Porto Cervo, Kolyma
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Un amico che è stato in Costa Smeralda mi racconta: a Porto Cervo, il mega-yacht attraccati sono un terzo del solito. È effetto della crisi, e ancor più il durevole risultato della tassazione punitiva inflitta da Mario Monti e dal fido Befera sulle «imbarcazioni di lusso», che ne colpisce il possesso e anche lo stazionamento nei nostri porti: un regalo ai porti esteri concorrenti (1). In compenso, i finanzieri sono scatenati nel braccare l’evasore, raddoppiano gli sforzi del controllare e molestare i pochi miliardari che arrivano. Non so nemmeno se crederci, ma pare che quando in uno dei mega-yacht c’è una festa, le fiamme gialle si presentano alla passerella e pretendono di avere la lista dei nomi degli invitati (sospetti evasori).

Il risultato di questa poliziesca molestia è ovvio: l’indomani il mega-panfilo è scomparso dal molo. Ha levato l’ancora prima dell’alba, ed ha diretto la prua verso la Costa Azzurra, Baleari, Montecarlo o Mikonos o una delle cento isole greche, felici di accogliere ricconi che si divertono e spendono in loco. Gli yacht infatti sono muniti di motori (in quel caso potenti), dunque si spostano facilmente in altro Stato, cosa che i nostri valorosi poliziotti tributari, e nemmeno il nostro geniale Mario Monti, sembrano aver ancora afferrato — forse per questo si accaniscono con tanto gusto sui beni «immobili», così facili da tassare e tartassare, il sistema fiscale italiota essendo evidentemente al passo dei tempi in cui «ricchezza» erano «i terreni», tempi ahimè tramontati.

Sapete (o forse no) come è finito il tentativo dello Stato di vendere Poveglia, un’isola di Venezia, anticamente usata come lazzaretto e poi ospedale psichiatrico. Un’isola intera di 75 mila metri quadri, 5 mila di edifici, completa di chiesetta ed attracco. Il Demanio si aspettava l’arrivo di frotte di miliardari esteri decisi a strapparsi Poveglia a suon di milioni; si è presentato un italiano, tal Brugnaro, ed ha offerto 500 mila euro. Il Demanio ha rinunciato alla vendita (anche per le proteste di cittadini tipo No-Tav che «allora la compriamo noi», hanno fatto una colletta e hanno messo insieme 160 mila euro...). Il motivo per cui gli abbienti esteri sono stati alla larga, lo spiegava il Guardian raccontando la vicenda: uno straniero che compra una villetta in Italia deve dichiarare al fisco italiota tutti i beni immobili che detiene in qualunque altra parte del mondo. Non c’è un motivo tecnico per saperlo; è chiaro che nonostante la sua bramosia di mettere le mani su qualunque cespite imponibile, i nostri uffici tributari difficilmente potranno esigere un prelievo da una casa di Sausalito, una villa di Soci, o un grattacielo di Manhattan che sono già tassati in patria. È solo la voglia di vessare, importunare, e ficcare il naso nei fatti privati di ognuno che, possedendo qualcosa, è per questo solo fatto un sospetto.

L’amico mi racconta addirittura questi episodio: all’aeroporto di Olbia atterra un piccolo jet privato. Il proprietario a bordo, un russo, è diretto alla Costa Smeralda. «Ha valuta da dichiarare?». Sì, risponde l’oligarca, e mostra quel che ha: 20 mila euro. In contanti. Potete a malapena immaginare l’eccitazione dei nostri segugi di Stato; sentono il sangue. «Perché in contanti? Che cosa vuol farne?». Il russo, già un tantino alterato, replica che sono fatti suoi. Ma sì, vuole spararsi i 20 mila in Costa Smeralda come butta butta, Champagne, escort, il celebrato Made in Italy, regali in gioielleria alle figliole... «Aspetti qui», e lo chiudono in una saletta – mi par di vederla , di quelle con le poltroncine dozzinali coperte di plastica verdona e il calendario storico delle Fiamme Gialle scaduto. Lo fanno aspettare. Telefonano. Poi gli presentano un foglio: «Firmi questo modulo dove lei dichiara che i ventimila bla bla bla..».

