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La sindrome del complotto
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Il 30 luglio Piero Angela in una sua trasmissione di divulgazione scientifica (super Quark) introdusse distrattamente un pezzo che trattava di una presunta mania del complotto che imperversa in tutto il mondo industrializzato da alcuni decenni. Piero Angela ha introdotto l’argomento come se si trattasse di una delle tante deviazioni ideologiche che affliggono il mondo occidentale. Nel pezzo veniva fatta una succinta analisi sociologica, che concludeva dicendo che chi presta fede alle teorie dei complotti, che immancabilmente sarebbero dietro i principali avvenimenti della nostra era, appartiene a ben determinate categorie sociali, come disadattati per varie cause, frustrati cronici od occasionali. Vengono citati i fatti più importanti che hanno dato origine alle teorie dei complotti più diffusi radicati.

Tra questi viene citato l’assassino di J. F. Kennedy, che secondo i complottisti non sarebbe stato ucciso da Oswald con il suo «miracoloso» fucile Carcano, come stabilito dalla commissione Warren, ma colpito da un fucile a pompa per opera di agenti della CIA. Per amore della cronaca si deve dire che l’assassinio di Kennedy è stato seguito da una autentica strage. Oswald venne ucciso alla sua apparizione in pubblico da un tale Ruby, amico della polizia locale. Ruby in carcere venne fatto dormire a sua insaputa su materiale radioattivo che ne provocò la morte prima che arrivasse al processo. Quasi tutti i testimoni trovarono la morte per diverse cause così che sull’accaduto non fu possibile istruire un processo. Si parla di alcune centinaia di persone, una specie di rito come era consuetudine presso certi popoli che onoravano la morte di un re facendolo accompagnare nell’oltretomba da uno stuolo di amici, mogli, concubine ed anche cavalli. Ciò che è accaduto attorno e dopo la morte di Kennedy appartiene alla categoria dei fatti storici, fatti che obbiettivamente possono alimentare il sospetto legittimo che dietro quella morte ci sia ben altro che un povero psicopatico come Lee Oswald.

Tutti gli avvenimenti tragici che hanno influito sulle decisioni degli statunitensi non sono stati esaminati in un tribunale. Quindi esistono molte ragioni che fanno pensare che la storia della nostra era, in particolare la storia scritta dagli USA, non sia veritiera, almeno non veritiera come la storia di ere precedenti. Ad esempio la storia romana ci ha raccontato in dettaglio la vita e le opere dell’imperatore Nerone; di lui sappiamo tutto mentre della storia attuale abbiamo solo un cumulo di notizie che sembrano raccontate apposta per mascherare la realtà. Come si dirà più avanti, gli Stati Uniti fecero guerra alla Spagna dopo che una loro nave, in visita nel porto dell’Avana a Cuba, venne fatta oggetto di un attentato che uccise alcuni marinai americani. Dopo anni gli Stati Uniti riconobbero che l’attentato era opera loro e non della Spagna. Quanto all’assassinio di Kennedy recentemente è venuta fuori la verità. Blondet in un suo articolo (1) riferisce i particolari del complotto. Il vicepresidente Lyndon Johnson era il principale personaggio del gruppo dei congiurati.

Sono quarant’anni che i «grandi media» trattano da visionari complottisti tutti coloro che non credevano alla versione ufficiale di quel lontano attentato: che un «assassino solitario» di nome
Oswald avesse ucciso il presidente. Ora, quarant’anni dopo, nell’anniversario dell’assassinio, viene fuori la verità. La dice la stessa amante di Johnson, Madeleine Duncan Brown (2). La donna  è morta nel 2002, il 22 giugno; ma il suo racconto emerge da una video-intervista di 80 minuti, che le fece un ricercatore indipendente di nome Robert Gaylon Ross.

La Brown aveva raccontato la sua relazione con Jonshon già dagli anni ‘80; ma - stranamente - nessun grande mezzo di comunicazione l’aveva mai intervistata a fondo su quella notte a Dallas. Lucida, senza alcun odio per il suo antico amante, oggettiva, la Brown racconta nel video che il piano per uccidere Kennedy cominciò a prendere forma nel 1960, già durante la convenzione democratica dove il partito decise di candidare Kennedy alla presidenza, con Johnson come vicepresidente.

Fu H. L. Hunt, un miliardario texano del petrolio ad imporre Johnson, come contrappeso al candidato di quella che i maggiorenti texani chiamavano con dispregio «mafia cattolico-irlandese», ossia la famiglia dei Kennedy. La Brown ricorda nel video che camminava a fianco di H.L. Hunt a Dallas mentre costui ricordava il braccio di ferro con Joe Kennedy (il padre del clan) che era riuscito a imporre il figlio: «Abbiamo perso una battaglia, ma vinceremo la guerra», disse allora Hunt.

