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Pechino domina il centro-Asia
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Un decennio di sforzi, spese, guerre e sovversioni, aperti ricatti e occulte manovre, mazzette e corruzione per assicurare agli USA il petrolio del Caspio; e per nulla. Tutti i poteri forti che a Washington (pensate a Dick Cheney e a Zbigniew Brzezinsky) hanno teorizzato e operato per  l’occupazione americana del «vuoto di potere» lasciato dalla caduta dell’URSS nello spazio centro-asiatico, hanno avuto un brusco risveglio il 4 dicembre scorso ad Astana, capitale del Kazakhstan.

Lì, il presidente-dittatore kazako, Sultan Nazarbajev, ha annunciato ad una folta platea di investitori occidentali (Chevron, Total, Arcelor Mittal, eccetera) che avrebbe concesso lo sfruttamento dei campo petroliferi del Paese solo «a coloro che propongono progetti per diversificare la nostra economia». Insomma, il semplice saccheggio delle ricchezze minerali che lascia i Paesi dei gusci vuoti – una tradizione delle Sorelle – non avrebbe più funzionato in Asia centrale. «Cercheremo altri partner a cui offriremo condizioni favorevoli» se sono pronti ad offrire progetti di sviluppo.

Dieci giorni dopo il discorso di Nazarbaev, il 14 dicembre, il premier cinese Hu Jintao era già impegnato in un tour dell’Asia Centrale per formalizzare la nascita di un oleodotto da 1.833 chilometri che unirà i giacimenti di gas in Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakhstan (e forse anche Russia) alla Cina, più precisamente alla regione autonoma di Xinjang. E questo appare essere solo il primo tratto di un’ambiziosa rete di 7 mila chilometri di tubature destinate a portare il gas centro-asiatico alle città cinesi sul mare, all’estremo Est.

E’ stato molto significativo notare che alla cerimonia di inaugurazione del gasdotto turkmeno-cinese erano presenti fianco a fianco il presidente turkmeno, quello kazako e quello uzbeko – capi di tre Paesi non immuni da tensioni regionali e non certo privi di contenziosi fra loro. La Cina sembra in grado di proporsi come la potenza pacificatrice, ed egemone.

Le tre repubbliche ex-sovietiche hanno accolto questo «nuovo partner» con un entusiasmo mai manifestato per le offerte euro-americane. Il Turkmenistan ha promesso di contribuire ad alimentare il gasdotto con 40 miliardi di metri cubi del suo gas ogni anno – la metà dell’attuale consumo cinese. L’Uzbekistan ha firmato già da novembre un impegno a fornire 10 miliardi di metri cubi. Il Kazakhstan ha promesso altri 10 miliardi di metri cubi.

Così Pechino si assicura i mezzi per la sua volontà di aumentare la percentuale di gas (pulito) nel suo mix energetico dal 3% del 2005 al 10% nel 2020, e la sostituzione del gas prodotto nei giacimenti nazionali, che sarà deficitario dal 2020 in poi.

E’ una realtà a cui le centrali americane non avevano mai creduto: gli opportuni disordini islamici nello Xinjang (abitato da turcofoni) pareva loro sufficiente a dissuadere Pechino dal progetto di attraversare quella ed altre zone semideserte e instabili dell’Asia centrale, con un costoso impianto fisso di tubi.

«Non c’è modo di proteggere un gasdotto in tutta la sua lunghezza», disse tempo fa Robert Ebel, del Center for Strategic and International Studies di Washington. «Lo Xinjang è una pentola a presione, sono sicuro che fa venire i capelli bianchi ai dirigenti a Pechino», sancì Stephen Blank, stratega dell’US War College, sulla rivista «Central Asia & caucasus Institute Analyst» della Jon Hopkins University.

Amara delusione. Il fatto è che da dieci anni la Cina conduce una diplomazia di cointeressenza nella regione, offrendo a quei Paesi lo sviluppo congiunto dei giacimenti e delle pipelines – dunque un progetto industriale per l’economia locale –, offrendo liquidità (prestiti in cambio di greggio), e progetti di sviluppo anche delle risorse nucleari (proprio in Kazakhstan, nel 2008, i cinesi si sono impegnati ad aumentare la produzione di uranio in joint-venture con la Kazatomprom, l’ente nucleare kazako).

Ma non basta. Il 4 dicembre l’uomo forte Nazarbaev ha rivelato di aver ricevuto da Pechino la richiesta di usare un milione di ettari di terreno potenzialmente agricolo kazako, ove agricoltori cinesi verrebbero inviati a coltivare soya, oleginosi ed altri prodotti. Ora, il Kazakhstan è grande come l’Europa, ma con soli 16 milioni di abitanti. Sicchè la fazione filo-occidentale nel Paese – quegli stessi nuclei di «cittadini» sponeaneamente addestrati alle «rivoluzioni colorate» per espandere la «democrazia» – hanno avuto buon gioco ad agitare il pericolo demografico cinese: a 15 cinesi per ettaro, su un milione di ettari, in Kazakhstan finirebbero per abitare 15 milioni di cinesi demograficamente attivi: 50 milioni di cinesi fra mezzo secolo (1).



