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Soldati USA sempre più esausti
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«Turni in linea sempre più lunghi e ripetuti, con periodi di riposo insufficienti, sottopongono i nostri soldati e le loro famiglie a un incredibile stress, mettendo alla prova come mai prima la risolutezza delle nostre forze, tutte volontarie»: l’ha detto al Congresso il generale Richard A. Cody, vicecapo di Stato Maggiore dell’armata di terra (1).

Gli altissimi gradi al Pentagono cercano di comunicare ai politici il loro allarme: uno studio della sanità militare ha mostrato crescenti problemi mentali fra i soldati, troppo spesso mandati e rimandati in Iraq per sostenere il livello delle truppe presenti sul territorio occupati agli attuali 156 mila.

I turni in zona di combattimento sono massacranti, senza precedenti in ogni altro esercito moderno: 15 mesi, e poi 12 mesi a casa a riprendersi, prima di essere rimandati al fronte. Ma per certi reparti e brigate (tipicamente i Marines, ma soprattutto i sottufficiali e i capitani, insostituibili  sul terreno), i turni in zona operativa, esposti al fuoco e agli attentati, sono ripetuti anche quattro volte.

Dei 513 mila soldati che hanno servito in Iraq dall’invasione nel 2003, più di 197 mila sono stati rimandati in linea più di una volta, e 53 mila più di tre.

I disturbi da stress post-traumatico, l’ansia e la depressione (che si traducono, a casa, in disadattamento, turbe mentali e violenze familiari) sono - come ha dimostrato l’ìndagine - in proporzione diretta al numero dei ritorni in linea: 12 sottufficiali su cento manifestano disturbi psichici dopo il primo turno, che aumentano al 18,5% dopo un secondo impiego, e salgono al 27% cento (quasi uno su tre) dopo il terzo o quarto turno in zona di combattimento.

Bisogna - dicono i generali dello staff nelle discussioni interne al Pentagono - aumentare i turni di riposo tra due periodi in operazione, «altrimenti le forze di terra rischiano un livello inaccettabile di congedi di sergenti - i comandanti essenziali nelle operazioni con piccole unità - e di capitani sperimentati, che rappresentano il futuro del corpo ufficiali dell’esercito».

Secondo il New York Times, specialmente l’ammiraglio Mike Mullen, presidente dello Stato Maggiore riunito, e il generale George Casey, capo di Stato Maggiore dell’esercito, coi loro vice, hanno fatto presente al presidente Bush che il continuo e pressante impegno in Iraq pone un rischio crescente di impreparazione, nel caso un’altra crisi dovesse esplodere nel mondo, che richiedesse l’impiego delle forze armate.

Un’altra missione potrebbe sì essere compiuta, ma l’intervento sarebbe più lento, più lungo e più costoso in vite umane e materiali se le forze armate non fossero così stressate. «La nostra readiness (prontezza) viene consumata via via che la ricostruiamo», ha detto il generale Cody.

Ma c’è poco da fare: il generale David Petraeus, comandante in capo in Iraq, per ingraziarsi Bush (e per la situazione peggiorata dopo la vittoriosa resistenza di Muktada Al-Sadr) sta per andare al Congresso a dire che non vuole una riduzione delle truppe, oltre a quella già prevista per luglio (cinque brigate da combattimento ritirate, e forse, la riduzione dei turni in linea da 15 a 12 mesi). Con questa riduzione, si passerà dagli attuali 156 mila uomini - risultato del «surge» voluto da Bush mesi fa - a 140 mila.

Ma Bush, al vertice NATO di Bucarest, ha annunciato che farà «una aggiunta significativa» di truppe USA in Afghanistan nel 2009, dove ne ha già 30 mila. Come nel caso della coperta corta, i comandi dovranno ritirare uomini stressati dall’Iraq per mandarli là. Con aumento dei disturbati mentali inutilizzabili in linea, come nella vita civile.

Nonostante Bush e Petraeus parlino di significativi «miglioramenti» e «successi» in Iraq, la situazione è stata dipinta in tutt’altro modo da Carlos Pascual, un analista-capo della Brookings Institute durante un’audizione al Congresso: in Iraq siamo «in una situazione insostenibile», ha detto: un ritiro «darebbe come risultato probabilissimo una conflagrazione interna (tra le fazioni) che traboccherebbe oltre i confini, accrescendo il terrorismo trans-nazionale, facendo ulterioremente rincarare il petrolio e aumentando le pene ed il numero degli iracheni profughi, già 4,5 milioni», ha detto Pascual:  «Ma d’altra parte, tenere le truppe americane in Iraq rappresenta una pezza insostenibile, in assenza di progresso verso un accordo politico tra le fazioni irachene che si combattono».

