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Trichet ha condannato l’Europa
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La Airbus è sullorlo di una «crisi che ne minaccia la vita», ha detto Thomas Enders, il presidente della compagnia europea di aerei parlando ai lavoratori di Amburgo.

Il modello gestionale dell’azienda «non può più sopravvivere», e sono all’orizzonte «massicce perdite».

Il motivo è, naturalmente, l’euro: mantenuto dalla Banca Centrale ostinatamente «alto»,  con un differenziale enorme sul dollaro (ormai 1,50), sta devastando l’economia reale del continente. Anche se Trichet (il capo della BCE) abbassasse ora i tassi - cosa che è ben deciso a non fare - sarebbe troppo tardi per scongiurare il pieno impatto della crisi economica globale.

Ci vogliono 18 mesi almeno perché gli effetti di un mutamento sui cambi si facciano sentire sull’economia reale.

Gli effetti contrari, col ribasso del dollaro e il rincaro dell’energia e di quasi ogni altro bene, sono cominciati prima: il pieno del colpo lo riceveremo nel corso del 2008 e nel 2009.

La situazione è tale che Ambrose Evans-Pritchard, il miglior giornalista economico britannico (è del Telegraph) si domanda se questa crisi non segnerà la fine della Unione europea così come la conosciamo (1).

I liberisti ultrà, adepti del dogma finanziario in esplosione, replicherebbero al capo dell’Airbus che la finanza globale ha la risposta ai suoi problemi: compri quei derivati che «assicurano» contro le selvagge fluttuazioni fra valute.

Ma, a parte che i suddetti derivati in questi mesi non hanno proprio un gran mercato, essi sono costosissimi.

E non c’è fantasia finanziaria che possa «assicurare» (hedging) una ditta che, come l’Airbus, ha contratti in consegna denominati in dollari per 220 miliardi di dollari, e fabbrica pagando in euro

i dipendenti e i fornitori.

Un segnale che l’euro non è più la «moneta unica europea» si sta già manifestando: i titoli del debito pubblico sovrano, ossia i Buoni del Tesoro emessi dalla Germania, si vendono ad un tasso d’interesse inferiore di quelli emessi, nella stessa moneta unica, da Italia, Francia, Spagna, Grecia e Portogallo (l’allegro Club Méditerranée di bassa produttività e poco lavoro), ma anche di Irlanda, Belgio, Slovenia.

Di quanto meno?

Di 40 punti-base, 0,40%.

Può sembrare poco.

Ma è evidente che i «mercati», ossia la speculazione finanziaria, sta già prezzando diversamente BOT emessi nella stessa valuta teorica, in base alla diversa affidabilità degli Stati-debitori.

Se la forbice (spread) si allarga ancora, è possibile che vedremo due euro: quello del Club Med e quello della Germania, che si chiamareà «marco».

In ogni caso, già adesso questo «spread» dice che la liquidità manca e che la politica monetaria per l’eurozona è demenzialmente rigida, ma lo è anche per gli Stati anglosassoni primi della classe in liberismo, USA, Regno Unito, Australia e Canada.

Qui, sono gli interessi sui Buoni del Tesoro biennali a cadere, perché i «mercati» già scontano la recessione in arrivo.

 

«Lintera confraternita dei banchieri centrali sembra in ritardo intellettuale», dice Evans-Pritchard, «ossessionata dal controllo dellinflazione e prigioniera di un modello economico difettoso. E in questo modo che la recessione del 1930 si è metastasizzata».

Gli europei lasceranno che l’Airbus, azienda sana e rovinata solo dal cambio assurdo, vada in bancarotta?

Per ora vi si oppone solo Sarkozy, che si batte come può per evitare la decimazione del complesso industriale della Francia, dovuto in massima parte al fatto che altri Paesi, da Washington a Pechino, recuperano competitività lasciando cadere la loro valuta a livelli intollerabili, il che equivale a fare sconti favolosi sulle merci che offrono.

Ma presto, Sarko non sarà più solo.

Quando la bolla immobiliare scoppierà in tutta la sua forza in Spagna, Italia ed in altri Paesi, gli Zapatero e i Prodi saranno (spera Evans-Pritchard) spazzati via, e nuovi governi nazional-populisti potranno salire al potere in altri Stati.

Lo strumento per una politica monetaria già esiste: è il controllo sui cambi, vecchio metodo degli anni ‘70 e demonizzato dal liberismo ultrà, ma reso possibile da un poco noto rapporto della Commissione Europea emanato per volontà francese quattro anni orsono.

Il rapporto ammette che Bruxelles può imporre «restrizioni quantitative» all’afflusso di capitali, «nel caso in cui movimenti di capitali rechino turbative estreme mettendo in pericolo loperatività dellunione economica e monetaria».

In quel caso, l’articolo 59 della (sub) costituzione consente di adottare misure restrittive «per un periodo non superiore ai sei mesi», però rinnovabile.

