Le «riforme» da fare, e che Chihuahua non fa
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Poiché ho sempre più lettori più bravi di me (del che si rallegra la mia vecchiezza), ‘Nieuport’ ha illustrato con precisione i meccanismi «legali» che i politici hanno messo in atto per rendere possibili sprechi e ruberie impunite nei grandi comuni, e specificamente le «istituzioni» che hanno avviato Roma capitale verso Ciudad Juarez, Stato del Chihuaha, Mexico. Poiché ha postato il suo commento sotto il mio articolo, mentre merita miglior risalto, lo riporto qui.

«Quello che succede ora è il risultato, nemmeno paradossale o estremizzato, di quello che si è voluto realizzare, a sommo studio, e proprio per questo fine, dai partiti, e soprattutto dall’allora PCI. Una volta i Comuni potevano spendere solo in base ai Testi unici legge comunale e provinciale del 1915 e del 1934 (leggi splendide, rigorose e chiare) che distinguevano fra spese obbligatorie e facoltative. Ogni loro delibera di spesa passava al vaglio della Giunta Provinciale Amministrativa, che controllava e se del caso bocciava, poi sostituita dal Comitato Regionale di Controllo, anche questo un ente serio. Tutti gli atti dei Comuni dovevano essere controllati dal Segretario Comunale, dipendente dello Stato, con il compito di assicurare la legittimità e la correttezza di ogni spesa. Infine, gli atti dovevano essere controfirmati dai dirigenti, che rappresentavano un elemento di competenza e di stabilità rispetto ai politici, né dovevano temerli, dato che il loro stipendio era fisso e la loro carriera determinata da concorsi pubblici. Tutto il sistema è stato volutamente smantellato, in nome dell’autonomia e della democrazia, in realtà per avere mano libera, con una serie di riforme che hanno avuto come capo il nefasto Bassanini. Quindi, ora gli enti locali possono spendere come gli pare, e magari trascurare l’assistenza ai poveri e le fognature, ma finanziare uno spettacolo di cantanti o un progetto in Africa, nessun ente di controllo è imposto sopra di loro, il Segretario comunale non c’è più, al suo posto c’è il city manager scelto dal sindaco a piacer suo, e strapagato. I dirigenti hanno ora stipendioni, ma determinati da premi di risultato aleatori, e sono scelti a chiamata, non ci sono più concorsi quindi, se non disonesti, sono ricattabili. Infine per la solita idolatria di tutto quello che è privato, tanti servizi che il comune faceva direttamente con i suoi uffici, a costo contenuto, come ad esempio il mercato, la nettezza urbana, la manutenzione stradale, la gestione delle case popolari ecc. sono stati affidati a società private costituite ad hoc, con lo scopo di liberarsi dalla procedure obbligatorie per gli acquisti degli enti pubblici, e di poter dare ai dirigenti gli stipendi che gli pare. Tutto ciò è stato fatto perché allora il PCI voleva amministrare con le mani libere, così è riuscito a fare. C’erano città, come Firenze, dove tutti gli appalti e i lavori erano assegnati solo ad aziende collegate alle Coop, dove se non eri del giro del partito non potevi nemmeno aprire una finestra. Ma questo andava bene a tutti, la politica ha assunto il controllo della spesa pubblica in ogni luogo, con i canali più adatti: in certi comuni era il PCI, poi PDS, poi PD, in altri la DC e poi la Compagnie delle Opere, in altri la massoneria, in altri la Mafia, e a Roma, scopriamo, ma lo si è sempre saputo, altri giri. Ma vi pare che uno come Poletti queste cose non le sa da 30 anni? Quanto ad Alemanno, come sempre l’arte anticipa la realtà: basta vedere il film Caterina va in città per capire tutto».

Magistratura, stessa deriva



Forse non è chiaro a tutti che non sempre la Magistratura ha avuto quella istituzione detta «promozione automatica per mera anzianità», privilegio vergognoso per il quale i peggiori farabutti, deficienti o militanti estremisti arrivano meccanicamente ad essere giudici di Cassazione, dove – con stipendi strapagati da noi contribuenti – fanno moltiplicati per mille i danni che facevano da sostituti procuratori.

