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Obama, «uomo nuovo»
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STATI UNITI - «Ho avuto un sostegno più forte nella comunità ebraica che in quella musulmana»: Barak Obama ha ringraziato così, nell’aprile scorso, il National Jewish Democratic Council (1).

Tanti saluti alla figura dell’«outsider» che ha mandato all’aria i piani della macchina del partito democratico, dell’uomo votato «dalla gente» che ha superato Hillary Clinton, sostenuta dai poteri forti.

Questa immagine, creduta vera anche da vari democratici americani (come Alex Cockburn) (2), ha bisogno di una revisione.

Già nel 1996, quando concorse per il Senato in Illinois, Obama ottenne l’appoggio di Alan Solow, un ricchissimo avvocato di Chicago e pezzo da novanta della comunità.

Nel 2004, quando concorse per il Senato federale, al suo fianco ebbe Roberts Schrayer, un miliardario «filantropo» ebreo di Chicago.

Nel 2006, quando il «negro che parla da bianco» s’è buttato nella campagna per ottenere la nomination democratica, chi ha scelto come fund-raiser, ossia raccoglitore di fondi?

Alan Solomont, altro «filantropo» (miliardario) di Boston, famoso come finanziatore di John Kerry, quando costui tentò la corsa alla presidenza USA nel 2004.

Veniamo a marzo 2007.

Obama, ormai candidato, pronuncia il suo primo discorso di politica estera (materia di cui lo si sa poco competente).

E dove sceglie di farlo?

Alla sede dell’AIPAC, American Israel Public Affair Committee, ossia la super-lobby israeliana che - nonostante due suoi dirigenti siano inquisiti per spionaggio contro gli USA e per Giuda - resta il massimo «sdoganatore» e finanziatore di aspiranti candidati, potendo mobilitare milioni di dollari per quelli filo-giudaici, e liquidare quelli che non si profondono in elogi del Quarto Reich.

All’AIPAC, Obama ha detto allora: «Non dobbiamo escludere qualunque opzione contro lIran, compresa quella militare, anche se una diplomazia costantemente aggressiva, unita a durissime sanzioni, dovrebbe essere il nostro mezzo primario per impedire allIran di costruirsi armi nucleari».

Aggiunse che «una presidenza Obama non chiederà mai ad Israele di rischiare in termini di sicurezza. Einteresse di Israele fare la pace in Medio Oriente, ma non al prezzo di compromettere al sicurezza di Israele».

Mesi prima, in una conversazione, Obama s’era lasciato scappare la seguente frase: «Nessuno ha sofferto più dei palestinesi».

Ha dovuto spiegarsi e correggersi: «Intendevo dire che nessuno ha sofferto più del popolo palestinese a causa del rifiuto dei loro capi di riconoscere Israele e di impegnarsi seriamente nelle trattative di pace e sicurezza nella regione».

L’AIPAC, dapprima, è rimasta critica: dopotutto, Obama non ha promesso l’opzione militare contro l’Iran come primo mezzo, e quella frase sui palestinesi svelava un certo retro-pensiero… non a caso, nei sondaggi, Hillary continua ad essere la preferita tra gli ebrei: 53% contro 38%.

Ma la potente comunità giudaica della sua Chicago è tutta dietro di lui, e deve aver fatto notare che il filo-sionismo di Obama è testimoniato dai suoi voti in Senato.

E’ stato lui il promotore di una legge per il disinvestimento in Iran.

Il suo consigliere sul Medio Oriente è l’ebreo Dennis Ross, ebreo, che era consigliere di Clinton per la stessa causa, e che è noto per dichiarare che se Israele assedia, affama ed ammazza a Gaza, è solo colpa dei palestinesi.

Si dà del tu con rabbi David Saperstein, il capo della lobby ebraica «riformata», e con Nathan Diament, il capo-lobbista a Washington per la comunità «ortodossa».

Più di recente, Obama ha fatto dichiarazioni sul fatto che i palestinesi devono riconoscere Israele come «Stato ebraico», ossia razziale.

E rinunciare al «ritorno» dei profughi.

Inoltre, s’è rifiutato di dare una data per il ritiro delle truppe dall’Iraq, ha proclamato la sua volontà di intensificare le azioni militari in Afghanistan ed è a favore di incursioni in Pakistan alla caccia di Osama bin Laden.

Nella sua campagna presidenziale, ha ampiamente pubblicizzato di aver ricevuto molti fondi da piccoli donatori, dalla gente comune.

Ma il grosso della sua cassa è stato riempito da altri personaggi: i finanzieri George Soros e Warren Buffett, la famiglia Hyatt (hotel di lusso), senza contare la famiglia Henry Crown (il fondatore dell’Aspen Club, un miliardario finanziere di Chicago che è al numero 68 nella lista dei 500 uomini più ricchi d’America stilata da Forbes), e Paul Tudor Jones, in grosso speculatore in futures su materie prime del Tennessee, ecologista fanatico, che possiede (tra l’altro) un immenso parco naturale nel Serengeti, in Tanzania.

In generale, «Obama ha raccolto più fondi a Wall Street che Hillary Clinton, e persino più che Rudy Giuliani», ha scritto il sito World Socialist Website (WSW) (3).

Il vero mistero è come mai, con questi sostenitori e pagatori alle spalle, Barak Obama ha potuto passare per il giovane studioso venuto, dal nulla, l’americano di prima generazione che a forza di studi può aspirare alla presidenza, il «mezzo negro africano» (in USA, per correttezza politica, lo chiamano «bi-racial», perché sue padre è un Luo del Kenia e sua madre una bianca) che adesso antagonizza i capi-bastone del partito democratico, i grandi manovratori del voto.