Il russo, invece di firmare, sibila: «Ridatemi il passaporto, subito». Dice qualcosa al suo pilota. Risale sulla scaletta del suo jet privato, e l’apparecchio decolla. Verso Montecarlo, probabilmente. Ma non è che manchino luoghi per divertirsi e spararsi ventimila euro nel Mediterraneo, a portata di un mezzo serbatoio di cherosene. Solo la Sardegna resterà senza quei ventimila. Niente escort né gioielli, niente rinomato Made in Italy, niente fiumi di Chivas Regal al Billionnaire.

L’amico mi dice che molte delle famose ville della Costa Smeralda, le celebri ville delle celebrità, i ben noti VIP internazionali da rotocalco, hanno il cartello «Vendesi» o «Affittasi», e l’erba alta che si secca nei giardini, evidentemente i proprietari non pagano più i giardinieri (sardi). Per contro (leggo dai giornali): «A Londra gli italiani primi nell’acquisto di case di lusso: scavalcano i russi». Hanno fatto incetta di appartamenti da 5,5 milioni di euro l’uno a Knightsbridge, Chelsea e South Kensington... complimenti, molestatori di ricchi.

Per combinazione o disgrazia, il resoconto dell’amico i giunge proprio mentre sto rileggendo Imperium, raccolta di reportages in cui Ryszard Kapuscinski, il migliore degli inviati speciali, alla caduta dell’Unione Sovietica, ne ripercorre luoghi, persone e ricordi anche personali (da polacco, ha personalmente sentito quel tallone sulla sua schiena). Ora, questo mi ha fatto sorgere un’associazione di idee; se la troverete alquanto sforzata, non posso che darvi ragione. Ma tant’è.

A Kolyma, desolata sterile stesa di ghiaccio oltre il Circolo Polare, si trovò l’oro. Nel 1931 il Comitato centrale del PCUS vi creò un bacino minerario; il compito di fornire lavoratori fu affidato all’insonne NKVD (poi KGB), che vi instrada centinaia di migliaia di prigionieri, per la durata di 25 anni. Scheletri viventi, spesso anzi già morenti o decisamente defunti. «Varlam Salamov narra del piroscafo Kim con tremila prigionieri chiusi nella stiva. Durante la navigazione c’era stata una rivolta e le guardie avevano avuto l’idea di sedarla allagando le stive con getti d’acqua. A quaranta gradi sottozero. Arrivarono solo dei pezzi di ghiaccio». Un carico completamente andato a male, tremila lavoratori che mancano alle miniere. Credete che le guardie venissero punite? In certo senso sì. «Il primo dicembre 1937 Berzin (il comandante dei lager di Kolyma) viene richiamato a Mosca; Stalin lo fa fucilare perché non si era mostrato abbastanza severo».

I sostituti lo supereranno in zelo. Indimenticabile il colonnello Stepan Garanin , il nuovo comandante dell’insieme dei lager della Kolyma (UsvitLag), specie le sue visite a sorpresa nei campi distaccati. Arrivava in auto con la sua scorta in un camion, tutti belli caldi nei pellicciotti di montone rovesciato, la Mauser al fianco. «Avete prigionieri che scansano il lavoro?», chiedeva torvo al maggiore del NKVD che comandava il lager. «Sì», rispondeva quello. Una dozzina di prigionieri deve fare un passo avanti. «Ah sì? Non vi va di lavorare, brutti figli di puttana?». Estratta la Mauser, sparava a tutti. «E di primatisti, di quelli che superano la norma lavorativa, ne avete?». Si fa avanti un’altra dozzina, speranzosi, magari riceveranno un pezzo di pane...». «Dei nemici del popolo che superano la norma lavorativa, eh?», urla Garanin: «Maledetti nemici del popolo, quelli come voi vanno sterminati..». Pam! Pam! Pam!, ed altre dieci persone giacciono sulla neve sporca in un lago di sangue. Lui aveva lo sguardo più calmo. Il comandante del lager scorta gli illustri e graditi ospiti verso la mensa per il banchetto che li aspetta, felice di non essersi beccato una pallottola pure lui. Se gli girava, Garanin sparava anche ai comandanti. Sotto Garanin regnava l’arbitrio più sfrenato» (Anatoli Zygulin, Czarne Kamienie). (2)

Voglio dire: non so le cifre, ma non credo che fosse molto l’oro che da Kolyma giunse mai a Mosca nelle casse del CC del PCUS. Come non credo che l’accanimento della Finanza in Costa Smeralda abbia aumentato il gettito. Con quei metodi, in entrambi i casi, non me ne stupirei.

