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Berlusconi e l’identità nazionale
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In un libro scritto durante un soggiorno di tre anni trascorso in Italia, Tobias Jones dedica un capitolo intero alla figura di Silvio Berlusconi (1).

Nel Paese che viene definito «il più visivamente acculturato di qualunque altro», in cui «l’attenzione posta nell’acquistare scarpe, tovaglie, borse e vestiti è straordinaria e, agli occhi di uno straniero, impenetrabile», in cui si avverte ovunque un «sotterraneo, indubbio senso di erotismo», che è «la logica estensione della ricerca della bellezza e dello stile», il giornalista inglese cerca di comprendere quale rilievo possa avere, per il capo del governo, possedere non solo i cosiddetti mezzi di produzione, ma qualcosa di molto più importante ai fini della propaganda politica, e cioè i «mezzi di seduzione».

La domanda è - perché Berlusconi vince le elezioni?

Nel 1937 un gruppo di intellettuali fondò a New York l’Istituto per l’Analisi della Propaganda, con l’intento di istruire i cittadini e renderli in grado di decifrare il reale significato dei messaggi politici. I risultati dello studio confluirono in un elenco di meccanismi o «trucchi del mestiere», da cui emergeva un momento ancora oggi fondamentale in tutte le occasioni del discorso politico, che è il riconoscimento (2).

Riconoscimento significa identificazione in un modello capace di mettere d’accordo emittente e destinatario del messaggio, poiché rappresenta l’orizzonte di senso lungo il quale disporre i valori comuni, i significati, i ruoli e le aspettative.

E’ la condivisione del modello a deciderne il consenso. Esso riflette l’immagine che la società ha di se stessa perché è alimentato dai miti che sono alla base della sua produzione culturale e delle pratiche educative tramandate di generazione in generazione, e che legittimano i principii e i rapporti sui quali essa si regge.

Ecco perché la propaganda politica si configura come un tipo di comunicazione irrazionale e conservatrice al tempo stesso: è irrazionale perché non promuove un ragionamento o un’adesione fondata sulla logica, ma un incontro di percezioni e di necessità psicologiche (il politologo Robert Merton diceva che un buon propagandista è un «tecnico dei sentimenti» (3); ma è anche conservatrice, nella misura in cui si incarica di elargire conferme rassicuranti e di ribadire la stabilità del sistema.

Nel corso dei secoli, la società occidentale è approdata alla codificazione di un modello di riferimento ben preciso, quello della mascolinità, che trae le sue radici dalla rappresentazione della bellezza virile greca successivamente coniugata alle virtù della borghesia: onore, autocontrollo, rispettabilità. Nell’idea di kalokagathia corpo ed anima sono indissolubilmente legati, cosicché ad un fisico perfetto corrisponde, di necessità, la virtù morale e la profondità intellettuale (4).

L’immagine essenziale del giovane atleta greco, incarnazione dei valori spirituali e militari della classe aristocratica, viene successivamente declinata in base al percorso storico di ciascuna nazione, complice la rottura dell’unità religiosa e l’abbandono della comune lingua latina. Ne deriva l’evoluzione di uno stereotipo specifico per ogni Paese europeo, in grado di riassumere le caratteristiche dei singoli popoli così come esse vengono percepite da loro stessi e da chi li osserva.

Silvio Berlusconi ha intuito alla perfezione che la leadership politica è sostanzialmente un «epifenomeno» che ha il compito di rendere visibile una serie di attributi, di simboli, di aspirazioni facenti parte di un ideale collettivo - in ultima analisi, un modello.

Il leader politico è uno stereotipo che riassume in sé le qualità in cui la maggior parte dei cittadini aspira a riconoscersi. Tra queste troviamo certamente la virilità, che è sinonimo di forza fisica, di autorevolezza, di resistenza, di dinamismo, di coraggio; l’abbigliamento, che lo storico e collezionista d’arte Edward Fuchs definiva il modo in cui «ci si propone di condurre l’affare della pubblica moralità» (5); il linguaggio, capace di rievocare una rete di significati e di allusioni ad un mondo a cui si appartiene o di cui si aspira a far parte.

