Il capo-comico
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Vedere il trattamento che gli ex-camerati hanno riservato a Fini è una di quelle cose che fanno bene al cuore.

È vero, qualcuno a un certo punto ha tirato pure uno di quei moccoli da «Cristo reggiti» ed è peccato mortale. Però con l’attenuante della provocazione. Il boyfriend di Elisabetta Tulliani ha questo di insopportabile: la presunzione di potere entrare ed uscire dalle storie di tutti, anche da quelle di dolore, come si entra e si esce dalla toilette di un autogrill.

Ed è questo che lo rende sgradevole. Avrà pensato, per uno di quei momenti di spocchia che fanno il personaggio, di dover dimostrare a se stesso il coraggio dell’impopolarità e, quando glielo chiederanno, vorrà perfino raccontare la favola della lealtà ad un vecchio antagonista di partito (non lo chiamerà «camerata»), con cui dirà di avere condiviso tante battaglie e da cui lo hanno diviso tante diverse prese di posizione (non parlerà di idee, non avendone notoriamente, se non quelle volta a volta prese a nolo).

Alla fine menerà vanto, ma nascondendosi dietro una farisaica modestia, di avere intrapreso ancora una volta una strada controvento: è ciò che va ripetendo tutte le volte che una Lilli Gruber lo intervista «in ginocchio» (…no, che state pensando!? È un modo di dire per parlare del servilismo di certi «gazzettieri»!). Lo abbiamo già visto ribattere con l’aria da filosofo scettico: «E a me lo viene a dire?» È, per rammentare la volta in cui, a un Berlusconi ormai decotto e pronto a consegnare il proprio destino a Scilipoti, ebbe perfino il coraggio di dire «che fai, mi cacci?»

Ecco, farà così anche stavolta, quando gli ricorderanno quelle urla, la valanga di fischi, sputi, improperi che lo avrebbe voluto seppellire fisicamente, potendo. Abbozzerà quel sorrisetto cinico e baro, scuoterà la testa, abbasserà il tono della voce, sospirerà per dimostrare quanto è ancora ardua e sincera per lui la strada della redenzione, che lo ha portato dalla Repubblica di Salò a quella di salotto e dal sacrario del Duce allo Yad Vashem.

È per questo che quelle urla, quegli insulti rantolanti, quella bava alla bocca, persino quella bestemmia stampata in faccia all’altar maggiore della Chiesa di San Marco a Roma dalla loggia antistante l’entrata, quando GFF è arrivato, sono – Dio mi perdoni – qualcosa che scalda il cuore: perché è quello stesso popolo «impresentabile» che lo ha miracolato, quel popolo di «braccia tese», quel popolo che lui vellicava parlando del Fascismo del Duemila, che si è svenato per farlo diventare «quasi» Sindaco di Roma, è quel popolo che tappezzava nottetempo le strade delle città con manifesti spesso pagati di tasca propria, è quel popolo che riempiva le piazze, rischiava la pelle nelle sezioni, presidiava i suoi comizi, è quel popolo che cantava le canzoni di cui ora si vergogna, inventava riviste alternative, apriva librerie che altri si incaricavano di incendiare, guadagnava militarmente spazi urbani, organizzava campi Hobbit, recuperava cultura, esplorava orizzonti lontani, viveva di poesia, di spranghe e di fantasy, con violenza e onore, con sangue versato, con odio subìto, con «rabbia e amore».

Tutto gettato nel cesso per un piatto di ammuffite lenticchie liberali, senza avere la capacità di farlo crescere quel popolo, di farlo transitare alla contemporaneità senza violentarlo, senza scordarsi che per anni a questo popolo era sì stato insegnato a non restaurare, ma anche a non rinnegare.

Ecco perché dopo anni di retorica del moderatismo, di riscoperta dei valori liberali, di centrodestra, di sobrietà, di conservatorismo, di doppiopetti, di abiti grigi, di cravatte azzurre, di europeismo atlantico, di talk show televisivi quelle grida oscene, quel livore genuino, quel fremito di viscere è come una ventata di aria fresca.