L’ammiraglio Mullen ha ammesso di temere che l’esercito stia per giungere alla «invisibile linea rossa» in cui si spezzerà. «Non vogliamo traversarla, non sappiamo dove si trova, ma crediamo che sia vicina», ha detto. Ed ora tutti si aspettano che Petraeus, nella sua imminente audizione al Congresso, accuserà - come causa dei suoi insuccessi – l’Iran, di fatto proponendo l’apertura di un altro fronte. Ma i veri responsabili non vengono chiamati in causa, nemmeno dai giornali critici di Bush.

Tutto cominciò, se ben si ricorda, quando Paul Wolfowitz e Richard Perle, allora rispettivamente  viceministro e consigliere del Pentagono, assicurarono che l’invasione dell’Iraq sarebbe stata «una passeggiata» (a cakewalk). Il guaio fu peggiorato da Donald Rumsfeld che sbattè fuori il generale Shinseki, allora capo degli Stati Maggiori riuniti, perché aveva valutato il numero necessario di uomini per l’invasione in 400 mila almeno; Rumsfeld aveva le sue teorie sulla guerra «leggera ed economica», dove alle poche truppe sarebbero stati aggiunti mercenari a noleggio, che «si fanno dare di più ma li paghi solo finchè servono».

La scarsità si scarponi sul terreno sarebbe stata compensata, per Rumsfeld, dalle alte tecnologie di cui dispone la superpotenza: era la cosiddetta «revolution in military affairs». Questo sogno s’è infranto davanti a un nemico a bassa tecnologia, ai suoi cecchini, ai suoi razzi e alle sue bombe a lato strada, contro cui i fanti americani sono e restano mal protetti.

Ovviamente né Wofowitz né Rumsfeld, per non parlare di Bush e Cheney, hanno mai partecipato ad operazioni belliche personalmente (ai tempi del Vietnam «avevo altre priorità», Cheney dixit): e come tutti gli strateghi da scrivania, s’immaginano le forze armate come una durissima punta di diamante indistruttibile e non - come la definì von Clausewitz - una punta friabile come una matita, che si consuma («in vite umane e materiali») durante il suo impiego.

La prospettiva per gli stanchi soldati americani non si presenta migliore nell’eventualità che alla Casa Bianca entri, nel 2009, McCain. Benchè reduce dal Vietnam, McCain ha già detto che «possiamo restare in Iraq anche cento anni». Il che non è strano, perchè McCain è il candidato preferito dalle industrie della difesa, il complesso militare-industriale. Che è indifferente alla sorte delle guerre, purchè ci si guadagni. E i guadagni sono immensi, come ha rivelato un curioso studio di Winslow T. Wheeler, del Center for Defense Information, nonché antico esperto del Congresso sulle questioni del bilancio militare (2).

Wheeler ha calcolato il costo rispettivo di due aerei da guerra che rappresentavano lo stato dell’arte nelle rispettive epoche: il Lockhhed P-80 Shooting Star, un caccia del 1945, e l’attuale F-22 Raptor, della Lockheed Martin. Ogni esemplare dello Shooting Star del ‘45 costava 110 mila dollari del tempo. In dollari odierni (basta moltiplicare per 11,9), sarebbe 1,3 milioni. Ma l’F-22, il Pentagono, oggi, lo paga 355 milioni ad esemplare. Ciascuno come 273 Shooting Star che vinsero la guerra contro la Lutwaffe.

Il miglior caccia USA degli anni ‘40, il celebre Mustang, fu sviluppato dalla ditta North American a proprie spese con contributo britannico, nel giro di nove mesi: al costo di 80 mila dollari d’allora. Ne furono fabbricati 15.478 esemplari, ciascuno dei quali costò 50 mila dollari di allora. Anche dopo l’adeguamenti in dollari odierni (moltiplicare per 11,9), la cifra resta ridicola: 600 mila dollari per ogni aereo. Quasi quanto un aereo da turismo. Astronomicamente più economico che F-22 a 355 milioni di dollari l’uno.

D’accordo, i nuovissimi aerei sono strapieni di radar, contromisure elettroniche, avionica segreta e avanzatissima. Ma il Mustang affrontava i Messerschmidt, di capacità pari o superiore; invece, quale caccia supremo deve affrontare in Iraq il F-22 Raptor? E’ proprio necessaria, implica Wheeler, una  tale costosa sofisticatezza nello spazio aereo, quando il pericolo concreto sono le bombe a lato strada che fanno saltare gli automezzi e - come sempre nelle guerre di lunga durata - il peso è sulle spalle della fanteria, del suo sangue, del suo sudore e della sua psiche traumatizzata?

Ma il complesso militare industriale, le sue guerre, le ha già vinte: in profitti. «Porci con le ali», li chiama Wheeler.




1) Tom Shanker, «Army Worried by Rising Stress of Return Tours to Iraq». New York Times, 6 aprile 2008.
2) Winslow T. Wheeler, «When pigs sprout wings», Counterpunch, 1 aprile 2008.


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