L’Expo della provola
Stampa
  Text size
Questa è una settimana in cui volevo né leggere né scrivere (il che significa essere analfabeta). Ma qui dove sono mi passano il Corriere, sicché ho dovuto leggere gli articoli sul grande evento di domenica. Ossia: Napolitano a Monza «lancia l’Expo», quella del 2015 a Milano, e insieme «lancia l’operazione orgoglio». «Ritroviamo la fiducia in noi stessi». È stata data questa parola d’ordine e il Corriere, con non so quanti inviati, si prodiga ad amplificarla: basta col pessimismo, basta con la «sottovalutazione» di noi stessi, ha detto nella gran giornata Enrico Letta, e il quirinalista del Corrierone chiosa: è «un certo sbagliatissimo modo di pensare e di autorappresentarci, l’eterno vizio che Carlo Emilio Gadda chiamava “la porca rogna del denigramento di noi stessi”».

Capito? D’ora in avanti è vietato essere pessimisti. Il vignettista della casa, Giannelli (una loffia a dire il vero ) stende il paragone storico: «Monza 1900: l’anarchico spara a re Umberto – Monza 2013: Re Giorgio spara all’anarchia». Batte ancora una volta l’ora dei grandi destini nazionali, e re Giorgio ci guida. All’ottimismo. Non si tratta, come esplica ammirato il quirinalista, «dell’euforia cieca e magari scomposta che si sprigiona da sola quando le cose vanno già bene per conto proprio, ma di una consapevolezza da costruire giorno per giorno». Dato il la, le sviolinate non hanno più limiti. A Monza «va in scena un pomeriggio di perfetta concordia nazionale»; Letta e Maroni (governatore della Regione) si scambiano gesti di fiducia, «musica per le orecchie di Napolitano», cantano gli aedi corrieristici del nuovo ottimismo. Ad Aldo Cazzullo, un furbone in carriera che non sbaglia mai un colpo a leccare il potente che conta, viene affidato il trillo finale del violino, quello del maestro: «Per il suo richiamo alla coesione e alla fiducia il presidente della Repubblica non poteva scegliere una circostanza più adatta.. Enrico Letta sta confermando la sua competenza e la sua preparazione», e via sviolineggiando.

Tanta è la foga, che si sviolina Milano: quella che è ormai una cittaduzza in declino storico, il teatro del fallimento di una classe del Nord che non ha saputo né voluto (per incultura) farsi casse dirigente, e che è finita in Olgettine e figli Trota – una bancarotta morale ed intellettuale che ha beninteso travolto ed affondato i presuntuosi «tecnici», usciti dalla «prestigiosa università Bocconi» e rivelatisi appena messi al governo da «Re Giorgio», peggio che incompetenti, idioti ciechi e sordi – ebbene, di questa Milano dei Berlusca dei Monti, il Cazzullo scrive così: «Questa vetrina non poteva essere che Milano, una metropoli che porta la vocazione della stessa centralità nel suo stesso nome… Finanza, editoria, design, moda, lirica, calcio (sic), ospedali d’avanguardia (altro sic) università di eccellenza… (ho esaurito i sic)...».

Il virtuoso di violino vuol dimenticare che il nome di «metropoli», nel ben mondo globalizzato, spetta a città di almeno 15 o20 milioni di abitanti con decine di metropolitane, centri finanziari colossali, eccellenze da primato mondiale ben più concrete del «calcio» (che non è nemmeno una nostra eccellenza). «Metropoli» sono Seul, Shanghai, Tokio, New York. Persino Istanbul, 13 milioni di abitanti, nuovi ponti sul Bosforo, aeroporto modernissimo, è più metropoli di questa Milano, città di provincia di un milione e mezzo di abitanti, edilizia invecchiata e invasa da graffiti, cartacce cacche di cane ed erbacce, centro storico minimo e senza gusto, un vecchiume sporco e grigio senza nemmeno un qualche fascino retrò da piccola città. È probabilmente la prima volta che una Esposizione Universale si tiene in una città di provincia di un piccolo Paese in decadenza.

«L’Expo può essere ancora un grande successo», intona il cantore di Napolitano, «intanto perché verte sul cibo…». Già, verte. Sul cibo.

