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Attacco al Motu proprio: da Martini a Jesus (2)
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Dominicus è la pubblicazione periodica della Provincia Domenicana «San Domenico in Italia».
Se fosse vivo, povero San Domenico, non reggerebbe; sono sicuro: un rogo, piccolo piccolo, ma lo accenderebbe.
Non per certi suoi «confratelli», che pure almeno una scottatina se la meriterebbero, ma per la loro rivista sì.
Nel numero 4 del bimestre settembre-ottobre 2007, quasi in simultanea con il documento dei responsabili della Settimana liturgico-pastorale della Comunità monastica di Camaldoli, l’Istituto di Liturgia Pastorale dell’Abbazia di Santa Giustina di Padova e l’Associazione Professori e Cultori di Liturgia (APL), di cui ho riferito nella prima parte, fra Riccardo Barile o.p. (nomen est omen) svolgeva sulla citata rivista domenicana alcune considerazioni sul Motu Proprio (1) partendo da una domanda: «La simpatia crescente per il vecchio rito pone delle domande: c’è stato un difetto di attuazione della riforma? I liturgisti sono riusciti a comunicarne le motivazioni al popolo di Dio e a farla amare?».

Rispondo - per dirla alla Crozza - pacatamente e serenamente: no, sono riusciti a farla detestare.
Lo dico pur frequentando regolarmente Messe celebrate con il Novus Ordo, quando non mi riesce di spendere tra andata e ritorno quattro ore di tempo e venti euro di benzina e autostrada per andare a «udir Messa», pardon «partecipare alla celebrazione eucaristica» in quel di Bologna, presso la Chiesa di Santa Maria della Pietà, detta dei Mendicanti in via san Vitale, 112.
Tutto quanto potevano fare per rendere alla lunga problematico, quando non urticante assistere alla Santa Messa l’hanno fatto ed anche di più: dimentichi di celebrare in persona Christi si sono trasformati in «Pippibaudi dell’Eucaristia», prendendo abusivamente il posto di Colui che ne è Ostia, cioè vittima e quindi Sacrificato oltrechè Sacrificatore: la «tragedia» del Sacrificio si è mutata nella «commedia» della cena fraterna e talvolta nel self-service conviviale.
Si fossero limitati a questo!
Nient’affatto.
Hanno deciso che anche noi dobbiamo far parte del cast, siamo obbligati a partecipare allo «spettacolo».

Qualcuno, più d’uno (certamente io) s’è scocciato.
A Messa ci vado con la morte nel cuore: sogno un sacerdote afasico, che celebra con la maschera d’argento, anonimo, umile, devoto, che non sorride, non ammicca, non esorta: fa «il suo mestiere» e lo fa bene; non cerca di compiacere, di persuadere, di colpire.
Vorrei andare alla Messa non di don Tizio o di don Caio; vorrei andare alla Messa.
Vorrei vivere un Mistero piccolo e immenso in silenzio, un’ora alla settimana, vorrei stare in chiese silenziose e raccolte, vorrei incontrare il Signore e non la «curva sud» fatta di chitarre, maracas, tamburi, bonghi, battimano e ritmi ancestrali; vorrei stare coi miei fratelli in contemplazione di quel Mistero che solo Lui ci fa fratelli, perché ci ha redenti dal nostro peccato, dal nostro comune peccato originale e dai nostri comuni peccati attuali: miserere nobis.
Vorrei stare in silenzio, con un po’ di timore per quello che vi accade, a sentire il mio cuore che parla con Lui e Lui che parla al mio cuore.
Vorrei…
Nossignore, verboten: vietato.

Domanda. C’è stato un difetto di attuazione della riforma?
No.
Purtroppo c’è stata la riforma.
C’è nostalgia del passato?
No, c’è nostalgia della Messa.
Tutto qui: «Chi si mette all’aratro e poi si volta indietro non è fatto per il Regno dei cieli».
La Messa, cari e vari Barili, non ha tempo.
E’ l’Eternità.
E’ questo che i «vari Barili» non hanno capito.
E infatti il Barile di turno non capisce e scrive. «la nostalgia dell’Egitto e la tentazione di ritornarvi accompagnarono l’esodo» (Es 13,17; 14,11-12; 16,3; 17,3; Nm 11,5.18,20; 14,2-4): così anche nella vita della chiesa, venendo meno la generazione che ha iniziato svolte significative e persistendo il peso della difficoltà quotidiana, nasce la tendenza a tornare indietro.
Pover’uomo, prigioniero del tempo!
Lui forse ha nostalgia della sua giovinezza ormai passata e della sua giovanile, prometeica voglia di rifare il Mondo e la Chiesa!
Lui forse palesa la stanchezza di desolanti speranze deluse!