E pensare che quel popolo, che pure s’era allargato all’indomani di Tangentopoli, sarebbe potuto diventare immenso! Sciogliendosi tra la gente comune avrebbe potuto con la propria antica militanza coagulare in una proposta la rabbia della protesta, impedire al populismo berlusconiano di diventare pecoreccio, arginare in nome di un’ethos antico «il democristiano che è in ogni italiano», uscire una buona volta e per sempre dal Fascismo senza rientrarvi dalla porta dell’Antifascismo, superare le logiche liberal-social-democratiche di Destra e Sinistra, combattere per un’idea di Stato come sintesi della coscienza nazionale, additare la patria europea, l’Europa-nazione come antitesi agli Stati Uniti d’Europa, divenuta schiava dei poteri finanziari apolidi. Quel popolo, insomma, avrebbe potuto, uscendo dal Fascismo senza l’infame abiura compiuta da Fini, realizzare per via democratica e popolare (non liberale!), quella riforma organica della nazione che il Fascismo aveva provato ad abbozzare, ma la cui struttura autoritaria ne impediva la realizzazione dal basso.

Quanto a Rauti, che alla svolta liberale della Destra missina tentò inutilmente di opporsi, certo non poteva essere lui il capo. Rauti era un intellettuale, capace di intuizioni profonde, un filosofo-militante in grado di nutrire con i suoi sogni, le sue «arcaiche modernità» e i suoi miti generazioni di giovani militanti, ma evidentemente non così in profondità, da renderli davvero capaci di sottrarsi all’«Anello del potere». Il limite maggiore del «rautismo» è stato poi l’incapacità di pensarsi oltre il Fascismo, pure se gli va riconosciuto il merito di avere esplorato, ricercato, proposto mille vie nuove e di avere con ciò aperto la mente a tutti coloro che quell’esperienza hanno avvicinato. Inoltre spesso le elaborazioni teoriche erano troppo astratte per quel popolo cui si rivolgevano. Rauti infine non era un capo, non ne aveva anzitutto le fisique du role e poi per essere capo era troppo colto. Aveva carisma certo, ma carisma intellettuale, non politico: nessun magnetismo quando parlava, l’unico che fa di un uomo un capo.

Insomma quel popolo urlante oggi alla Chiesa di San Marco è metafora di un popolo che schiuma rabbia, che rimpiange un maestro, ma che aspetta un capo.

Se quel popolo oggi lo trovasse un capo, potrebbe diventare la voce collettiva e diffusa di masse crescenti, piene di livore, che aspettano sempre, come in ogni crisi epocale, qualcuno che additi loro la via del riscatto. La discesa in campo di Berlusconi e l’enorme consenso che fu allora in grado di suscitare ne sono la riprova. Ma sempre è accaduto nel corso della storia che le masse disperse siano alla ricerca di chi le guidi.

Tuttavia per fare questo ci vuole un’idea, un’intuizione, ci vuole coraggio, ci voleva una tempra non comune, ci vuole Fede (quella vera, non Emilio!), ci vuole un uomo.

Questi ingredienti hanno nel 1994 reso lì per lì irresistibile la miscela innescata da Berlusconi. Tuttavia quando ciò accade, il «capo» ad un certo momento viene come travolto dalla stessa «creatura energetica» che ha suscitato, ne diviene non più agente, ma agito, succube, schiavo. Ed è qui, che, se il potere che si è evocato è rimasto tale e – mancando di innestarsi su di un principio trascendente non si trasforma in Autorità – diviene, come per l’agire di un apprendista stregone, causa di distruzione sia per chi quel potere oramai esercita senza controllo, sia per chi vi è sottoposto. E l’esito può essere tragico o grottesco.

In tutto questo per l’Italia vale la seconda ipotesi.

Berlusconi è stato troppo poco, Fini nulla. Fini è stato solo una maschera della commedia all’italiana, un algido comprimario di un copione pecoreccio con tanto di donnine nude, in cui almeno Berlusconi ha fatto ridere.

Se poi oggi quel posto carismatico rischia di prenderlo un comico, non c’è da stupirsi.

Domenico Savino



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