Ma ciò che il presidente del consiglio mostra di aver compreso meglio di chiunque altro è l’immagine dello stereotipo italiano, vale a dire quell’insieme di tratti e peculiarità che ne disegnano il carattere nazionale.

In Italia, la diffusione di modelli di comportamento normativi fa parte dei compiti di cui storicamente si è incaricato il potere politico, animato da una concezione pedagogica che affonda le sue radici nel Risorgimento. La nazione italiana giunge in ritardo alla conquista dell’unità e dell’indipendenza, a causa di una situazione le cui componenti si conservano inalterate dall’età rinascimentale: la dipendenza dallo straniero, la mancanza di una crescita economica omogenea, ma soprattutto una prassi politica che il popolo sente fondata per natura sull’inganno, la violenza, la simulazione, l’improvvisazione ed una buona dose di fortuna.

Il potere politico è percepito come una forza estranea, calata dall’alto, la cui legittimità non risiede in un patto stipulato (e rispettato) tra governanti e governati, ma nella sua stessa conquista. Ed è per questo che i cittadini lo sfuggono o lo irridono, e gli contrappongono un’altra giustizia oppure una solidarietà di gruppo che operi da filtro e che sovente coincide con il legame familiare, anteposto al valore della cittadinanza e ad una pratica democratica trasparente.

L’assenza di Stato e di società civile, come già notava il poeta Byron nella sua corrispondenza, ha causato per lungo tempo uno scarso orgoglio patriottico e una debole consapevolezza della propria identità, a cui si sono opposti prima le elites risorgimentali, poi l’avanguardia nazionalista, infine il regime mussoliniano.

Dalle generazioni che l’hanno preceduto, il fascismo raccoglie la fiaccola della mascolinità, della virilità assoggettata ad una fede superiore. Il cameratismo si fonda sul connubio tra un elevato tono morale ed un fisico prestante. Diversamente dal regime nazista, la virilità fascista privilegia la sfera del fare rispetto a quella dell’essere, e un attivismo vigoroso rispetto ad una perfezione immobile e sacrale. Questa è una delle ragioni per cui, almeno fino al 1938, il fascismo non accoglie l’istanza razzista.

Celebri sono la postura e la teatralità delle arringhe di Benito Mussolini, che coltiva un’immagine di forza fisica nei muscoli, nelle braccia e nel torace, definito da Roland Barthes «l’anti-testa» per eccellenza, il cui corrispettivo morale sono fierezza ed efficienza, contrapposti all’intelligenza rarefatta degli intellettuali, dei liberali impotenti, dei borghesi decadenti. «Nel corpo che lotta contro la testa», continua il semiologo francese, «c’è tutta la lotta dei piccoli… la pienezza fisica costituisce una chiarezza morale: solo l’essere forte può essere franco» (6).

Berlusconi si colloca indubitabilmente sulla scia dello stereotipo dominante e se ne rende interprete d’elezione, sebbene non sempre consapevole, con la cura maniacale dell’estetica, l’attivismo iperbolico e ostentato, peraltro non solo prettamente politico, il malcelato disprezzo per la riflessione raffinata, alla quale contrappone un decisionismo pragmatico e un po’ corsaro, avendo però sempre cura di salvare le apparenze con gli accenti del buon padre di famiglia che agisce per il bene dei figli, anche laddove essi si dimostrino ingrati.

Il leader del Pdl si pone come un capo carismatico, al quale si può e si deve perdonare in nome di più alti e gloriosi traguardi. L’errore (dal fallimento delle misure finanziarie alla sbandata per la velina deputata) sembra essere un male necessario, da sopportare affinché il dominus liberi la sua parte più fragile e corruttibile per poi tornare, carico di purificata energia, a lavorare instancabilmente per la collettività.