No. Prima del favoloso ’68, il giovin magistrato, per salire di grado e stipendio, doveva sottoporsi a periodici concorsi interni; concorsi dove a giudicarlo erano i magistrati delle giurisdizioni superiori. Anziani giuristi di superiore dottrina ed esperienza di vita avevano dunque un potere di «maestri d’arte» sugli inesperti, di selezione e in qualche modo sanzionatorio sulle teste calde, i superficiali politicizzati, i semplicemente incapaci e fancazzisti. Questo sistema fra l’altro – molto importante – garantiva la «sostanziale unità di ispirazione complessiva della giurisprudenza» (1) italiana nel succedersi delle generazioni dei giudici, e la relativa continuità e stabilità del diritto: finire sotto processo non era ancora ficcarsi nel mondo dell’arbitrio, delle sentenze «creative» e rivoluzionarie, dell’incertezza sul vedere riconosciute le proprie ragioni e puniti i colpevoli, che è attualmente il ‘fare giustizia’.

Proprio contro questa unità della giurisprudenza si scagliarono i comunisti potentemente affiancati dalla ‘borghesia progressista’ e illuminata, tanto ben rappresentata allora da Repubblica e l’Espresso. Il PCI, all’apice dei voti, e i loro ricchi compagni di strada (un nome a caso: Eugenio Scalfari), erano ovviamente per la «rottura», e ostilissimi alla «continuità». Gli anziani ‘maestri d’arte’ del giure, i magistrati superiori, furono attaccati e screditati come conservatori oscurantisti, collusi coi poteri costituiti e gli interessi del capitalismo o – ancor peggio – servitori della «ragion di Stato», identificata con i delittuosi «arcana imperii». Erano insomma il freno della rivoluzione che doveva per forza vincere.

Perché la giustizia doveva diventare «di classe», e frotte di giovini, magari simpatizzanti per Capanna e le nascenti Brigate Rosse, entrarono a frotte nella magistratura per fare la revoluciòn con lo stipendio pubblico. La Rivoluzione Culturale maoista in Cina dava un esempio irresistibile: i professori angariati, intimiditi, umiliati e pestati dagli studenti-guardie rosse, costretti a confessare pubblicamente i loro delitti con in testa un cappello d’asino, ebbero varie repliche in Italia, metaforicamente o no, nelle università e nelle scuole («No alla selezione! il 18 politico!», «Okkupazione!»), ed ovviamente nell’ordine giudiziario. La «contestazione» colpì anche i vecchi giuristi superiori, strappò loro il potere di promuove gli inferiori. Ciò nel momento preciso in cui anche le università venivano travolte dallo stesso sessantottismo, e sfornavano laureati in legge che non sapevano nulla del diritto, ed erano passati col 18 politico . Voto più che sufficiente per vincere o’ concuorso, e diventare accusatore pubblico (procuratore) col potere di incarcerare, intercettare, comandare la polizia, essa sì privata di ogni autonomia nelle indagini.

Magistrati che nulla ha mai preparato a diventare investigatori, ma pieni di idee generali marxiste su quel che deve essere la giustizia in una società socialista: le categorie giuridiche non sono altro che categorie «politiche», anzi il privato è politico, tutto è politica, e via propagandeggiando. Nella pratica, significava questo: il giovin magistrato deve piegare e distorcere il sistema giudiziario a favore della «classe operaia», delle «masse sfruttate». Tipica sentenza di quei tempi, un macellaio fu obbligato a riassumere il garzone di bottega, che lui aveva licenziato perché andava a letto con sua moglie. La giusta causa del licenziamento non venne riconosciuta; il magistrato vide invece nel macellaio il tipo del capitalista sfruttatore, nel garzone il proletario sfruttato, dunque da proteggere dalla «violenza della borghesia».

L’interpretazione della legge doveva essere necessariamente «di parte», perché lo scopo non era quello di garantire un processo oggettivo — la resa di giustizia equanime fra le parti litiganti da parte di giudicanti in posizione neutrale; lo scopo era di agevolare la presa del potere da parte del «proletariato», e più precisamente dalla auto-nominata «avanguardia del proletariato», che era il PCI. Anche se poi altre forze extraparlamentari, e magari armate, pretesero di essere la vera «avanguardia proletaria», il che complicò non poco il quadro.

