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E Pechino smentì…
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«La Cina ha detto sì a sanzioni paralizzanti contro l’Iran», esultava Le Monde il primo aprile: «Il sì cinese è stato ottenuto la sera del 31 marzo, su pressioni di Russia, Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e Francia».

Sembrava una notizia certa: simili frasi trionfali sono apparse lo stesso giorno su Haaretz, il Jerusalem Post e i grandi media euro-americani in accompagnamento al coro. La Cina, il cui voto è necessario (è membro del Consiglio di Sicurezza) per legittimare le sanzioni come le vuole Sion – cioè proprio «invalidanti» (crippling) – aveva finalmente ceduto a mesi di pressioni di Obama. Era l’ultimo ostacolo rimasto: Mosca aveva già ceduto due settimane prima, in un incontro fra Putin e Hillary Clinton, e dopo la visita di Netanyahu. Il ministro degli Esteri Lavrov aveva detto che sanzioni sono «a volte inevitabili», citando una frase già detta dal presidente Medvedev.

E’ fatta, gioivano i giornali israeliani e i loro serventi europei: non solo USA e UE, ma tutto il mondo è ormai pronto a ridurre gli iraniani allo stato in cui sono ridotti i detenuti di Gaza: alla  fame e alla miseria.

Poche ore dopo, Pechino ha ritenuto di dover diramare una smentita. Ufficiale. Il ministro degli Esteri Yan Jiechi, attraverso il suo portavoce, ha riaffermato che la Cina, «sulla questione del nucleare iraniano, continua a privilegiare una soluzione pacifica. Noi abbiamo sempre spinto per questo e continueremo a spingere in questo senso». (China Denies Backing Iran Sanctions)

Gabriela Shalev
   Gabriela Shalev
L’ambasciatrice israeliana all’ONU Gabriela Shalev ha dovuto dirsi contenta perchè «la Cina ha attenuato la sua opposizione a sanzioni contro l’Iran». Poi altra precisazione: Pechino era «pronto a discutere seriamente con gli occidentali» le nuove sanzioni.

Ovvio. In Cina (e Giappone) rifiutarsi di colloquiare è considerato maleducato. I cinesi sono sempre pronti ad ascoltare, specie quando l’altra parte fa offerte utili ai propri interessi: e Barak Obama ha dato a Pechino le più ampie assicurazioni su tutto – «non sostiene l’indipendenza del Tibet», si opporrà ai dazi sulle importazioni cinesi che parecchi al Congresso vogliono imporre, smetterà di chiede che Pechino rivaluti la sua moneta – tutto, pur di imbarcare la Cina nel carro anti-Teheran, come ordinato dal padrone. A tal punto che il governo cinese s’è molto ufficialmente rallegrato della fine delle tensioni fra i due Stati, che duravano da quando Obama ha ricevuto il Dalai Lama.

Said Jalili
   Said Jalili
Ma allora perchè Pechino ha smentito di essere stato imbarcato? Probabilmente, perchè il giorno della smentita, era in visita a Pechino il capo-negoziatore iraniano per la questione nucleare Said Jalili, e i servizi cinesi hanno interpretato giustamente la grancassa della stampa occidentale («la Cina è con noi!») come una disinformazione deliberata, allo scopo di sabotare quella visita e i colloqui relativi (su cui non si sa nulla). Pechino ha voluto far sapere che non cade nelle rozze trappole della lobby?

Moshe Yaalon
   Moshe Yaalon
Possibile. Tanto più che aveva avuto esperienza diretta dei metodi di pressione sionisti. Il 25 febbraio il governo israeliano aveva mandato in visita a Pechino, per guadagnarla alla causa anti-Teheran, una delegazione di alto livello, che comprendeva il vice-premier Moshe Yaalon e il banchiere centrale Staney Fischer (sic): la delegazione non è riuscita a incontrare un solo ministro. Ha chiesto infine di vedere almeno un certo dottor Dai Bingguo, consigliere del ministero degli Esteri cinese, ma anche il dottore era impegnato. Altra delegazione, stavolta di militari israeliani, che recavano le prove (con presentazione Power Point) delle intenzioni di Teheran di dotarsi della Bomba, e probabilmente qualche buona offerta di collaborazione nello sviluppo di armamenti avanzati. (China Snubs Israeli Calls for Iran Sanctions)

Ma anche questo approccio non deve aver dato risultati esaltanti, perchè Bibi Netanyahu ha annunciato a Pechino che stava arrivando per colloqui. Educatamente, gli dev’essere stato risposto che era il benvenuto, ma le agende degli alti capi cinesi erano tutte strapiene di impegni, e non potevano riceverlo. Fatto sta che Netanyahu ha pensato meglio di restare a casa.