Il punto è che la scarsa produzione e l’infimo rendimento, basse e borghesi preoccupazioni economiciste, non turbavano il NKVD; il suo scopo non fu mai quello di produrre profitto e lingotti, quanto di terrorizzare, umiliare, vilipendere, far regnare sui suoi tormentati sudditi sovietici l’arbitrio più totale. In questo, lo splendido apparato repressivo ebbe un successo lusinghiero che tutti gli riconoscono; l’economia sovietica, in compenso, è collassata fra industrie obsolete che producevano merci invendibili, scarsità, sprechi, corruzione e furti; fino a mangiarsi l’intera ricchezza del fertilissimo e ricchissimo Paese, e financo 60 milioni di russi che, ingoiati dal GuLag e dalla guerra, mancano nelle statistiche demografiche: un buco, un enorme vuoto che solo ora si sta cominciando faticosamente a colmare.

Vi avevo avvertito che il paragone è sforzato. Ma è ben noto che lungi dall’essere la «dittatura del proletariato» favoleggiata dalla propaganda comunista, l’URSS era una dittatura della burocrazia. La più totale e totalitaria delle dittature burocratiche che mai si sia avuta nel mondo, ossia la più perfetta. Serrato l’immenso territorio fra reticolati e matasse di fili spinati, la burocrazia poté appagare il suo sogno, il suo ideale più pieno: un universo ermeticamente chiuso in cui poteva controllare ogni azione, ogni respiro, ogni spostamento e persino ogni pensiero dei suoi milioni di sudditi. In cui ogni attività economica privata era vietata e punita con 25 anni di Lager (niente più evasori!), in cui le imprese erano dirette da burocrati secondo un piano di Stato e tutti i lavoratori erano dipendenti pubblici stipendiati dall’erario, in cui milioni di ministeriali raccoglievano infaticabilmente dossier, basati su delazioni e denunce anonime, su milioni di sudditi sospetti per principio – per il solo fatto di esistere – di sabotaggio, intelligenza col nemico, critica al regime, pensare con la propria testa.... Dove la polizia poteva pretendere di sapere chi avevi invitato in casa tua (tanto, erano i vicini in coabitazione forzata a fare la delazione) e di che cosa avevate parlato, arrivava di notte e ti arrestava di fronte ai figli e alla moglie senza dover spiegare l’accusa... in breve, un paradiso del controllo total-burocratico per il quale valeva la pena di pagare il prezzo della produttività bassissima e della qualità orrenda, la mancanza di profitto, lo spreco e la più immane dissipazione di ricchezza. Valeva la pena, s’intende, per i burocrati al comando. La Nomenklatura.

Ebbene, datemi del pazzo, ma oso dirlo: secondo me, tra l’universo concentrazionario sovietico e l’apparato tributario repressivo-ficcanasale che il mio amico mi ha descritto attivissimo in Costa Smeralda, c’è sì una differenza grande: ma è solo una differenza di grado, non di natura. Anche i nostri valorosi cacciatori di evasori aspirano a irrompere negli yacht dove stranieri fanno festa e «raccogliere le generalità» di tutti i presenti, ficcare il naso negli affaracci loro, esigere «adempimenti» e un centinaio di «documenti comprovanti il diritto a..», compiere espropri, minacciare di gattabuia; non ci riescono perché avendo il nostro Politburo Supremo ratificato le norme della globalizzazione, la malaugurata libera circolazione di uomini-merci-capitali, mettere il sale sulla coda dei milionari è impossibile – e il ripetuto tentativo, risibile. Ma ci provano. Si capisce che il colonnello Garanin buonanima è una specie di ideale burocratico di tutti, eurocrati e banchieri centrali compresi: «Nemici del popolo che superano la norma?! Pam! Pam! Pam!». Evasori? Partite Iva? «Kulaki, dove nascondete le sementi, farabutti! Le sottraete all’ammasso! Pam!Pam! Pam!». Purtroppo non si può. Ma almeno, si può – applicandosi con accanimento nell’opera punitiva e preventiva – mandare via ricchi, far delocalizzare imprese e imprenditori di successo, stendere sulla popolazione il grigiore pauperistico ed ugualitario del sospirato regime di cui la Nomenklatura ha tanta nostalgia.