Io no, non ho nostalgie, né speranze: ho voglia di incontrare il Signore, finchè Egli si fa trovare, perché so che il tempo è breve.
Cristo il mondo non lo cambia, l’ha vinto.
Cristo la Chiesa non l’aggiorna, la santifica e la vivifica col Suo eterno sacrificio.
Non è un sociologo: è semplicemente - ma forse è troppo poco per un moderno teologo e liturgista - il Salvatore del Mondo!
E’ qui la differenza, è qui che non capiscono.
Il tempo da cercare non è ieri o domani: è il «sempre», ove contemplare il Signore!
Alla Sua luce potrò amare perfino certi domenicani… anche se - confesso - con un po’ di difficoltà!
«Il giorno dell’indulto - così il «padre» Barile definisce il giorno in cui il Motu proprio viene promulgato (la lingua, evidentemente  parla della sovrabbondanza del cuore!) - il telegiornale di RAI2 ha trasmesso la dichiarazione di un prete lefebvriano, che ha usato l’espressione ‘la Messa di sempre’, che è un assurdo storico e teologico (semmai la Messa di sempre è l’ultima cena), senza che gli sia stata opposta altra dichiarazione chiarificatrice».
Fateci caso: questa frase è da sola un indicatore.

Il Vetus Ordo è il giorno dell’indulto, quasi si trattasse di condonare un reato (per loro evidentemente lo è).
L’insistenza su di un termine che venne usato nel 1984 per il «Quattuor abhinc annos», emesso dalla Congregazione per il Culto Divino e che concedeva la facoltà di usare il Messale Romano edito da Giovanni XXIII nell’anno 1962, ha lo scopo di fossilizzare quasi nella fattispecie delittuosa la celebrazione con il Vetus Ordo.
L’invidia per i fratelli cattolici della Fraternità San Pio X poi, che in quella giornata dell’estate scorsa vedevano riconosciuta la giustezza di una battaglia che era costata anni di persecuzioni dolorosissime, emerge dalla stizza per il risalto dato loro dai media.
L’idea che la Messa sia non già l’attualizzazione del Sacrificio della Croce, quanto essenzialmente la «Cena del Signore» la dice lunga sulla consistenza del pacchetto azionario luterano nella teologia «cattolica» attuale.

Il livore si trasforma talvolta in rammarico: la colpa - dice il «padre» Barile - sta nel cedimento di Woityla.
Cedere un poco, ha significato capitolare: «Infatti, l’attuale distinzione tra l’espressione ‘ordinaria’ della preghiera della chiesa (il Messale di Paolo VI) e quella ‘straordinaria’ ma attuale e praticabile (il Messale del 1962) (SP 1) era implicitamente contenuta nei testi citati dell’Ecclesia Dei afflicta e su di essi si fonda. Ora, se a qualcuno viene concesso di celebrare la Messa - e non solo la Messa - com’era prima di questa riforma, più che dalla riforma liturgica non si concede una dispensa dalla Sacrosanctum concilium? E stante il valore simbolico della liturgia, non si concede di fatto una dispensa... dal Concilio? Certo, nessun dubbio che il Papa abbia l’autorità di farlo e massimo rispetto per le sue determinazioni, ma la domanda resta».

Esatto: è possibile essere cattolici ed ottenere una dispensa dal Vaticano II?
Risposta. Sì, certamente sì, non essendo stato quello un Concilio dogmatico, ma pastorale.
Ma il bello viene ora.

Pensavate voi che il Vetus Ordo fosse solo uno scelus, un delitto?
Vi sbagliavate: il Vetus Ordo è quasi un «peccato contro natura».
Infatti l’analogia immediata per il «padre» Barile è con le coppie di fatto.
La Chiesa - sissignori! - avrebbe dovuto trattare le pretese dei tradizionalisti più o meno lefebvriani così come tratta le pretese di gay, lesbiche e trans.
Avrebbe cioè dovuto ragionare con la logica dei DICO: «Tutti conoscono - scrive il ‘padre’ Barile - l’obiezione cattolica ai DICO: le leggi che ci sono basterebbero per regolare rapporti patrimoniali ed economici, mentre la teorizzazione di un nuovo rapporto tra i sessi fa saltare la famiglia e diventa un modello pericoloso. Come sempre, il rigore della morale sul sesso si allenta quando si passa alla liturgia..., eppure anche qui sarebbe stato possibile ragionare come sui DICO: le leggi che c’erano sarebbero bastate per praticare l’antica liturgia, mentre l’aver teorizzato una forma ordinaria e straordinaria (SP 1) diventa un modello alquanto pericoloso, nella misura in cui è una ‘novità’ rispetto a quanto sino ad ora si è fatto e a quanto si è richiesto di obbedire. Si dice che l’antico rito, proprio perché antico, veicola una tradizione e dei valori da non perdere, e dunque può essere praticato… Bene: allora, se l’antichità del rito del 1962 viene riabilitata, è perché si vuole rimettere in vigore la teologia veicolata da questo rito, che forse non si considera sufficientemente accolta e integrata nella riforma».

