran», e da allora il senatore Lieberman invita tutti gli ebrei a votare per lui e soprattutto a finanziarlo, perché «è l’uomo che meglio capisce la natura della minaccia islamica che ha di fronte il nostro alleato Israele».
Quanto a «Hillary e Obama», essi «competono per il voto e le donazioni ebraiche», scriveva già nel marzo 2007 il New York Times (1): «La signora Clinton segue una comprovata linea che le ha dato il seggio senatoriale a New York: sostenere Israele fino all’estremo. […] Israele merita «tutto quanto il nostro aiuto», all’Iran «non sarà consentito di avere armi nucleari»…

Non ci sono sfumature, in madame Clinton, quando si tratta di Israele.
Obama ha dovuto risalire la china: sbadatamente, aveva detto che «nessun popolo soffre come quello palestinese».
Ha dovuto aggiungere: «Per colpa di Hamas».
Ha dovuto promettere: «La sicurezza di Israele viene prima di tutto per l’America in Medio Oriente».
Il rabbinato e l’AIPAC sono rimasti a lungo diffidenti, ma ora sembrano più tranquilli: le prove di servilismo che Obama ha dato devono aver convinto.
Il perché di tutto questo è ovvio.

Non sono i voti degli ebrei a contare (uno zero virgola), ma i loro soldi.
Un autore ebraico, J. H. Goldberg, nel suo saggio «Jewish Power - Inside the Jewish Establishment», valutava – all’inizio degli anni ‘90 - che il 45% dei fondi del Partito Democratico e il 25% di quello Repubblicano venivano dai vari «PAC» (Political Action Committees) formati dagli ebrei.
Un recente articolo di Richard Cohen sul Washington Post portava queste percentuali più in alto: oggi, il 65% dei fondi democratici (così necessari a campagne miliardarie) e il 35% di quelli repubblicani vengono da portafogli ebraici.

Con questo, è detto tutto: quando gli ebrei ti pagano metà delle spese o i due terzi, non puoi urtare la loro irritabile suscettibilità.
Mai un presidente americano sarà indipendente rispetto alla «sicurezza di Israele».
Trovo questi dati in un libro assai coraggioso fin dal titolo, «The power of Israel in the United States», di James Petras, professore emerito di Sociologia alla Binghamton University,
New York (2).

Petras intende smentire, con dati di fatto, le tesi di parte della sinistra americana (e anche italiana), espresse nel modo più aperto da Noam Chomsky: «Israele è lo strumento della politica imperiale USA».
Chomsky sostiene che la lobby israeliana non è altro che una lobby fra le altre, non più potente della lobby petrolifera o del complesso militare-industriale.
Se la lobby ebraica riesce meglio ad affermare le sue vedute, è perché queste coincidono con la volontà imperiale USA.
Gli interessi di entrambi coincidono oggettivamente.

La guerra in Iraq è stata fatta «per il petrolio».
Le politiche americane in Medio Oriente non sono diverse da quelle che l’America imperiale applica nelle altre aree del mondo.
Petras invece spiega che nessun’altra lobby, né Big Pharma né Big Oil né l’agribusiness, hanno la stessa dominante influenza della formazione della decisione politica di Washington.
Nessuna è così «interna» al potere - basta dire che i tre vice ministri di Rumsfeld, Wolfowitz, Feith e Zakheim, che portarono all’invasione di Iraq e Afghanistan, erano tutti ebrei - come la lobby ebraica.