Proprio nel clima del ’68 delle leggi, approvate da parlamentari e Governi spaventati dai rivoluzionari in toga (inamovibili dopo o’ concuorso), ricattati o complici, hanno introdotto l’avanzamento automatico delle carriere magistratuali, abolendo le difficoltà dei concorsi con scrutini ed esami. Nello slancio rivoluzionario che avrebbe portato a Mani Pulite di lì a pochi anni, i togati si accaparrarono poteri cui non avevano diritto, ma che sono appunto bottino della rivoluzione: fra cui le carcerazioni preventive di innocenti, l’abolizione del concetto di «innocente fino a prova contraria» quando l’arrestato è un avversario politico, le intercettazioni a tappeto e le sentenze militanti ed ingiudicabili: si noti che due terzi degli accusati (e incarcerati) durante al tempesta di Mani Pulite sono stati poi assolti, o addirittura prosciolti per non aver commesso il fatto, nei gradi superiori di giudizio.

Tutti i ceti rivoluzionari, una volta accomodatisi al potere, diventano burocrazie. Anche la nostra magistratura lo ha fatto, e come tutte le burocrazie pubbliche si sono ossificate nei privilegi: intoccabile, ingiudicabile, perché è legittimata dall’aver compiuto la revolucion — anche se a metà. Nessuno osi evocare la necessità di una riforma che le rimetta negli argini: come tutti gli statali privilegiati, sono capaci di difendere con tutti i mezzi – «legali» ed illegali – i loro privilegi, le loro inefficienze, incompetenze ed inadempienze, la loro funzione di sabotaggio della società italiana e della sua modernizzazione. Tutti i privilegi che loro chiamano «indipendenza della magistratura», nome nobile di una realtà antica, e abolita.

La sindacalizzazione dei dipendenti pubblici

Oggi sembra impossibile. Ma ci fu un tempo in cui ai dipendenti pubblici era vietato di costituirsi in sindacato; lo Stato infatti non era in nessun modo concepibile come «la controparte», l’«antagonista» dei lavoratori, da essi dialetticamente separato – come l’imprenditore privato – dal contrasto d’interessi. La controparte dei pubblici dipendenti sarebbe la cittadinanza tutta, i contribuenti che pagano gli stipendi a loro; assurdo trattarla da controparte antagonista, contro cui per esempio scioperare per strappare aumenti. Il divieto di sindacalizzazione comportava il divieto di sciopero, o almeno la sua stretta regolamentazione nell’interesse dei servizi pubblici; oggi i pubblici servitori godono di inamovibilità e non licenziabilità, privilegi che i lavoratori nel privato non hanno, e che ne attesta la natura giuridica diversa dal privato. Lo sciopero dà a loro un vantaggio indebito, appunto perché lo Stato non essendo la controparte ma rappresentato da politici che non spendono denaro proprio, non resiste alle rivendicazioni e ai mezzi di pressione che i suoi «lavoratori» utilizzano alla stregua dei privati. Inoltre e peggio, mette in mano loro un potere di ricatto enorme, potendo essi paralizzare i servizi pubblici a danno dell’intera popolazione — la quale è estranea alla vertenza (2).

Naturalmente i magistrati in blocco sono corsi fra i primi a sindacalizzarsi: gettando alle ortiche la loro imparzialità (ossia l’autorità che gli veniva dal servire la verità), e sancendo la loro divisione interna in correnti politicizzate che si sono ormai cristallizzate in gruppi ideologicamente coesi e strutturalmente organizzati, che competono per il potere nel Consiglio Superiore della Magistratura, dove i magistrati eleggono i due terzi dei membri, mentre l’altro terzo è designato dai politici, ossia dai partiti. È dunque la completa partitizzazione del CSM, che da organo costituzionale è stato trasformato in sindacato corporativo: le correnti magistratuali si combattono fra loro (per farlo meglio hanno adottato per le votazioni interne il sistema proporzionale; quello maggioritario vigente in precedenza favoriva troppo l’unità e l’indistinzione dell’ordine giudiziario), però quando si tratta di difendere gli stipendi, i privilegi e gli indebiti poteri, sono tutti ferreamente uniti.

Notoriamente, il CSM si sente non già come il vertice di uno dei tre ordini dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario), bensì come un potere antagonista rispetto al Governo e Parlamento, contro i quali entra senza esitare in conflitto per ampliare i poteri indebiti che la Costituzione non gli assegna. Così, difende come CSM magistrati criticati dai politici o dall’opinione pubblica, e dà pareri su progetti di legge in discussione alle Camere, quando gli pare che intacchino i privilegi dei giudici. Pareri non richiesti, che sono una forma di pressione e intimidazione ai legislatori, ovviamente illegittima. Sono la terza Camera, non prevista dalla Costituzione più bella del mondo.

