Sodomia ed ebrezza tanatofila
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Nel 1949, Pier Paolo Pasolini, reo di corruzione di minori e di atti osceni in luogo pubblico, fu espulso dal PCI «per indegnità morale e politica». Correvano gli anni stalinisti, e la cultura sovietica era dominata dal realismo di Lukács, l’ideologo che approvava la rivoluzione senza i guanti bianchi, ma non tollerava le trasgressioni.

Nel 1956 il rapporto Chruscev iniziò la fine dello sdoppiamento della strategia sovietica: nelle radiose giornate dei carristi a Budapest fu confermata la rivoluzione senza guanti bianchi, in compenso la trasgressione morale fu cautamente tollerata dai sorveglianti sulla letteratura. In campo estetico la svolta chrusceviana del 1956 avviò l’interruzione del conflitto tra realismo proletario e intimismo borghese.

Non fu la fine della cultura comunista ma un primo passo verso la sua fatale involuzione borghese. Infatti il 1956 è l’anno di «Officina», la rivista che segnò la fine del neorealismo, dichiarò la libera uscita dei letterati e decretò il successo del pasoliniano «Ragazzi di vita».

In un breve giro di tempo, la diversità imbarazzante e intoccabile del poeta friulano uscì dal margine vergognoso del PCI e diventò il vessillo della sinistra orgogliosamente marciante sulla via di Sodoma e Gomorra. Cominciò la conversione del riscatto operaio in promozione dell’aborto, dell'adulterio, della pederastia, dell’incesto e della thanatofilia.

Alberto Asor Rosa sostenne che Pasolini rappresenta il passaggio dal neorealismo «ai miti della regressione sottoproletaria», ossia la prova generale della sostituzione del binomio Marx-Lukács con il quadrinomio adelphiano Nietzsche-Freud-Mann-Bataille.

Pasolini è dunque l’emblema del passaggio dall’illusione rivoluzionaria al trionfo del nulla nella discarica borghese. Lo ha confermato un interessante saggio di Ilario Quirino, edito nel 2002 da Costantino Marco. Nel saggio in questione, l’autore approfondì la tesi di Alberto Zigaina (secondo il quale Pasolini cercò disperatamente la propria morte).

Con il sussidio di alcune teorie psicoanalitiche, Quirino compose il ritratto dell’ideologo scismatico, che si aggirava (quasi rapito da mistico furore) tra le perversioni atroci e le punitive delizie, che sono descritte nel fluviale romanzo autobiografico «Petrolio».

Pasolini è il ritratto paradossale del bacchettonismo «oltre umano» infuriante a sinistra. Aveva dunque ragione Adriano Romualdi, quando si opponeva all’infatuazione pasoliniana dei neodestri scrivendo:

«Come il più basso D’Annunzio, Pasolini è ad un tempo esteta e cruscante, amatore e collezionista di preziosità linguistiche, ricercato e fatuo. E come molte prose dannunziane, la prosa pasoliniana, pur capace di abilissime bravure, ci stanca o meglio ci stucca. … In fondo Pasolini è un nietzschiano. I suoi eroi, cui tutto è permesso, hanno il loro bravo posto tra le falangi delle scimmie di Zarathustra, che hanno invaso l’Europa. Gli elementi della sua concezione generale della vita rimangono, nonostante le verniciature marxiste, sul terreno del ritualismo spicciolo tra i detriti dei grandi tentativi romantici».

Purtroppo Quirino non considerò il versante nietzschiano di Pasolini e non vide lo steccato che separa il misticismo dalla paranoia. Infatti citò un testo pasoliniano, nel quale l’alienazione suicidaria, («la disperazione degli uomini destinati ad essere morti»), incide un carattere misterioso («il sentimento primo di non essere accolti con amore») sulla regressione «più terribile e incurabile».

La tensione tra il mortifero amore e l’amata morte, che attraversa tutta l’opera di Pasolini, sarebbe dunque la conseguenza di una ferita originaria, e di una speciale vocazione religiosa. Dalla mistica confusione di malattia e vocazione all’incursione nelle parole di San Paolo intorno allo «stecco nella carne» il passo è breve.

Pasolini fu realmente incuriosito dalla teologia paolina, come risulta dalle assonanze che Quirino segnala e sottolinea puntigliosamente. Se non che la curiosità pasoliniana era intorbidata dall’intenzione della più bassa propaganda. Nel progetto per il film su San Paolo, infatti, Santo Stefano diventa un partigiano comunista, i farisei hanno la parte dei nazisti invasori e San Paolo quella del collaborazionista, prossimo a convertirsi all’ideale.

In seguito Pasolini (lo sottolineò senza difficoltà anche Quirino) attribuisce al rapporto dell’Apostolo con Timoteo «le caratteristiche sessuali che hanno infiammato la vita dell’autore». In breve: Pasolini tentò di affondare il Cristianesimo nelle sabbie mobili della pederastia politicamente corretta.

L’opera di Pasolini è dunque una metafora del comunismo nella fase «ultima» e mistificatoria, quella lucidamente prevista da Augusto Del Noce. Pasolini converte le illusioni ideologiche nei consolamenti procurati dai vizio dell’oligarchia iniziatica. I suoi scritti «corsari» sono parodie della povertà evangelica e mistici rivestimenti delle raffinatezze crepuscolari.

Mentre San Paolo scriveva le sue lettere con la mano deformata dalla fatica operaia, l’incensato Pasolini riceveva compensi sontuosi e dotti applausi, pubblicando le tesi della rivoluzione libertina nelle colonne di un quotidiano dell’oligarchia. E delle più bieca e fumosa oligarchia, quella che decideva la metamorfosi dell’ateismo marxiano nella religione capovolta nel salotto buono.

Piero Vassallo