Luigi Copertino 13 Febbraio 2008
«C’è antisemitismo nella pancia di tanto cattolicesimo tradizionalista»: dice il Betulla, al secolo Renato Farina, informatore dei servizi segreti e «crociato» dell’huntingtoniano «scontro di civiltà» (1).
Credo che l’allievo di don Giussani dovrebbe pensare un po’ alla sua di pancia.
E forse anche alle sue conoscenze storico-teologiche: quel che Betulla, con riferimento alla teologia cattolica sul popolo ebreo (che egli chiama con ignoranza «antisemitismo»), definisce «cattolicesimo tradizionalista» era nient’altro fino a 50 anni fa che il cattolicesimo tour court, quello da cui è partito anche il suo Giussani.
Che brutta fine ha fatto Comunione e Liberazione (o dovremmo dire Comunione e Americanizzazione?) e che frutti sfatti ha prodotto: chi andasse a rileggersi i numeri de Il Sabato di 10 - 20 anni fa, troverebbe un’altra realtà ecclesiale, assolutamente non immaginabile come radice dell’attuale Comunione e Liberazione.
Un movimento ecclesiale audacemente schierato su posizioni per niente filoccidentali (chi scrive ricorda, in particolare, un editoriale uscito subito dopo la caduta del muro di Berlino: mentre tutto l’Occidente inneggiava alla vittoria ed alla fine della storia, coraggiosamente Il Sabato pubblicava a piena pagina «Tra due materialismi - Est ed Ovest - noi non possiamo scegliere»).
Se è vero che è dai frutti che si riconosce la pianta…!
La questione che Betulla e molti altri non hanno ancora compreso nei riguardi di tutta la vicenda «preghiera pro judaeis - liste di proscrizioni» sta nel fatto che non siamo di fronte ad implicazioni «politiche» ma assolutamente teologiche.
Qui si tratta di chiarire, innanzitutto fra noi cristiani, se Cristo è il Salvatore Unico ed Universale
di tutta l’umanità o se qualcuno, i «fratelli maggiori», resta fuori dal raggio di azione di Cristo.
Se si accetta, come fanno molti teologi modernisti, questa seconda opzione, magari indorandola
con disquisizioni «filosofiche» o diplomatiche, sulla scia dell’«ecumenicamente corretto», siamo evidentemente fuori dalla Fede cattolica.
«Il vostro parlare sia si si no no»: un ammonimento che non va calato sul piano dell’immanente, come la politica, ma che è imprescindibile sul piano della Trascendenza, sul piano della Fede.
Il punto è proprio questo.
Gad Lerner lo ha detto chiaramente: naturalmente dal suo punto di vista.
Un cardinale «ecumenicamente corretto» come Kasper ha invece minimizzato riaffermando il neo-credo (una evidente rottura, qui non c’è sofisma che tenga, con duemila anni di Tradizione e Magistero) sulla presunta validità ancora attuale del Patto di Dio con il Vecchio Israele.
Se così fosse si deve però spiegare perché mai al momento della morte di Nostro Signore il velo del Tempio si squarciò ovvero perché, questo significava lo squarciamento del velo, la Sekinah di Dio abbia, in quello stesso momento, abbandonato quel luogo, destinato alla distruzione, come profetizzato da Cristo, pochi anni dopo.
La neo-teologia oggi gioca di rimessa confondendo le acque con l’additare continuamente l’«Alleanza non revocata».
Bisogna invece intendere molto bene sui contenuti della tanto deprecata «teologia della sostituzione», perché essi sono assolutamente evangelici («Perciò io vi dico: vi sarà tolto il Regno di Dio e sarà dato ad un popolo che lo farà fruttificare»: parole di Cristo rivolte ai sinedriti in Matteo 21,43) e, su questa base evangelica, sono stati ben sviluppati dall’Apostolo Paolo, in particolare nella «Lettera ai Romani» e nella «Lettera agli Ebrei».
In quest’ultima, la questione è cruciale, viene ricordato da San Paolo che quello di Cristo è il Sacerdozio Universale al modo di Melchisedek superiore a quello levitico: in Genesi 14-17,20 Abramo, in segno di sottomissione, paga la decima a Melchisedek re di Salem e depositario della Rivelazione Primordiale Adamitica cui è connesso il Sacerdozio Universale.
Un Sacerdozio non etnico, come quello levitico, ma Trascendente, tanto è vero che Melchisedek non è ebreo ma è uno dei cosiddetti «santi pagani del Vecchio Testamento».
E’ necessario fare chiarezza sull’equivoco sul quale speculano i neo-teologi quando oppongono senza fondamento il Magistero formatosi alla luce del Concilio Vaticano II alla tradizionale teologia cattolica sul popolo ebreo: invece persino il più recente magistero, come quello di Giovanni Paolo II, quello dell’«Alleanza non revocata», a ben guardare, è assolutamente in linea, al di là della forma terminologica espressiva, con la tradizionale teologia della sostituzione.
La Vecchia Alleanza non è stata, certamente, revocata ma solo nell’esclusivo senso che essa è stata, come il contratto preliminare con il contratto definitivo, superata, adempiuta e continuata in Cristo, nella Nuova Eterna Alleanza.
Lo dice chiaramente san Paolo nella «Lettera ai romani»: gli israeliti che non hanno riconosciuto
il Messia in Cristo sono «rami tagliati» dall’Olivo che è Israele intendendo per tale non il sangue, la razza, ma la Fede di Abramo.