Netanyahu si sentiva capace (a patto di non essere lasciato in anticamera), perchè già aveva convinto i russi ad aderire alle sanzioni durissime contro Teheran, o almeno così si lusingava. Perchè dopo la smentita di Pechino, anche da Mosca sono giunte dichiarazioni deludenti.

Mosca «non ha perso le speranze di risolvere il problema nucleare iraniano attraverso il dialogo», ha dichiarato a Interfax il viceministro degli Esteri Sergey Ryabkov: attualmente Teheran «non ha ancora toccato la soglia critica» verso la bomba atomica, e quindi «non accade niente oggi che possa far parlare di un nuovo capitolo. Proseguono normali negoziati, come sono sempre stati e sempre saranno». (Moscow hopes for diplomatic solution)

Quanto al ministro degli Esteri Sergey Lavrov, eccolo dire a RIA Novosti: «Non c’è prova che l’Iran voglia fabbricare armi atomiche. L’Iran ha diritto ad espandere il proprio programma nucleare», in cui la Russia lo sta assistendo.

Altre voci ufficiali hanno fatto sapere che Mosca può appoggiare «sanzioni selettive e precise» ossia un embargo su materiali e apparati per costruire l’atomica; il contrario delle sanzioni «paralizzanti»  pretese da Israele, che evidentemente vuole applicare agli iraniani la cura dimagrante che ha sperimentato a Gaza: niente pane, niente abiti, niente cemento, niente di niente.

Amarognolo finale, Ahmadinejad ha annunciato che anche la Cina parteciperà alla conferenza internazionale sul disarmo nucleare nel mondo, organizzato dal suo governo e che si terrà a Teheran il 17-18 aprile. Il titolo, «Energia nucleare per tutti, armi nucleari per nessuno» già fa intuire che si parlerà molto più contro l’arsenale atomico israeliano che contro le aspirazioni nucleari  iraniane. Alla conferenza hanno già aderito, secondo Ahmadinejad, 60 Paesi. (Iran says China to attend its nuclear disarmament meeting)

Ephraim Sneh
   Ephraim Sneh
Vedremo presto se Ahmadinejad millanta. Fatto sta che la diplomazia israeliana (ci si perdoni la contraddizione in termini) è tornata a battere sulla solita sfiatata tromba bellica: se non si arriva a sanzioni «paralizzanti», Israele dovrà attaccare da sola l’Iran il prossimo inverno: lo ha (ri)detto Ephraim Sneh, già vice ministro della Guerra, aggiungendo anche che l’attuale dirigenza israeliana dovrebbe accettare di congelare gli insediamenti illegali a Gerusalemme Est, come chiede (o implora) Obama, pur di ottenere in cambio che gli USA impongano sanzioni unilaterali contro Teheran. (When friends are mad at you)

Però Bill Kristol, famoso neocon israelita-americano, ha dichiarato a Fox News che sarebbe «molto meglio» se ad attaccare militarmente l’Iran fossero gli Stati Uniti anzichè Israele, ma – ha lamentato – «l’amministrazione Obama è così contraria anche solo ad accennare all’uso della forza, che non c’è il genere di preparazione che dovremmo avere se Israele dovesse colpire».

Bill Kristol
   Bill Kristol
Preparazione, par di capire, di tipo propagandistico; la disinformazione su Russia e Cina non è bastata. Il padrone vuole che sia il servo a sporcarsi le mani e l’immagine. (Kristol: ‘Better’ for US to attack Iran than if Israel did)

Bisognerà strizzare Obama un po’ di più, e fare più pressioni sui senatori USA; facile, a questo provvede la nota lobby con accanimento rinnovato. Il guaio è che, a metà marzo, il generale Petraeus (il comandante del CENTCOM) ha dichiaro al Congresso che i comportamenti di Israele danneggiano gli interessi americani: e i generali non devono concorrere alle elezioni, non sono eletti da nessuno, e dunque sono più impermeabili alle minacce dell’AIPAC.

Fatto anche più indicativo, le frasi di Petraeus hanno indotto un buon numero di media americani e inglesi ad inneggiare a questo generale; e non sono mancate voci che lo propongono alla presidenza USA per il 2012.

Uno sviluppo inquietante e imprevisto, per la lobby.


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