È noto per esempio che chi possiede una Ferrari, viene continuamente fermato con la paletta da finanzieri che vogliono sapere chi è e cosa dichiara di tasse; cosa che potrebbero sapere senza disturbare il cittadino, solo che consultassero i loro archivi ormai su Intranet e incrociassero i dati in base alla targa. Ma ciò che vogliono loro, è proprio molestare il ricco, vessare il professionista, frenarlo (magari sta andando a un appuntamento d’affari), ostacolarlo, fargli sapere che «ti teniamo d’occhio». Danneggiare l’economia, è un costo che accettano con voluttà, pur di «controllare».

Riconosco di essere suggestionato da Kapuscinski e dal tuffo nelle memorie sovietiche cui mi ha costretto. Ma una volta dentro, non faccio che vedere attorno, nell’Italia di oggi, i segni e gli indizi del degrado sovietico, di cui il nostro Paese mi pare l’ultima realtà sopravvissuta. In forma attenuata magari, ma inequivocabile.

Per esempio: nei giorni scorsi sono tornato a Genova, città dei miei genitori e dove ho passato le mie estati infantili. Generale senso di incuria aggravata, decadenza più avanzata, l’urbanistica monumentale fascista unica testimone di tempi migliori, abbandonata all’erosione salina e alla mancanza di manutenzione. Per raggiungere la stazione Principe e tornare a Milano, scopro, c’è una metropolitana! Meraviglia della modernità nell’arretratezza, non l’ho mai usata. Salgo e scendo alla fermata «Principe»: mi aspetto ovviamente di sboccare nella stazione ferroviaria con quel nome. Macché. La fermata Principe ti abbandona vicino al porto, o quel che rimane del porto obliterato e decaduto. Per raggiungere la stazione vera, devo fare settecento metri di un’erta salita, una salita genovese, trascinando la mia pesante valigia.

Pardon, ho detto «trascinando»? Mi correggo: portando sollevata. Come sapete, le burocrazie italiane, locali, regionali o nazionali che siano, non hanno ancora preso atto di un decisivo progresso: che le valige, oggi, hanno le ruote. Più precisamente, si rifiutano di agevolare il viaggiatore – cittadino dunque evasore, o straniero dunque da far fuggire – consentendogli di fruire di quel progresso tecnico. Dovunque ci sia da prendere treni, tram, traghetti ed aerei, si ingegnano di a) non prevedere scale mobili per superare i dislivelli, per esempio dal metrò ai treni, b) se non possono farne a meno, sono scale mobili guaste in eterno e mai riparabili, onde tutti siano costretti a salire scalinate il più possibile lunghe e verticali. c) esclusi gli scivoli di ogni tipo. d) Nei tratti pianeggianti, si sforzano di mettere in opera le più celebri pavimentazioni archeologiche: acciottolati, selciati, pavé settecenteschi, lastroni di porfido della gloriosa rete viaria romana – tutto specialmente dissestato, in modo da rendere inservibili le ruote delle valige moderne, o ancor meglio danneggiarle irreversibilmente.

In questo tratto in salita, che i viaggiatori sono obbligati a percorrere perché la Fermata Principe non è a Principe ma ben lontana e ben al disotto, il comune di Genova ha superato tutti gli altri enti locali in zelo persecutorio: lastroni sconnessi, rappezzature di asfalto grossolane, pietre asportate, nulla è stato lasciato d’intentato allo scopo di ogni nomenklatura: rendere sgradevole la vita del cittadino, del passante e del viaggiatore nazionale, e allo straniero, sia turista o (peggio) uomo d’affari, fargli capire che è odiato e non si metta in testa di tornare mai più.

Tornato a Milano, m’è presa la curiosità: perché la fermata Principe della metro genovese non arriva a Principe ma si ferma tanto prima? Una ricerca dal web mi restituisce la spiegazione della Giunta: «Sono mancati i fondi».



Il metrò, Stazione Principe. La vera stazione ferroviaria sta altrove.