E’ probabile che questa immagine gli sia stata creata addosso dal sistema stesso.

Dato quel certo umore di «anti-politica» che corre anche in USA, una parte dei capi-bastone ha pensato di offrire al pubblico esasperato dai disastri di Bush e dalla complicità della maggioranza democratica in quei disastri, una figura che faccia sognare in qualche «rinnovamento»

o cambiamento radicale della situazione.

E il marketing ha funzionato: ai caucus dello Iowa s’è vista una partecipazione (quasi) massiccia, con un grande numero di giovani a votare Barak.


La realtà è quella che descrive WSW: «Obama è specializzato nella vuota retorica a base di parole comecambiamentoeunità’… la stessa vuotezza del suo messaggio fa sì che gli elettori ostili a  Bush e disgustati dallavecchia guardiademocratica proiettino i loro desideri di cambiamento su un politico che non presenta alcuna sostanziale differenza rispetto ai suoi rivali democratici».

«Il suo chiacchierare diunificare e non dividereè calcolato per oscurare la realtà di una società divisa in classi», prosegue il WSW, che è ovviamente un sito marxista.

«Non ci può essere unità di intenti tra la classe dei miliardari che sequestrano una parte sempre maggiore della ricchezza nazionale, e la grande maggioranza che lavora per campare e non riesce ad arrivare a fine mese».

Marxista, ma coglie nel segno.

In fondo, il WSW sta dipingendo Obama come una specie di Veltroni americano: e difatti Veltroni è la risposta allo stesso umore cosiddetto «antipolitico» che cresce da noi, e la stessa risposta illusoria.

Non a caso, già il Manifesto, Liberazione e Repubblica fanno il tifo appassionati per Obama-Veltroni.

Lo stesso trucco pare aver funzionato nel partito opposto, il repubblicano.


Qui l’uomo «venuto dal nulla» e «scelto dalla gente» è Mike Huckabee, il predicatore battista che «parla come noi», ed ha attratto i voti dei cristiani rinati delusi da Bush, i messianici rurali e operai devoti, ma ora preoccupati, più che di accelerare il Secondo Avvento, di non finire schiacciati dalle tasse e dalla recessione.

Nel programma di Huckabee c’è un tratto interessante: vuol abolire l’imposta personale e sostituirla con una tassa sui consumi, compensata - nel suo effetto regressivo - da provvidenze per i poveri.

In qualche modo, Huckabee è più rivoluzionario di Obama: ma i repubblicani, dopo Bush, dovevano dare un segnale di cambiamento più deciso.

Il loro candidato preferito, Rudy Giuliani sta affondando nel nulla.

Il perché è intuibile.

 

Se stavolta la gente rifiuta Hillary e Giuliani, allora ripieghiamo su Obama e sul predicatore. Tutti e due sono meglio del vero pericoloso avversario, Ron Paul.

I grandi media (posseduti dal big business) hanno fatto cose incredibili per non far sapere al pubblico che esiste un candidato chiamato Ron Paul.

La CNN è giunta al punto di elencare tutti i punteggi dei candidati democratici nello Iowa, compreso il 2% di Giuliani e lo zero virgola di Bill Richardson, ma è riuscita a dimenticare il 10% di Ron Paul.

Anche alcuni nostri lettori hanno scritto di essere delusi dalla prova di Ron Paul, che ha avuto meno di 12 mila voti: ma queste sono le cifre della democrazia reale nel mondo reale americano.

Si aggiunga il meccanismo dei «caucus»: lì la gente non va a votare il «suo» candidato, ma a convincere gli altri ad appoggiarlo.

Il risultato «non è tanto unespressione della volontà popolare, quanto lesito di un consenso raggiunto», ha scritto l'analista Tommy Christopher: «Proprio per questo mi ha stupito il 10% che Paul ha raccolto in Iowa, dove non ha fatto campagna, eppure ha più che raddoppiato il risultato di Giuliani» (4).

Anche Christopher segnala come i grandi media non abbiano nemmeno detto che Ron Paul è sconfitto e deve ritirarsi, «perché altrimenti avrebbero dovuto farne il nome».

Lo stanno rendendo una non-persona, il che significa che l’establishment ne ha veramente paura. «Ma fortunatamente per Ron Paul, la sua base elettorale è immune dalle fascinaioni dei media…

il campo repubblicano è un esercito in rotta, e anche una non-persona come Paul, che però ha una base che lo appoggia rabbiosamente, può fare una differenza».

Non magari la presidenza, a cui l’establishment si opporrà con tutti i mezzi legali e illegali.

Ma se i suoi sostenitori virtuali lasciano il computer e partecipano di persona ai prossimi caucuses - la campagna è solo cominciata e sarà lunghissima - possono dargli la forza per obbligare i pezzi da novanta che reggono la macchina del partito a non rifiutargli la vice-presidenza.

Un Ron Paul al posto di Dick Cheney sarebbe già un sogno.
 

Note

1) Ron Kampeas, «Obama and the Jews», Canadian Jewish News, 6 gennaio 2008.
2) Alexander Cockburn, «Two Body Blows to the Political Establishment - a good night in Iowa», Counterpunch, 4 gennaio 2008.
3) Patrick Martin, «Obama, Huckabee finish first in Iowa Democratic, Republican caucuses», World Socialist Website, 5 gennaio 2008.
4) Tommy Christopher, «Dont dismiss Ron Paul or John Edwards», AOL News, 4 gennaio 2008.