Dopotutto guarda dove è arrivato, riflettono ammirati i suoi elettori. E’ il risultato che conta, ed il fine giustifica i mezzi, secondo la meno nobile e più malintesa tradizione machiavelliana. Ancora una volta il potere che legittima il potere, senza curarsi delle procedure, che in democrazia sono forma e contenuto al tempo stesso.

Ma l’italiano non è solo scarsa coscienza civile, mancanza di profonda tradizione democratica, prevalenza di interessi particolari di tipo familistico su quelli collettivi. E’ anche allegro e solare, amante della bellezza, infantile e cicisbeo nel rapporto con le donne, a cui delega volentieri la responsabilità dell’educazione dei figli e della gestione domestica. Si fida troppo della sua capacità di improvvisazione, non a caso è noto per essere talentuoso e creativo, ma spesso l’improvvisazione si traduce in avventatezza, e lui finisce per essere giudicato unanimemente inattendibile, inaffidabile, incoerente. Però suscita simpatia e comprensione per la sua umanità, e per la sua disponibilità a conciliare le proprie ragioni con quelle dell’altro. Per l’italiano medio, infatti, l’accettazione dell’autorità passa attraverso la sistematica mancanza di rigore nell’applicazione delle norme, in nome di un compromesso che dia voce alle esigenze della quotidianità, dei poveri e degli oppressi.

Perché è così che lui si sente: a metà strada tra il martire e l’irresponsabile, sovrastato da forze più grandi di lui, sulle quali non ha influenza e dalle quali deve difendersi, burlandosi di loro, o magari mettendosi al loro servizio. Se però decide di opporsi ad esse, sa già che la lotta sarà impari, e che la vittoria possibile solo a prezzo dell’isolamento.

E Silvio Berlusconi? Lui è italiano quando nega l’evidenza, quando si arrampica sugli specchi, quando cade e si rialza con una boutade. E’ italiano quando interrompe un discorso politico con le ultime sul calcio-mercato e quando tradisce la moglie, salvo poi ribadirle eterno amore perché madre dei suoi figli; quando intona una strofa in compagnia di Apicella e quando costruisce abusivamente, perché le critiche «sono tutta invidia», e pazienza se il permesso è arrivato con un anno di ritardo. Berlusconi sa di fare quello che gli italiani vorrebbero fare, e che probabilmente farebbero al posto suo. Sa anche che essi si accontentano di partecipare al suo successo per via surrogatoria e catartica, per questo gli appronta palinsesti da cui possano spiare e continuare a invidiare. Del resto è disposto a perdonare molti peccati, forse perché ne ha commessi altrettanti, o forse perché è consapevole di poter contare su un clan di devoti clientes, pronti a sostenerne i progetti e a condividerne le sorti.

Nelle campagne elettorali non rinuncia all’inventiva, nel suo caso supportata da ampie risorse economiche: la crociera elettorale sulla nave Azzurra rimane inarrivabile. Ma la forza della sua propaganda sta nel comunicare un’atmosfera, un clima fisico, uno stile di vita espresso in una morfologia. Piuttosto che ricorrere alla persuasione dei fatti, Berlusconi si avvale della suggestione operata da un mondo scintillante, che gioca ad essere lontano e raggiungibile al tempo stesso. Lo scopo non è tanto quello di proporre un programma politico, ma una concezione della realtà corrispondente ad una personalità seducente e di successo. Per questa via realizza il coinvolgimento di fasce di popolazione altrimenti estranee al dibattito politico, determinato proprio da una percezione nuova della politica come universo non più separato dall’ immaginario quotidiano.

Anche il linguaggio utilizzato, altamente simbolico ed evocativo, si presta alla magia di una conquista possibile, di un rinnovamento rigenerante che sappia fare tabula rasa dei fallimenti precedenti, ignorando pericolosamente il rischio che la prospettiva mitica del cambiamento totale alimenti la sensazione della mancanza di un comune sentimento civile, in un Paese troppo a lungo lacerato da fratture ideologiche e culturali.