Capito? Sono mancati i fondi. Insomma, si sono messi a scavare la metro non da dove agli utenti era utile che partisse – la stazione FS di Principe, appunto – ma a casaccio altrove, più precisamente vicino alla sede della Regione. Hanno divorato tutto il divorabile: quello di Genova è il metrò più costoso d’Europa, basta dire che il tratto da Di Negro verso Principe, 700 metri, è costato cento miliardi di lire del ’92: un miliardo e mezzo al metro, e poi sono finiti i soldi... Quindi niente, chi vuole scenda e vada a piedi fino alla stazione FS.

Il fatto è rivelatore di tutta una psicologia delle burocrazie pubbliche, parassitarie e inadempienti; la costruzione del metrò non è mai stata intesa a servire effettivamente la gente, i viaggiatori; mai per un momento la nomenklatura genovese s’è messa nei loro panni ed ha pensato a come rendere loro un cordiale servizio. Il vero ed unico scopo è stato: la distribuzione delle fette di torta, le commesse della grande opera, eccetera.

Negli anni ’60, quando la classe sovietica moderò il suo apparato repressivo, ancora fece danni enormi. Ai kolkoziani attorno al Mar d’Aral fu ordinato di coltivare cotone «anche sui campi fertili, i giardini, i frutteti. Disperazione e spavento dei contadini privati degli unici beni che possedevano: un cespuglio di ribes, qualche albicocca, un angolo d’ombra. Si coltivò il cotone sotto le finestre di casa, nelle aiuole dei fiori, nei cortili. Al posto delle cipolle, olive e cocomeri, si coltivava il cotone». Dei venti milioni di persone che vivevano in campagna due terzi lavorava il cotone.

La Direzione centrale del PCUS non si fermò nemmeno quando i villaggi pescherecci si scoprirono essere a 70 chilometri dal Mar d’Aral, che si era prosciugato e ritirato di tanto, in conseguenza del disseccamento del Syr Daria e dell’Amu Daria per l’idrovora monocultura del cotone, gli enormi fiumi che lo alimentavano. Un disastro ecologico senza precedenti e irreversibile. Tutta un’agricoltura varia e fiorente «frutteti giardini, capre e pecore», spariti. «Milioni di persone si aggirano senza lavoro, la vita è spenta». Era la mafia di Breznev che guadagnò da questa rovina: «intascavano cifre astronomiche dallo Stato sovietico in cambio di fittizie centinaia di migliaia di tonnellate di cotone».

A Genova, il porto fu uno dei più importanti in Europa. L’architettura fascista, come dicevo, testimonia di un passato glorioso e dovizioso. Fino agli anni ’70 vi erano aperti un consolato USA e uno sovietico. Oggi non c’è più nulla, il porto funziona praticamente come attracco dei traghetti per la Sardegna, le grandi industrie di stato sono chiuse, tutto è prosciugato e sterile. Il porto, fonte di potere e di soldi, è sempre stato saldamente in mano alle tre cosche dominanti in città: Massoneria, Partito Comunista nelle sue varie denominazioni, e i camalli: la compagnia di scaricatori comunisti che ha imposto il monopolio della sua opera, impedendo o ritardando tutte le innovazioni tecnologiche ed operative che li avrebbero sostituiti. I mille camalli uniti nella cosca (compagnia) ancora oggi si dividono un fatturato di 30 milioni di euro l’anno. Ma il porto è morto, strangolato, soffocato. Prosciugato come l’Aral. Alle navi conviene scaricare a Rotterdam e portar le merci in Italia su camion.

Ora, ho una domanda: il declino del porto non è venuto come un lampo. È durato quarant’anni. Il saldo sistema che dal porto ha tratto denari e potere ha avuto tutto il tempo di pensare a qualche alternativa, farsi venire delle idee creative, magari per cambiare destinazione (3). Niente. Non ne è stata capace. Non ha voluto, la supercosca è restata aggrappata al potere e ai soldi che diminuivano, ha lasciato decadere e scrostare la città attorno, senza mai un cambiamento: paura barbina di far entrare nel loro recinto di potere qualche personalità ed aria nuova, capitali non collusi o non gestiti dai quattro masson-comunisti. Lo scandalo Carige – cassa di risparmio di Genova – dove i padroni si sono mangiati il mangiabile, è esploso a sigillare questo fallimento storico, ideologico e persino intellettuale. Come la mafia brezzneviana, i complici «si spartivano plusvalenze in parte fittizie» e le trasferivano all’estero su conti propri, sorvegliati dalla loggia massonica ticinese «Il Dovere».