La novità è che prendere questa misura non spetta ai robot BCE, ma ai ministri delle Finanze europei con maggioranza qualificata: una misura «politica» e non burocratico-automatica, finalmente.

Forse fra qualche mese, con l’Europa sbattuta dalla tempesta, Sarko avrà attorno a sé quella maggioranza politica che ora manca.

Il controllo dei cambi sarebbe una catastrofe per la City, la piazza finanziaria di Londra che vive di «libertà» e di speculazione senza regole.

Produrrebbe quasi sicuramente l’uscita della Gran Bretagna dalla UE, o meglio dal piede britannico che Londra tiene nella Comunità al solo scopo di impedire misure dirigiste, il che sarebbe in sé un bene.

«La turbativa estrema del movimento di capitali» evocata dal rapporto della Commissione è già in corso, del resto.

 

La Cina sta cambiando dollari in euro a rotta di collo, e così fanno gli emirati carichi di petrodollari in liquefazione, gli asiatici con le loro riserve, e da ultimo persino la petrolifera Nigeria: solo in settembre l’afflusso è stato pari a 42,2 miliardi di euro.

E’ la disperata fuga dal dollaro che rafforza l’euro, assurdamente: perché l’economia UE non è affatto più forte della disastrata economia USA, anzi sta peggio in termini di demografia, produttività e dinamismo.

Gli ordini industriali nell’Unione sono caduti, nel solo settembre, dell’1,6%.

I prezzi immobiliari già crollano in Spagna, sono in ritirata in Francia e in Irlanda, e sono in calo in Italia, almeno nel Meridione.

La fiducia imprenditoriale sta venendo meno in Germania e in Olanda, fiaccata da un euro che stronca la competitività.

Il tasso Euribor, su cui si basano i mutui a tasso variabile, è schizzato in alto.

L’emissione di obbligazioni è congelata in tutta Europa.

La crisi politico-sociale non è meno evidente.

Il Belgio è senza governo da sei mesi, e - simbolo stesso dell’Europa disunita - pare sul punto di disintegrarsi, con valloni e fiamminghi l’un contro l’altro armati.

La Francia è travolta da uno sciopero dei 5 milioni di dipendenti pubblici e contro il caro-vita, costato 2 miliardi di euro al giorno, e nelle banlieues si spara sulla polizia.

In Italia abbiamo avuto lo sciopero totale dei trasporti pubblici e para-pubblici.

Non è difficile giudicare se una moneta fortissima sia adeguata a questa situazione, se l’euro possa davvero rimpiazzare il dollaro come riserva d’ultima istanza.

Dietro l’euro non c’è un governo europeo, non un Tesoro unificato, non una qualunque solidarietà «nazionale», non un debito pubblico unito, non una filosofia politica unificante.

Ci sono tribù, caste, ceti, velocità e produttività diverse e in contrasto.

Ad Evans-Pritchard questo ricorda il momento storico del 1931, (facciamo le corna) cominciato con il fallimento della Creditanstalt di Vienna (una banca dei Rotschild espostissima nella speculazione globale) e finito con un ammutinamento della Marina britannica in Scozia, che portò al collasso del Gold Standard.

Fatta 100 la produzione industriale nel 1929, l’Italia nel 1932 era a 67, la Germania a 53, il Regno Unito ad 82, gli USA a 53.

Fu la Gran Bretagna la prima ad abbandonare il Gold standard, essendosi la sterlina svalutata di oltre il 30% sul dollaro, dopo aver addirittura sospeso i pagamenti.

Se la storia si ripete (almeno in parte), allora torna d’attualità il referto della Commissione di cui si diceva sopra.

Esso recita: «Quando uno Stato membro avesse forti difficoltà nella bilancia dei pagamenti, gli articoli 119 e 120 della C.E. rendono possibile reintrodurre misure di protezione quantitativa contro Paesi terzi».

 

Ciò significa controllo dei cambi: misura estrema.

Ma i politici europei, quando la crisi brucerà, potranno invocare anche l’articolo 104 del trattato di Maastrich che dà loro il potere - all’unanimità - di fissare i tassi di cambio, o di fluttuare al ribasso la moneta (a maggioranza).

Un codicillo che è stato introdotto, come sempre in Europa, con la speranza che nessuno se ne accorgesse e lo ricordasse.

Ma Sarkozy ha già invocato apertamente, davanti al Parlamento europeo, la «preferenza europea», ossia il blocco commerciale chiuso della zona-euro, il che darebbe all’Unione più possibilità di quelle che gli Stati nazionali, nei loro piccoli mercati divisi ed ostili, ebbero nel 1929-39.

Sembra fantapolitica, per ora.

Vediamo tra qualche mese.

Allora daremo addio al funesto Trichet e all’automa senz’anima chiamato Banca Centrale.

 

Note

1) Ambrose Evans-Pritchard. «Will Europe impose exchange controls tp head off disaster?», Telegraph, 23 novembre 2007.