Il giorno dell’attentato, tre anni dopo, Hunt disse: «Ecco, abbiamo vinto la guerra». Per la Brown, il regista dell’esecuzione era appunto Hunt.

«Avevano quel lodge fuori Dallas, si incontravano lì», dice: «Lui sceglieva gente diversa che poteva fare certe cose per lui, e sono sicura che questo cominciò due anni prima dell’assassinio. E’ stato un delitto del tutto politico, e Hunt lo controllava». Una delle persone che facevano «le cose per Hunt» era Jack Ruby, tenutario di casinò, di bische clandestine, fornitore di ragazze allegre e di altri servizi occulti ai maggiorenti, non esclusi omicidi a contratto; l’uomo che il 24 novembre sparò ad Oswald sotto alle telecamere del mondo.

Rievoca la Brown: «Giocavamo al poker al Carousel Club (il night di Ruby) e Jack Ruby arrivò e disse: Sapete che cosa è questo? Guardai, ed era (la mappa del percorso) della sfilata di auto… mi colpì che sapesse dove sarebbe passato il presidente… allora pensavo che fossero intoccabili». La donna si riferisce spesso a un «8F group» per indicare il gruppo di individui che gravitava attorno a Johnson e ad Hunt. Ne facevano parte petrolieri texani, giudici e Edgar Hoover, il direttore dell’FBI.



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Lyndon Johnson taking the oath of office on Air Force Once following the assassination of John Kennedy, Dallas, Texas, November 22, 1963.




La sera del 21 novembre ci fu un party a Dallas, nella magione di Clint Murchison, un altro miliardario con buoni agganci con la famiglia mafiosa dei Genovese; Hoover era alla festa, e c’era anche Jack Ruby. La Brown era presente, e ricorda parecchi nomi dei partecipanti. C’era John McCloy, presidente del Council on Foreign Relations, della Chase Manhattan Bank, intimo dei Rockefeller, al tempo consigliere politico di Kennedy. C’era George Brown, della Brown & Root, grande impresa multinazionale di costruzioni, poi divenuta la Kellogg, Brown & Root, agenzia di infrastrutture che fornisce anche mercenari ed è stata assorbita dalla Halliburton. C’era Clyde Tolson vicedirettore dell’FBI. C’era Richard Nixon. C’erano numerosi pezzi grossi della mafia, e una quantità di importanti giornalisti di giornali e TV. La festa cominciò verso le 22, e gli ospiti manifestarono una certa sorpresa quando arrivò Lyndon Johnson, il vicepresidente, direttamente da Houston. Subito McCloy convocò una riunione a porte chiuse con i più importanti dei presenti.

«Lyndon non restò a lungo nella sala della riunione», racconta la sua amante, «e quando uscì mi afferrò per il braccio e mi disse: ‘Dopodomani quei figli di puttana (SOB, sons of a bitch) non mi daranno più guai’».

complotti_1.jpg«Se non fosse avvenuto l’assassinio, probabilmente Lyndon Johnson sarebbe finito in galera», rievoca Madeleine Duncan Brown. Perché, racconta, stavano venendo fuori particolari scottanti sulle tangenti che il vicepresidente prendeva per certi programmi agricoli. C’erano molti che erano disposti a testimoniare contro di lui; stranamente poi questi testimoni finirono male. Alcuni furono implicati in scandali omosessuali. Altri si suicidarono, uno di questi sparandosi alla testa cinque colpi (difficile)!Anche la Brown sostiene di essere stata «avvertita». Suo figlio, il bambino illegittimo che aveva avuto da Johnson, dice, scomparve insieme alla baby sitter. A quel punto la donna ritenne che sarebbe stata più sicura se avesse reso pubblico quel che sapeva della storia. Scoprì che i media non erano interessati. Eppure la versione della Brown è apparsa in un libro («Blood, power and money - How LBJ killed JFK»), scritto da una personalità alquanto difficile da screditare come complottista visionario: Barry  McClellan, padre di Scott McClellan, il portavoce della Casa Bianca all’epoca dei Kennedy. Anche Robert Gaylon Ross, l’uomo che ha intervistato la Brown e ne ha ricavato il video-confessione, non ha l’aria di un visionario assetato di pubblicità. Ingegnere texano, è stato ufficiale della Army Security Agency, il ramo militare della NSA (National Security Agency) con compiti di decrittaggio dei codici nemici.

Quarant’anni dopo: la verità sul complotto che uccise Kennedy emerge quando ormai non ha alcun valore politico, non può più cambiare le cose, è buona al più per i libri di storia. Nel 1963 non esisteva internet: è la sola cosa che oggi può fare la differenza, far sapere la verità orrenda quando ancora può servire.