Con questo status quo che difendono ferocemente, i giudici hanno perso la minima credibilità istituzionale; ma a loro non importa. Hanno barattato l’autorità con il potere, che rende molto di più.

Il potere della Triplice, incostituzionale



Sembrerà incredibile, ma c’è stato un tempo in cui i sindacati erano ciò che li contempla la Costituzione (più bella del mondo): libere associazioni private intese a tutelare gli interessi dei lavoratori propri affiliati, degli iscritti a quel sindacato. Per dire quel che è diventato, lascio la parola a Gino Giugni, il ‘giurista’ della mistica sindacale, l’autore del celebrato Statuto dei Lavoratori: «Il movimento sindacale italiano, uscito dall’esperienza trionfale dell’autunno caldo del 1969, ha ottenuto l’apertura della trattativa con il Governo in ordine a problemi generali di politica economica e sociale: politica dell’abitazione, dei trasporti, sanitaria e fiscale» (3).

Insomma, un contro-Governo che si confronta da pari a pari col Governo (4). Un contro-Governo, in qualche modo un altro ‘partito politico’ che naturalmente non esce da elezioni, di cui nessuno controlla la rappresentatività reale. Eppure, che si assume la pretesa di definire gl’interessi della collettività, cosa per la quale non ha alcun mandato legale. Ha un mandato «rivoluzionario» che ha strappato durante ‘l’autunno caldo del 1969’, ossia la catena rovinosa di scioperi politici eccitata dal PCI, in cui il sindacato rivoluzionario (la CGIL) tentò d’imporre il concetto del salario come variabile indipendente dall’economia...

La Costituzione prevede il diritto del lavoratore ad associarsi; ma lo concepisce come diritto del singolo, suo patrimonio di libertà. Con la mutazione rivoluzionaria, la «libertà» sindacale viene strappata dal sindacato al singolo cittadino: il sindacato se lo arroga in proprio «come un diritto che concepisce suo fin dall’origine».

Il nuovo sindacato si sostituisce al singolo nella titolarità concreta del diritto; diventa una istituzione totale extra-costituzionale, la comica e tragica contraffazione del totalitarismo hegeliano («tutto il reale è sindacale»), e con ciò toglie al lavoratore, paradossalmente, qualsiasi forma di garanzia: il neo-sindacato non deriva dal singolo e dalla sua autonomia (libertà) il proprio diritto, ma dal fatto di pretendersi come la personificazione della «classe», che esercita la sua egemonia anche sui lavoratori non-associati, e creatore di un nuovo diritto extra-legale ed extra-costituzionale. Difatti rifiuta l’obbligo di registrazione previsto dalla Costituzione, rifiuta il codice civile (non pubblica i suoi bilanci, com’è obbligatorio a qualunque altra associazione che prenda denaro dalla collettività), dichiara ‘giuridici’ i suoi atti al di fuori da qualunque schema di diritto comune, com’è logico per un mostro che si sente l’organizzatore del ‘conflitto di classe’ contro la ‘società borghese’, il nemico di classe.

Molto tipico è il fatto che, in questo nuovo diritto, la firma di un contratto lega sì la controparte (i datori di lavoro), ma non lega il sindacato totalitario, non lo obbliga a rispettarlo; anche in vigenza del contratto, il sindacato può ordinare una vertenza, riaccendere il conflitto su qualunque pretesto. Ancora Gino Giugni spiega il perché: «Il contratto viene firmato per far cessare il conflitto in atto, non per garantire le aziende da quelli possibili del futuro».

Il risultato di questi trionfi della revoluciòn sindacale è sotto gli occhi di tutti. Con gli anni, la Triplice ha perso la classe operaia e i lavoratori in genere, che non essendo rappresentati dal sindacato totale l’hanno superato a destra (creandosi sindacati autonomi) o a sinistra (CUB, spontaneismo); non s’è accorta della mutazione globale che parificava di fatto i nostri salariati a quelli cinesi, e chiedeva una concorrenza al ribasso sul piano mondiale; ha abbandonato tutti i precari e le partite Iva al proprio destino, ai tagli salariali, alla tassazione strangolatrice. Ma se ne infischia, la Triplice, perché è diventata un apparato burocratico elefantiaco, che risucchia un miliardino di euro l’anno dal pubblico, senza renderne conto alcuno (con grandi possibilità per i pagamenti in nero, tangenti e mazzette). E soprattutto, perché ha preso la difesa sindacale dei dipendenti pubblici – ossia di quelli a cui la sindacalizzazione dovrebbe esser vietata – specie dei più fancazzisti ed inadempienti. E in questo ottiene ancora facili vittorie, visto che la «controparte» non resiste a concedere aumenti indebiti, dato che è lo Stato, che non paga con soldi suoi, ma nostri. Accade così che i pubblici dipendenti hanno paghe del 30% superiori ai loro parigrado privati, e anzi continuano a pretendere aumenti e scioperare, anche se la maggioranza della popolazione lavoratrice i salari se li vede tagliare, o azzerare del tutto dalla chiusura delle aziende, licenziamenti e disoccupazione.