Qui è necessario rievocare per un momento che cosa sono di solito le Esposizioni: nate negli anni storici del Progresso e del progressismo europeo col Ballo Excelsior, celebravano le magnifiche sorti e progressive della scienza e della tecnica quando scienza e tecnica erano europee; il Paese che se ne aggiudicava la sede ne faceva la vetrina degli avanzamenti e delle innovazioni di cui era orgoglioso, delle ultime scoperte dei suoi scienziati eccellenti, delle realizzazioni delle sue industrie di punta. La Tour Eiffel fu concepita per la grande esposizione di Parigi per la sua arditezza tecnica, al limite dell’impossibile; pochi anni prima, il Palazzo di Cristallo di Londra fu presentato come la clamorosa primizia di una nuova futuribile architettura di vetro e metallo. Quel che è stata l’Esposizione di Shanghai lo ricordiamo, un kolossal urbanistico che ha consacrato l’entrata della Cina nel primo mondo avanzato.

L’Italia non ha da esibire alcun primato tecnologico. Non gadget elettronici come la coreana Samsung; non fabbrichiamo schermi al plasma, notebook e tablet come i cinesi, né abbiamo una notorietà qualunque come geniali produttori di software, di chips di radar; se è per questo, non abbiamo più un’industria di chimica fine, un settore farmaceutico; la nostra industria automobilistica è scomparsa dalla scena mondiale; droni ed altri armamenti avanzati, non ne facciamo; il nostro celebratissimo settore del lusso è in mani francesi; i Loropiana figli non avendo più voglia di lavorare, si sono fatti comprare da Arnault: per 2 miliardi, buon prezzo visto che l’azienda ha un fatturato di 700 milioni annui. Solo una annotazione: quei profitti, d’ora in poi, vanno in Francia.

Seconda annotazione: non conveniva a qualcuno dei nostri capitalisti assicurarsi il boccone? Magari una cordata dei signori del Lusso? Macché: Della Valle e la famiglia Elkann si battono per strapparsi, a suon di milioni, il Corriere. Un ferrovecchio in perdita abissale, ma utile per la guerra civile italiana, la sola passione nazionale.

Persino nel turismo non siamo competitivi. Stendiamo un velo sui Bronzi di Riace non più visibili da anni, e sul disastro idiota di Pompei. Non abbiamo più nulla.

Per essere più precisi, avevamo tutto questo – farmaceutica, chimica, aeronautica, radio elettronica –, e non l’abbiamo più. L’abbiamo lasciato invecchiare, deprezzare, svendere: per incuria, mancanza di intelligenza e di cultura, per non voler più studiare e lottare per un posto dignitoso nel mondo come nazione.

Cosa ci resta da esibire? Il cibo. Ossia, la nostra provinciale convinzione, largamente immaginaria, che «se magna bene solo in Italia». Un primato cafonesco, sia fantastico o reale, di cui ci compiacciamo perché è facile: mica servono le università, mica occorrono laboratori di ricerca e rigorosi studi per primeggiare in cucina. Ci culliamo di una «creatività» da ristoratori e casalinghe, mica da inventori di nuove tecnologie; il rigore mentale ci è estraneo, ma «du spaghi li sappiamo fa’ tutti». E siamo certi che quasi due miliardi di cinesi e un miliardo di indiani abbiano bisogno del nostro apporto civilizzatore in forma di provolone e burrata, di mortadella e aceto balsamico, ed aspettino la rivelazione dei tortelli di zucca e dei pici all’aglione, ché solo noi sappiamo fare.

Già alla stazione di Milano, per accogliere i 20 milioni di visitatori attesi , hanno messo ai lati del portale d’entrata due statue di cartapesta, finto-antico, che vogliono esser comiche. A tutta prima sembrano guerrieri romani, ma a guardarli meglio vedi che uno ha il gonnellino fatto di fiaschi di vino, l’altro di salami. Ohimè.

Ho proprio l’impressione, colmo di vergogna, che la sola cosa che saremo capaci di mostrare al mondo nell’Expo 2015, sarà la nostra arretratezza.



L'associazione culturale editoriale EFFEDIEFFE, diffida dal copiare su altri siti, blog, forum e mailing list i suddetti contenuti, in ciò affidandosi alle leggi che tutelano il copyright.