Pearl Harbour sorpresa o atto previsto?


Una corrente di storici (3) ritiene che l’attacco a Pearl Harbor non solo avrebbe potuto essere validamente contrastato ma che addirittura sia stato favorito dalle massime autorità americane, specificatamente per volontà e determinazione dell’allora presidente degli Stati Uniti d’America Franklin Delano Roosevelt. Secondo questa teoria il Giappone sarebbe stato deliberatamente provocato alla guerra attraverso misure restrittive quali l’embargo petrolifero e quello di altre materie essenziali all’economia giapponese e successivamente la dislocazione delle navi da guerra americane nelle Hawai sarebbe stata elaborata in modo da costituire un’esca attraente per il bellicoso governo giapponese. Inoltre i segnali evidenti del movimento della flotta del Sol Levante destinata a portare gli aerei che avrebbero attaccato Pearl Harbor sarebbero stati deliberatamente ignorati dalla marina americana per ordini dall’alto.

Tra marzo e luglio 1941 le navi americane si avvicinarono diverse volte in assetto di guerra alle acque territoriali giapponesi. Il 31 luglio 1941 il ministero della Marina giapponese consegnò all’ambasciatore negli Stati Uniti una lettera formale di protesta (4). Tutto questo avrebbe avuto un solo scopo: invitare il Giappone a vibrare un colpo di forte rilevanza militare (e politica) contro gli Stati Uniti in modo tale che l’opinione pubblica americana (e quella dei suoi rappresentanti al Congresso) passasse da una larga maggioranza anti-interventista, rispetto alla guerra che si stava combattendo in Europa, ad una opinione maggioritaria interventista (5). Franklin Delano Roosevelt infatti aveva capito che il popolo da lui governato non si accontentava dell’indignazione contro Hitler per il proditorio attacco alla Polonia e di quella destata dal comportamento aggressivo dei giapponesi in Cina e negli altri Paesi asiatici, per accettare l’ingresso in guerra degli Stati Uniti a fianco d’Inghilterra e Francia contro le potenze dell’Asse, ma che solo lo shock di un attacco diretto al proprio Paese avrebbe modificato decisamente l’atteggiamento degli americani verso la guerra. Roosevelt riteneva infatti che un’eventuale vittoria delle potenze dell’Asse in Europa (Germania ed Italia) ed in Asia (Giappone) (6), che nella situazione di allora pareva tutt’altro che improbabile, avrebbe condotto successivamente ed inevitabilmente ad una guerra fra queste ultime e gli Stati Uniti d'America, i quali in quel momento si sarebbero trovati in forti condizioni d’inferiorità militare. A Roosevelt non sfuggivano inoltre i pericoli derivanti dall’ambiguo atteggiamento della Spagna di Francisco Franco, la cui neutralità si sarebbe presumibilmente mutata in alleanza con l’Asse in caso di vittoria di quest’ultima sull’Inghilterra, e le simpatie di cui godeva la Germania di Hitler in ampi strati della popolazione sudamericana.

Test Nucleari: giocare col plutonio dal testo di Paolo Cortesi (7)

Per quanto riguarda le armi nucleari le menzogne si sono sprecate, anche se in questo caso in tutto il mondo la gente non le ha credute. Tra il 1945 ed il 1993, le cinque potenze nucleari dichiarate (USA, URSS, Gran Bretagna, Francia e Cina - di solito viene omessa Israele che da molti anni è una potenza nucleare) fecero esplodere 2.031 testate sperimentali. I test avvennero in cima a torri, su chiatte, sospesi a palloni aerostatici, sganciati da aerei, lanciati da razzi fino alla quota di 480 chilometri d’altezza; sott’acqua a 60 metri di profondità; in pozzi e sotto terra, fino a più di 240 metri sotto il suolo. Circa il 25% dei test fu realizzato nell’atmosfera. I 511 test atmosferici raggiunsero una potenza totale di 438 megatoni, pari a 29.000 bombe come quelle di Hiroshima. Più di metà del valore complessivo dei megatoni fu concentrato in un periodo di sedici mesi, da settembre 1961 al dicembre 1962. In totale, gli americani seguirono (1954/1993) 215 test nell’atmosfera e 812 sottoterra; i russi rispettivamente 207 e 508; la Gran Bretagna 21 e 24; la Francia 45 e 147 (tra cui quelli nell’oceano); la Cina 23 e 16. Alla fine del 1958, gli esperimenti nucleari avevano prodotto sul pianeta circa 65 chili di stronzio 90, con una radioattività totale di 8,5 milioni di curie; la radioattività del cesio 137 alla stessa epoca ammontava a 15 milioni di curie. Il fall out degli esperimenti, tutti senza eccezione, in località nei pressi dell’equatore si sono distribuiti uniformemente sopra l’intero globo. Tra il 1952 ed il 1957, gli USA eseguirono 90 test nel poligono nucleare del deserto del Nevada. Quelle esplosioni rilasciarono una quantità di iodio 131 superiore di dieci volte a quella che si sprigionò dalla centrale di Cernobyl. Gli stessi test esposero mediamente ogni cittadino statunitense ad una radiazione pari a 2 rad; sono solo 0,24 rad annuali quelli provenienti dalla radioattività naturale. Alcuni medici hanno calcolato che circa 10.000 tumori alla tiroide saranno causati da questa pioggia contaminante invisibile. Le esplosioni nucleari diffondono nell’aria atomi di plutonio 239 ed uranio 235, due materie che sono la cosa terrena più vicina alla dannazione eterna. Il plutonio è centomila volte più velenoso del cianuro di potassio, un solo grammo disperso nell’ambiente spegne ogni forma di vita in un’area di 500 metri quadri; un milionesimo di grammo uccide un uomo. I periodi di dimezzamento del plutonio 239 e dell’uranio 235 sono rispettivamente di 24.400 anni e 720 milioni di anni: il più breve di questi tempi supera ab-bondantemente tutta la durata della civiltà umana, dalle sue origini remote ad oggi.