Ora, ci sarebbe da parlare delle Regioni, a cui i comunisti (riforma dell’articolo 5 della Costituzione più bella del mondo) hanno dato il potere di spesa senza responsabilità e senza limiti, l’autonomia quasi sovrana coperta a piè di lista dalle casse pubbliche. O del disastro chiamato Pubblica Istruzione, dove gli insegnanti hanno adottato il metodo di incitare gli studenti alla okkupazione — residuo archeologico del formidabile ’68, in modo da evitare furbescamente lo sciopero della categoria parassitaria, e dunque avere lo stipendio tagliato; invece lo prendono pieno, anche se i loro studenti rendono inagibili le aule. Dovrei parlare delle Università, «autonome» al punto che un rettore (romano) può distribuire cattedre a mogli, figli e fidanzate dei figli, senza che alcun controllore sia in diritto di eccepire; mentre questa autonomia viene misteriosamente meno quando, ad esempio, il Politecnico di Milano prova a decidere di tenere le lezioni in lingua inglese per dare ai suoi studenti un’opportunità in più nel mondo globalizzato; allora qualche scontento ricorre al Tar del Lazio, e questo organo di giustizia amministrativa dà ordini al Politecnico: una volta esisteva la «libertà accademica», per cui la libera università poteva insegnare come e in quale lingua le pareva opportuno. Adesso il fantastico Tar del Lazio può sopprimere tale libertà accademica dando soddisfazione a un fancazzista che non vuole sforzarsi nello studio. La libertà accademica era un residuo del Medioevo... adesso siamo nella modernità.

Chiudo la parentesi, e tralascio Regioni e docenze. Ho portato qualche esempio che basta, credo a illustrare il motivo vero e radicale per cui la corruzione divora il Comune di Roma, per non parlare delle Regioni, e tutti gli a spetti della Pubblica Amministrazione, infestando tutti come i pidocchi sulla testa di zingari romeni da ‘accogliere’.

Il vero e radicale motivo è lo sgangheramento delle istituzioni, prodotto, come ha lucidamente illustrato il lettore Nieuport, dalla pulsione rivoluzionaria del PCI nei suoi anni d’oro (per gli altri, di piombo). Ed innaffiato di enormi masse di denaro pubblico.

È quel che diceva Churchill: «Attenti, noi possiamo plasmare le nostre istituzioni, ma poi le istituzioni plasmano noi». La riforma necessaria sarebbe riportare le istituzioni al loro stato di sanità e imparzialità originario; ma sarebbe come riuscire a ficcare nella bottiglia il cattivo genio che abbiamo liberato; troppi lo vogliono libero, pensano di guadagnarci qualcosa dalla putrefazione delle istituzioni.

In Italia la separazione dei poteri non esiste più, confusi poteri indebiti «rivoluzionari» di una rivoluzione fallita, di fatto si sostituiscono a quelli legittimi, e producono una legislazione che rende legale ciò che è illegale o financo delinquenziale. Fra i tre ordini se ne sono inseriti altri che la Costituzione (più bella del mondo) non contempla. Ciascuna istituzione legale o illegittima s’è accaparrata con la forza della revoluciòn una sua «autonomia» particolarista ed antagonista per cui – essenzialmente – non rende conto del denaro pubblico che spreca o malversa. Si aggiunga che è scomparsa persino la nozione più vaga di «diritto naturale», ossia dell’esistenza di princìpi eterni ed universali a cui il diritto positivo, le leggi elaborate dal legislatore, devono in qualche modo rifarsi. Adesso vige indiscusso il «positivismo giuridico»: qualunque legge, emanata nei modi previsti, è «giusta» ed a quella si attiene il magistrato.