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Ma questa propaganda, sicuramente suggerita da Washington, fa poca presa nella regione. Il Turkmenistan, per esempio, ha visto aumentare l’interscambio con la Cina di 40 volte dal 1995; oggi 35 imprese operano in Turkmenistan con capitali cinesi, dando lavoro a turkmeni in settori diversificati, agricoltura, tessile, chimica, alimentare, telecomunicazioni, trasporto, alleviando la disoccupazione permanente in cui quel Paese – come gli altri – versa dopo il collasso dell’impero sovietico.

Gli occidentali non hanno mai offerto altro che di sfruttare i minerali di loro scelta, escludendo ogni associazione nello sviluppo agricolo e manifatturiero; in più hanno tirato sul prezzo del gas e greggio, convinti di non aver concorrenti.

Invece, come ha detto Zhang Xiyuan, l’alto funzionario del ministero degli Esteri cinese al seguito di Hu Jintao nel suo giro regionale, «La Cina persegue la diversificazione delle importazioni di energia, e i Paesi dell’Asia Centrale aspirano a diversificare le loro esportazioni»: insomma, la convergenza è basata sul mutuo interesse. Del resto, il calo della richiesta del gas naturale centro-asiatico da parte dell’Europa, conseguenza della depressione economica, ha reso questa convergenza ogni giorno più solida.

Gli occidentali si sono anche illusi che la crescente influenza cinese nell’Asia post-sovietica finirà per mettere in rotta di collisione Pechino con Mosca. L’idea non è infondata: con il reticolato di oleodotti della «China’s Central Asia Pipeline», la Russia perde il controllo fermo che aveva sull’export di gas della regione. Ma i cinesi sono ben coscienti del rischio, e moltiplicano le attenzioni e le offerte di apertura verso la Russia.

«La cooperazione sul gas naturale fra Cina ed Asia Centrale è aperta e non esclusiva, non accaparra il mercato della Russia nè compete con la Russia per le risorse», ha scritto il Quotidiano del Popolo, ventilando di attrarre nella rete anche il gas dei giacimenti siberiani: la Cina ha i capitali per acquistare anche questa produzione. Pan Guang, direttore dello Shanghai Center for International Studies, ha voluto sottolineare che lo sviluppo economico della regione, riducendo la disoccupazione che è motivo di instabilità, «serve gli interesi di sicurezza della Russia».

La perdita secca, invece, è dell’Europa e dei servitori europei dell’imperialismo americano. Il gas turkmeno andrà alla Cina: dunque non alimenterà il Nabucco, la pipeline che dovrebbe unire i giacimenti del Caspio all’Europa meridionale, progetto fortemente voluto da Washington per tagliar fuori la Russia come fornitore primo dell’Europa, e che per essere economicamente sostenibile deve essere riempito dai giacimenti centro-asiatici, nessuno escluso.Ora Mosca ha un motivo in più per accellerare i suoi gasdotti diretti in Europa, Northstream e Soutstream, senza doversi guardare le spalle nel timore del gasdotto concorrente voluto dagli americani.

Putin – con il suo acuto senso politico- strategico più che economico – lo ha capito perfettamente: «Il gasdotto Turkmenistan-Cina non danneggia i nostri progetti di estendere la nostra rete di tubature, che possono anche raggiungere la Cina, dato il crescente consumo cinese di risorse primarie. Manteniamo regolari e stretti contatti coi colleghi cinesi su questo argomento».

Di fatto, Putin ha appena inaugurato nell’estremo est siberiano il porto petrolifero di Kozmino (più a oriente di Vladivostok) essenziale per aumentare la produzione petrolifera nell’est siberiano, e per accrescere le vendite di greggio russo alla Cina.

L’aspetto sarcastico del «nuovo ordine» cinese in Asia Centrale è che l’ultima speranza di alimentare il Nabucco onde renderlo conveniente consiste nell’immettervi gas iraniano, ossia di attrarre Teheran nel progetto, l’arcinemico di Israele e perciò degli USA. Ecco un caso lampante in cui – come direbbero Walt e Mearsheimer – gli interessi americani divergono dagli interessi di Sion.