Infatti torna il problema: lex orandi, lex credendi.
In realtà costoro della liturgia se ne fanno un baffo.
Sanno che al di là di essa sono i contenuti della Fede che devono tornare ad essere messi in discussione e che i temi sollevati dai cattolici della Fraternità San Pio X e dagli altri movimenti e gruppi fedeli alla Tradizione non potranno più essere elusi.
Lo sanno e digrignano i denti: «La sensazione - scrive il Barile - è che in tutta la questione i lefebvriani dettino l’agenda e le condizioni con un metodo classico di conquista: prima ci si impadronisce di un territorio, poi si tratta cedendo qualcosa, ma conservando ciò che non si sarebbe mai ottenuto limitandosi dall’inizio a obbedire e a trattare».
La parola d’ordine è quella di resistere.
Il messale di Paolo VI - Giovanni Paolo II è divenuto la linea del Piave.
Il Papa lo ha già detto chiaramente nei suoi scritti: la riforma del 1969 è stato un vulnus per la Chiesa.

Lo sanno e rafforzano le fortificazioni: «In altri termini, si rischia di avviare una seconda riforma liturgica parallela  all’attuale e a partire dall’uso del Messale del 1962. L’effetto domino si completa con la possibilità di erigere una ‘parrocchia personale’ (SP 10) e a questo punto si accetterà non solo una differenza rituale, ma anche un ambiente legittimato a rilanciare un nuovo - cioè vecchio - modo di pensare la Chiesa, il suo rapporto con l’ecumenismo, con la società, con la politica, insomma con il mondo».
Questo perché «la liturgia fa la Chiesa e la Chiesa fa la liturgia» vale anche per la liturgia del 1962.
Facendosi scudo perfino del cardinale Siri e della sua obbedienza, contrapposta alla «ribellione» lefebvriana, scatta poi la rabbia per non essere più nel «cuore del Papa»: sono innegabili gli scritti e le simpatie del teologo Ratzinger per la Messa tridentina, come le foto di lui celebrante tra neotradizionalisti.

Tutto questo genera difficoltà nel rapportarsi al Papa da parte di alcuni uomini di Chiesa: sembra che si faccia qualcosa per evitare la divisione, ma solo da una parte (destra): il Papa è veramente convinto quando afferma la bontà della riforma liturgica oppure lo dice per dovere, mentre il suo cuore è nel concedere l’indulto?
Noi - cristiani normali - ci governa, quelli - dell’indulto - li ama...
Un po’ hanno ragione, ma è una conseguenza: a forma extra-ordinaria, corrisponde amore extra-ordinario.
Occorre che se ne facciano una ragione… o si con-formino.

Conclusione del «padre» Barile: per ora resistere al Vescovo di Roma (così luteranamente definito) e attendere che la dialettica storica (hegelianamente sottesa) realizzi attraverso l’astuzia della Ragione un più alto livello di sintesi.
Conformarsi al divenire storico, significa per costoro conformarsi a Dio, perché ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale.
Papale, papale - casomai con loro quest’espressione abbia un senso - scrive infatti il Barile: «Ma la conclusione è il rispetto della storia che è anche il rispetto di Dio che agisce nella storia. Nel rispetto di tutte le dinamiche umane, Dio ha voluto Ratzinger come vescovo di Roma e con lui il Motu proprio. Per ora Dio chiama i liturgisti ad agire in questo contesto, senza cercare di osteggiare il Motu proprio, ma lavorando con alacrità e gioia nel rinvigorire la liturgia corrente affinché, parafrasando 2Cor 5,4, già da ora ‘ciò che mortale’ della liturgia del 1962 ‘venga assorbito dalla vita’ della liturgia riformata dopo il Vaticano II».

Il fatto è che la fine del «vaticansecondismo» significherebbe la fine di un sistema, di un regime, di una cultura, di una struttura di potere che ha occupato e soffocato la Chiesa.
Della liturgia gliene importa poco: « Il problema – scrive il ‘padre’ Barile - non è il qualche centinaio o migliaio di fedeli in più che celebreranno secondo il precedente Messale, ma la mentalità che ne deriva e i principi posti circa la non abrogazione, le parrocchie personali, il potere dei parroci e la debolezza dei vescovi nell’attuazione dell’indulto».
Poi quella preoccupazione che deve aver tolto il sonno a molti aspiranti monsignori e teologi: «Forse per le nomine episcopali e di altri posti di responsabilità si resterà attenti che i candidati siano favorevoli alla mentalità del Motu proprio».

Quando si dice una Chiesa rinnovata e tutta spirituale…

(2. - continua)

Domenico Savino



1) Dominicus, Pubblicazione periodica della Provincia Domenicana «San Domenico in Italia» - numero 4 settembre - ottobre 2007, Summorum Pontificum, Considerazioni di fra’ Riccardo Barile, pagine 163.


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