E poi. Quattro suore di clausura che vivono fabbricando ostie per la Messa devono pubblicare il bilancio, e sono soggette alle ispezioni della Guardia di Finanza e dei NAS, nel caso che violino le «normative europee» di qualunque genere; la Cgil che incamera 600 milioni di euro l’anno, nisba. Cosa faccia con quei soldi, che sono pari al bilancio di un Paese africano, non abbiamo il diritto di saperlo. Come s’è visto a Roma, criminali pregiudicati sono preferiti alle persone oneste per l’assegnazione di servizi comunali, in quanto «hanno fatto un percorso di riabilitazione». Sono tutte patologie che nascono dallo scardinamento delle istituzioni, e da persone plasmate da questo sfascio.

Che cosa può trattenere un pubblico dirigente ed un politico con le mani in pasta dal servirsi da sé della cassa, malversare, sprecare, aiutare gli amici pregiudicati, o magari – Dio lo voglia – resistere al malaffare che gli sale fino alle orecchie come una marea di liquami? Che cosa? Non possono essere che o la moralità che gli viene da una fede religiosa, o il senso dello Stato, diciamo l’orgoglio di servire una patria fino al sacrificio personale.

Tutto questi motivi spirituali sono stati eliminati dal progressismo egemone. Non siamo più cattolici. La patria è qualcosa che si deride. Il senso dello Stato è incenerito una volta per tutte dagli esempi delle «istituzioni» scardinate e forzate (come casseforti) e rese una maceria della legittimità, e dalle violazioni della volontà popolare, ormai annose ed impunite, divenute «la nuova normalità».

E allora, di grazia, perché mai non dovrebbero intascare qualcosa di quel fiume di denaro che li inonda, grazie ad apposite leggi tributarie, fino alle orecchie?





1) Proprio l’esperienza di vita insegnava ai maestri di Cassazione, a poco a poco, che le leggi positive non esauriscono del tutto la giustizia. E la formazione in diritto romano li ancorava almeno un poco ad un’idea del diritto naturale, di princìpi di giustizia ed equità superiori alle leggi vigenti, e di cui tener conto nel giudizio. Oggi il positivismo giuridico è assoluto dominio del giure, e i giovani magistrati incompetenti e superficiali usciti da o’ concuorso nemmeno si pongono il problema del giusto. Sono le leggi vigenti, concotte e malcotte da parlamenti sotto schiaffo di poteri estra-costituzionali, l’ultima istanza.
2) «Lo Stato non è un’impresa qualsiasi; è la organizzazione suprema, necessaria alla società, per assicurare le condizioni fondamentali indispensabili della vita sociale» (O. Raneletti, il sindacalismo nella pubblica amministrazione, Rivista di diritto pubblico, 12 gennaio 1920). Come si intuisce, questo passo riflette la dottrina dello stato che adotterà il Fascismo. Però è il caso di ricordare che nel 1995 il popolo italiano, per referendum e a grandissima maggioranza, si pronunciò per il divieto di sindacalizzazione dei pubblici dipendenti. Allo stesso modo, per referendum, espresse la volontà di rendere il giudice responsabile civile delle sue sentenze, e votò a favore della separazione delle carriere: e ciò con maggioranze del 90 per cento, che scavalcavano gli steccati partitici. Segno che la popolazione ancora aveva in sé un’idea di diritto come giustizia, dunque del diritto naturale. Tutti questi referendum che furono violati e non applicati dai politici, governanti e d’opposizione, sostenuti dai sindacati e dalle cosche pubbliche. La demoralizzazione – in senso proprio: la perdita di moralità, il cinismo, – del popolo italiano fu resa immedicabile credo, da quel passaggio di violazione della volontà popolare.
3) G. Giugni, Stato sindacale, pansindacalismo, supplenza sindacale, in Politica dl Diritto, 1970. Mi rifaccio qui all’ampio e profondo saggio di Bruno Montanari, docente all’università di Bari, «Un nuovo protagonista: il sindacato», nel volume collettivo «Dov’è finito il ‘68», Edizioni Ares, 1979.
4) Nel gergo social-burocratico, si dice «il Governo deve consultare le parti sociali». Ossia concordare le leggi con Cgil Cisl e Uil. Matteo Renzi non ha consultato le parti sociali, dunque non è di sinistra; è l’erede di Berlusconi (che consultava però le parti sociali, mai avendo sfidato il potere costituito dei fancazzisti pubblici, altresì detto Triplice).



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