Per ridurre la dipendenza europea dall’energia russa come vuole Washington, occorre assolutamente che l’Europa aumenti le sue importazioni dall’Iran; ma Washington applica sanzioni ai Paesi che fanno affari con Teheran e prepara un durissimo blocco economico perchè lo vuole Israele: il classico «catch 22», il problema senza uscita (uno dei tanti) in cui l’America si è messa servendo gli interessi sionisti prima dei suoi. Presto o tardi del resto gli europei apriranno  a Teheran perchè hanno bisogno delle sue risorse.

Sicchè Washington si è di colpo risvegliata all’amara realtà: «Questa amministrazione (Obama) non considera l’Asia Centrale uno stagno dimenticato, periferico rispetto agli interessi USA», s’è affrettato a proclamare George Krol, vice-assistente del Segretario di Stato Hillary Clinton per gli affari centro asiatici, davanti al Senato: «La regione è anzi al centro degli interessi-chiave di sicurezza, economici e politici USA».

E’ quanto di più vicino ad una autocritica che Washington abbia mai saputo pronunciare. Ma tutto quel che Krol ha offerto ai Paesi centro-asiatici è di cointeressarli nella guerra in Af/Pak, come fornitori di materiali e corridoio di trasporti per lo sforzo bellico; un’offerta condita da minacce se le tre repubbliche ex-sovietiche dovessero divenire «failed states» (Stati falliti), nel gergo orwelliano di Washington candidati ad una invasione per scongiurare che si trasformino in «covi di terroristi di al Qaeda» e serbatoi di (fantomatiche) «armi di distruzione di massa per i terroristi».

E’ un’offerta e una minaccia che le tre repubbliche, sotto l’ala di  Pechino, possono permettersi di rifiutare. Invece, il discorso americano è stato ben colto proprio dalla Cina: la sola carta che resta agli USA per contrastare la sua egemonia in Asia Centrale è «l’espansione della democrazia», la «lotta spontanea per i diritti umani» di minoranze locali, le rivoluzioni colorate – da aizzare all’uopo, specie nello Xinjianhg musulmano. A Pechino si allude ai «diavoli stranieri sulla Via della Seta», ossia a gruppi guerriglieri finanziati da Stati esteri per interrompere la rete di traffici e interessi in Asia Centrale: la nuova Via della Seta, riaperta dopo secoli. In questo senso, i leader cinesi hanno criticato il «surge» in Afghanistan – in cui vedono una fonte di destabilizzazione – e  rifiutato le offerte di Obama di costituire un condominio egemonico mondiale a due, il G-2.

Gli sforzi cinesi dunque sembrano aver superato e forse vanificato la spinta americana – cominciata dall’11 settembre 2001– a impossessarsi della «heartland», l’Asia Centrale con le sue risorse («Chi domina la heartland domina il mondo», come disse Halford J. McKinder, l’inventore della geopolitica di cui Brzezinski è seguace) (2).

Molto significativo il fatto che la Cina si è assicurata la fornitura energetica del suo futuro per via terrestre, mentre gli USA si affannano ad assicurarsi le vie marittime per il petrolio, minacciando l’Iran nel Golfo Persico, ed ora lo Yemen per il golfo di Aden – uno sforzo in cui si dissangua, con un successo almeno dubbio. E che, come ricorderebbe McKinder, è più incerto e debole della via che passa per il mare di terra – più stabile e sorvegliabile – che è la «heartland» dell’Asia Centrale.




1) China resets terms of engagement in Central Asia
2) Halford J. McKinder (1862-1947) presentò la sua intuizione geopolitica nel 1904 alla Royal Geographical Society: con i trasporti ferroviari, secondo lui la Russia era diventata in grado di spostare velocemente truppe e materie prime nel vastissimo spazio centro-asiatico, ricco di materie prime: un immenso «cuore di terra» che la Marina imperiale britannica non poteva insidiare nè dominare, e che lo Zar invece controllava: la guerra mondiale e la bolscevizzazione della Russia servirono egregiamente a stornare questo pericolo. McKinder raccomandò fra l’altro la creazione di Stati-cuscinetto per impedire che le due potenze terrestri, Germania e Russia, si unissero fisicamente ai confini e si integrassero economicamente: ciò che fu fatto dai vincitori della Grande Guerra con la creazione della Cecoslovacchia. Brzezinski ha proposto (e l’America attuato) la stessa manovra contro la Russia post-sovietica, per spingerla lontano dall’Europa e ridurla a media potenza asiatica; pare gli sia sfuggito che l’avversario da temere era piuttosto la Cina. Del resto anche sul versante imperiale marittimo gli USA hanno motivi di preoccupazione: il Giappone, col nuovo governo Hatoyama, è sempre più insofferente dell’ombrello di protezione americano (in funzione anti-cinese). Hillary Clinton ha voluto convocare brutalmente l’ambasciatore giapponese a Washington per richiamarlo all’ordine. (U.S. concerned about new Japanese premier Hatoyama)


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