I rami tagliati saranno un giorno reinnestati per i meriti dei loro padri (e nostri padri nella fede) ma al momento sono e restano rami tagliati.
E’ questione teologica sulla quale si gioca il futuro stesso della Fede cristiana e della Chiesa: non c’entra la politica o il conflitto israelo-palestinese.
Certamente nel passato i cristiani hanno spesso dimenticato quanto altro diceva San Paolo nella medesima «Lettera ai Romani» ossia di usare carità e misericordia verso i suoi fratelli nella carne per i quali egli avrebbe dato persino la vita purché conoscessero Cristo e la Verità.
Ma la problematica è stata appunto squisitamente pastorale e legata quasi sempre a problemi di ordine non primariamente dottrinale ma politico-economico, nei quali si tiravano abusivamente in ballo questioni teologiche.
Se, pertanto, la problematica stava in una passata cattiva prassi pastorale, la risposta ecclesiale avrebbe dovuto essere, per l’appunto, esclusivamente pastorale, senza intaccare il livello dottrinale e teologico.
Ora, invece, è accaduto che la «Nostra Aetate», che doveva essere, come lo stesso Concilio Vaticano II, solo un documento «pastorale», ha finito, forse contro la volontà dei suoi stessi estensori (in parte ne dubitiamo visto l’influsso sul cardinale Agostino Bea e su Giovanni XXIII esercitato da Jules Isaac), per diventare, nell’esegesi postconciliare, un documento del magistero mediante cui si è preteso, con quali danni per la fede del popolo cristiano è diventato ora drammaticamente evidente, di rompere con la tradizionale teologia della sostituzione che era stata, per l’appunto, iniziata, su base evangelica, proprio da San Paolo, ebreo, fariseo e cittadino romano, quando diceva ai cristiani provenienti dal paganesimo che essi erano i rami selvatici innestati sull’Olivo santo AL POSTO dei rami tagliati, ossia al posto degli israeliti (2).
La persecuzione degli ebrei è stato, senza alcun dubbio, un fatto atroce.
Gli storici discutono sul numero delle vittime: ma non è il numero che conta.
Fossero state anche di più o di meno dei «canonici» sei milioni, nulla cambierebbe circa la drammaticità dell’evento.
Tuttavia cristianamente è inaccettabile la sua «sacralizzazione» che ne ha fatto un Unicum Metafisico sin dal titolo di «Olocausto».
Inaccettabile perché presuppone l’attribuire a quell’evento (non unico, la storia è piena di orrende persecuzioni, né metafisico) un significato «salvifico» e dunque teologico.
Come cristiano chi scrive non può riconoscere un altro «Olocausto Salvifico» diverso da quello della Croce.
La sofferenza umana, di tutti gli uomini, dunque anche quella degli ebrei nei lager, acquista significato solo alla Luce del Sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo sul Calvario.
Dopo di esso nessuno può ergersi ad «Olocausto» alternativo, aggiuntivo, sostitutivo.
Cerchiamo, è detto a tutti i cattolici, di non farci irretire dalla mistificante «teologia dell’Olocausto» (il che non significa affatto sminuire l’orrore della persecuzione ebraica, come di ogni altra persecuzione, però!).
Tutto il clamore suscitato dall’azione di un imbecille come quella della presunta lista di proscrizione non si spiega senza questa equivoca «teologia» (vera apostasia per un cristiano) che è diventata, lo dice Giuliano Amato (il dottor sottile, in odore di culturale «fratellanza»), la vera «teologia civile dell’Occidente».
Ogni anno l’Anti Defamation League pubblica un rapporto sull’antisemitismo nel mondo nel quale sono segnalati tutti coloro che, a giudizio della stessa organizzazione sionista, sono sospetti
di posizioni antisemite.
In quella lista annuale sono finiti cardinali (Pappalardo, Biffi, Ruini), preti, filosofi (Vattimo), politici (Andreotti), professionisti delle più varie categorie, giornalisti (Blondet), storici, ambasciatori (Sergio Romano), riviste, case editrici.
Sicuramente, nella prossima edizione, vi finirà, dopo la «scomunica» dei rabbini Di Segni e Laras, anche Benedetto XVI.
La scomposta reazione dei citati rabbini trova la sua unica spiegazione nel fatto che, avendo il regnante Pontefice riproposto la preghiera tradizionale «pro judaeis» del Venerdì Santo senza più aggettivi «pesanti», egli ha in pratica costretto la comunità ebraica a venire allo scoperto e dichiarare «coram populo» che le vere motivazioni per le quali l’estate scorsa essa chiese l’abrogazione dell’intera preghiera in questione consistono nel rifiuto non degli aggettivi «perfidis» o «accecati» (di origine del resto paolina: anche l’ebreo Paolo era antisemita?) ma del fatto stesso che i cristiani si permettono di pregare per la conversione degli ebrei.
Questo perché secondo la fede talmudica il popolo ebreo, e solo esso, è l’«eletto», il «messia collettivo», con un ruolo guida unico e speciale nella storia umana, anche dopo Cristo, sicché gli ebrei, per la loro salvezza, non hanno bisogno del Messia Crocifisso.
Israele è il vero «messia collettivo» che porterà la «pace universale» al genere umano!
Luigi Copertino