La nomenklatura sovietica non fu capace, non ebbe una sola idea per rovesciare il suo stesso declino. Come noto, aveva privilegi, negozi speciali dove poteva acquistarsi a prezzi risibili i lussi vietati alla popolazione. Alla fine del regime, dice Rysziard, anche quei privilegi avevano qualcosa di patetico rispetto a quelli che nel sistema liberista si può comprare un ricco vero. Si riducevano a colossali apparati hi-fi, stecche di sigarette Kent e bottiglie di Johnny Walker. Ah sì, c’era anche il caviale...

Dai giornali genovesi dei metà agosto: «Genova - «Nei provvedimenti urgenti da inserire all’interno del decreto Sblocca Italia sulle opere cantierabili che il premier Matteo Renzi si prepara a varare a fine agosto bisogna inserire i finanziamenti per la prosecuzione del metrò verso il levante genovese». Lo chiede in una lettera inviata al Ministro per le infrastrutture Maurizio Lupi l’assessore regionale alle infrastrutture Raffaella Paita».





1) Dal 1 maggio 2012 «le navi ed imbarcazioni da diporto nazionali ed estere, che stazionino in porti marittimi nazionali, navighino o siano ancorate in acque pubbliche anche se in concessione a privati, sono soggette al pagamento della tassa per ogni giorno o frazione di esso», si legge nella manovra. Ben 7 euro giornalieri per le imbarcazioni da diporto di lunghezza da 10,01 metri a 12 metri; 12 euro per quelle di lunghezza da 12,01 metri a 14 metri; 40 euro per le imbarcazioni da 14,01 a 17 metri; 75 euro per quelle da 17,01 a 24 metri; infine 150 euro al giorno per le navi da diporto di lunghezza da 24,01 metri. Questo il provvedimento contenuto all’interno della bozza.
2) Farà piacere sapere che dopo un anno di tale direzione, questo Garanin fu accusato da Beria di spionaggio: per il Giappone, Paese di cui forse mai aveva sentito parlare. Fucilato sui due piedi.
3) Se qualcuno vi dice che Genova si è convertita in città della cultura, rinnovata e resa bella dall’archistar Piano, gloria locale, invitatelo a leggere i commenti su Tripadvisor: «La visita all' Acquario di Genova mi ha lasciato un senso di tristezza non tanto per la chiusura di alcune vasche per ristrutturazione ma proprio per la generale fatiscenza che si percepisce appena varcata la soglia d'ingresso. Attualmente la «nave blu» è in ristrutturazione e quindi chiusa al pubblico, il prezzo dell'ingresso all'acquario (19 euro per adulto) è comunque pieno con un buono sconto di 5 euro spendibili al museum shop o da riutilizzare come buono sconto entro un anno per una seconda visita all' Acquario. I corridoi che conducono alle vasche sono sporchi...ho avuto l'impressione che il personale impiegato non fosse numericamente sufficiente soprattutto per la pulizia della struttura e dei bagni lerci». Un altro: «Notavo la quantità di macchine rubate/abbandonate lungo la rampa elicoidale di Genova Ovest, praticamente c’è una fila di auto, semi smontate ed incidentate. La cosa peggiore è che quella è la via d’accesso al terminal traghetti, quindi è una zona battuta dai turisti in entrata ed uscita dal porto. Ottimo biglietto di presentazione, no?». Eccetera. Fate una gita a Boccadasse, potenziale haut lieu di un turismo di alta qualità, e vedette le case liguri con gli intonaci colorati....che furono colorati, ed oggi sono scrostati per l’abbandono definitivo della manutenzione. Locali fanno i bagnanti sulla ghiaia sporca. Cartacce e cicche dappertutto. Non manca l’opera benemerita e infaticabile degli anonimi che graffitano la loro firma sui palazzi, per far sapere di esistere – un decisivo aiuto al turismo, che imperversa in tutta Italia.



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