Petras dimostra ad esempio che, contrariamente a quel che si dice nei bar (o da Bruno Vespa), l’invasione dell’Iraq non è stata nell’interesse delle imprese petrolifere: anzi, «Big Oil» tentò di opporsi al progetto, temendo che la guerra avrebbe danneggiato i loro affari in corso e le loro prospettive con gli altri Paesi petroliferi dell’area.
Big Oil ha sempre preferito la stabilità e «relazioni normali» con i dittatori locali.
La lobby ebraica ha invece ottenuto la guerra in vista dell’interesse esclusivo di Israele e del suo progetto di lungo termine: l’egemonia regionale in Medio Oriente, attraverso lo smembramento degli Stati circonvicini in entità sub-statali, su linee etnico-religiose.
Per esempio, con l’occupazione, «l’84% delle istituzioni di alta istruzione irachene sono state incendiate, saccheggiate o distrutte» secondo l’ONU.
L’84% delle università, e inoltre musei archeologici, biblioteche e archivi; centinaia di professori universitari, e persino di medici, sono stati fatti oggetto di assassinii mirati.
A che scopo?
Vogliamo credere che sia «Al Qaeda» a commettere questi assassinii, oppure l’Iran?

Se l’Iran ha una mira, non è quella di distruggere l’identità irachena, ma di guadagnarsi la maggioranza degli iracheni, che sono sciiti.
E nemmeno gli americani hanno fatto cose simili durante le loro occupazioni.
O almeno, non così sistematicamente.

L’esempio viene dalle tecniche applicate sulla striscia di Gaza: distruzione sistematica di case, coltivazioni e moschee, cancellazione della storia e dell’identità araba, riduzione dei palestinesi a «belve» impazzite, messe alla fame, che si combattono l’un l’altra.
E’ lo «stile Israele» che tracima e si afferma, dice Petras, anche nella vita civile americana: la legalizzazione della tortura ne è un esempio.
La possibilità di detenere una persona senza processo e senza accusa formale, purchè sia definito come «enemy combatant», è un’altra.

Sono violazioni enormi della Costituzione, dice Petras, che passano solo perché l’influenza della lobby è così pervasiva e onnipresente nei media, nelle università, nel mondo degli affari, e così «interna» al governo stesso, da impedire ogni reazione, da tacitare ogni voce critica.
Fino al punto che, per il sociologo, oggi si è instaurata «una tirannia di Israele sugli Stati Uniti», con conseguenze gravi per la stabilità e la pace mondiale, per l’economia e la stessa democrazia americane.

La radice del potere ebraico sta nel fatto che, nonostante la piccola percentuale ebraica nella popolazione americana, il 25-30% delle più ricche famiglie USA (secondo l’annuale classifica di Forbes) sono ebree.
Non si tratta solo di ricchezza, ma di un’influenza immensa su ogni livello decisionale della vita comune.
Persino i leader «religiosi», i telepredicatori, sono completamente dipendenti da questa influenza, quando si tratta di definire l’atteggiamento verso Israele.
Non è nemmeno il caso di continuare ad usare il termine di «Jewish Lobby».

Petras preferisce parlare di «Zionist power configuration», di cui la lobby riconosciuta e propriamente detta (l’AIPAC, American-Israeli Political ActionCommittee) non è che una rotella di «una complessa rete di gruppi interconnessi, formali e informali, operanti a livello internazionale, nazionale, regionale e locale», tutti concentrati «come un laser» sullo scopo unico di sostenere lo Stato d’Israele in tutte le sue più discutibili azioni, pulizie etniche, genocidi a rate, guerre d’aggressione, e di silenziare ogni obiezione.

Questa «Configurazione sioniste del potere» «controlla la selezione dei candidati politici, può sconfiggere aspiranti che osassero criticare Israele» può «far licenziare giornalisti che non collaborano e anche docenti universitari»; chi «non sta allineato e coperto» può essere sbattuto fuori «bandito dai media mainstream».

E’ un libro da leggere.
E da ricordare, quando i nostri inviati del TG ci raccontano rapiti di come Obama, la speranza, sta per superare Hillary, la prima donna forse presidente.


1) Patrick Healy, «Clinton and Obama court jewish vote», New York Times, 14 marzo 2007.
2) James Petras, «The power of Israel in the United States», Clarity Press, 2006.