La percezione di una società senza una comune piattaforma di regole introiettate (un common law, per dirla con gli inglesi) genera un frequente richiamo ad un governo «amico», ad «istituzioni più vicine», che rende evidente la considerazione della politica come un ostacolo, o addirittura come pericolo per l’autonomia e l’iniziativa del singolo. Da qui al sentimento dell’antipolitica il passo è breve: lo Stato è il problema, non la soluzione, e Berlusconi non ha mai nascosto di rifarsi alla mobilitazione individualistica a suo tempo auspicata dalla Lady di Ferro: «There is no such a thing as society». Contano più i singoli dell’insieme.

Quando chiede la fiducia degli italiani, Silvio Berlusconi lo fa spesso in nome di un appartenenza di gruppo, di volta in volta diversa in funzione del genere di pubblico che si trova dinanzi. Siano imprenditori, padri di famiglia o tifosi, il messaggio è «sono uno di voi», dunque curerò i vostri interessi. E poco importa che la società italiana continui ad essere un luogo strutturato faziosamente e a tendenza oligarchica, dove l’unico modo per farsi ascoltare è quello di invocare l’aiuto della personalità di spicco, quella più potente, attorno alla quale il gruppo si raccoglie.

Una considerazione a parte merita infine il modello di riferimento femminile. Cosa accomuna invitare una giovane afflitta dalla disoccupazione a sedurre un milionario e deplorare uno stupro constatando, però, l’impossibilità di proteggere tutte le italiane perché troppo belle? Risposta: la concezione della donna come oggetto. Anche l’inserimento delle cosiddette veline nelle liste elettorali, oltre a denotare una concezione delle istituzioni come mera protesi dei palinsesti televisivi, e dunque come «cosa sua», altro non è che la strumentalizzazione dell’immagine delle donne a fini decorativi.

A meno che non si tratti della propria madre, infatti, da cui si ricerca comprensione e sostegno incondizionato, la figura femminile è destinata al piacere di chi se ne circonda, piacere che si pretende sublimato nell’amore della bellezza e dell’arte. Peccato che, non appena dismessi i nobili panni del padre della patria e si riafferri la cornetta del telefono per parlare di fiction, arte e bellezza riacquistino i loro connotati carnali e svelino l’intero campionario di allusioni erotiche, il machismo becero, l’ironia grossolana.

Come registra lo sguardo forestiero di Tobias Jones, è il trionfo della seduzione che, messa in atto nei confronti della figura materna oppure subita dinanzi alla femmina da esibire, non prevede alcun contraddittorio o confronto alla pari.

E forse non può davvero essere diversamente nella patria del latin lover. Dai diari di Casanova a Rodolfo Valentino, lo stereotipo dell’amante latino è il solo aspetto di un’unica identità italiana, dal siciliano al milanese, dal veneziano al napoletano.

Così, in attesa che Veronica Lario completi l’opera che non è ancora riuscita ad almeno una dozzina di esponenti dell’opposizione, non ci resta che riflettere la nostra immagine nella sua, ricordando con Umberto Eco che «le immagini non sono mai ingenue, come non lo sono le parole… trascinano con sé come detriti, echi e profumi, la cultura da cui nascono e a cui riconducono» (7).

Milena Spigaglia






1) Tobias Jones, «The dark heart of Italy», London, Faber and Faber Limited, 2003.
2) Confronta Institute for Propaganda Analysis, «How to detect propaganda», in R. Jackall e A.J.
Vidich, «Propaganda», New York University Press, 1955.
3) Robert Merton, «Mass Persuasion: the social psychology of a war bond drive», New York-London, Harper & Brothers, 1946.
4) G.L. Mosse, «L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna», Torino, Einaudi, 1997.
5) E. Fuchs, «Sittengeschichte», Munchen, Langen, 1909.
6) Roland Barthes,«Miti d’oggi«, Torino, Einaudi, 1974.
7) Umberto Eco, «La donna è nubile», in A. Sartogo, «Le donne al muro. L’immagine femminile nel manifesto politico 1945-1977», Roma, Savelli, 1978.




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