Due premi Nobel a confronto: Müller vs. Teller

In questo desolante panorama di demenza si levano ogni tanto voci, purtroppo isolate, che denunciano chiaramente tutta la micidiale pericolosità di esperimenti i quali in realtà non sono altro che simulacri di quella guerra che le superpotenze non potranno mai combattere senza sterminarsi a vicenda. Hermann Müller, premio Nobel 1946 per la medicina, ha reso noti i gravissimi danni genetici causati dalle radiazioni provenienti dalle esplosioni sperimentali. Per questa sua critica, il professor Müller ha dovuto affrontare la censura ed il sabotaggio da parte della Commissione per l’Energia Atomica (AEC), che gli vietò di presentare la sua relazione alla Conferenza di Ginevra per la pace (1955). Questi ostacoli però non gli hanno impedito di far conoscere al pubblico la verità sui test nucleari: «Qualsiasi dose di radiazioni è geneticamente indesiderabile - scriveva Müller in quegli anni - Gli esperimenti atomici in corso provocheranno certamente un danno alle generazioni future. Non solo: ogni radiazione assorbita aumenta le probabilità di un individuo di morire in anticipo sul termine assegnategli dalla Natura. In questo senso si può affermare che le esplosioni sperimentali hanno danneggiato sinora almeno trecentomila persone. La percentuale, se riferita a tutta la popolazione mondiale, è piccola, ma la cifra è enorme. Quanto al danno genetico, non è necessario pensare a mostri con due teste: è certo, però, che nei prossimi duemila anni nasceranno in-dividui più deboli, meno longevi, affetti da deformità più o meno accentuate, da malattie in parte nuove. Riprendere gli esperimenti nucleari è equivalso a sparare a raffica alle generazioni future».

Queste coraggiose ed oneste dichiarazioni venivano rilasciate nel periodo in cui il Servizio di Sanità Pubblica degli USA garantiva che il fall out era «nei limiti della sicurezza» ed Edward Teller amava ripetere che la ricaduta di pulviscolo radioattivo esponeva allo stesso danno biologico causato da una sigaretta fumata ogni due mesi. Nel 1963, l’incalzante aumento della radioattività costrinse le potenze nucleari al trattato Limited Test Ban (LTBT) che proibiva le esplosioni sperimentali nell’atmosfera, negli oceani e nello spazio cosmico, limitandole al sottosuolo, per ridurre il danno planetario del fall out di scorie radioattive. …Il LTBT fece scatenare una serie apocalittica di esplosioni sotterranee sempre più potenti e sempre più numerose. Fino al 1983, i test nucleari seguirono il ritmo forsennato di uno alla settimana. Nel solo 1968, gli USA eseguirono ben 55 esplosioni sotterranee, i russi 18.

Delirio tecnocratico

Si tratta di storia recente, è solo l’altro ieri, eppure pochissimi sembrano ricordarsene, come se l’immaginario collettivo volesse rimuovere un terrore troppo opprimente. La storia dell’umanità ha conosciuto ombre e orrori agghiaccianti, ma la storia dei test nucleari non ha neppure la cupa grandezza di un titanismo diabolico, ma piuttosto è una lunga parentesi di imbecillità generale, di cretineria feroce, qualcosa di paragonabile alla crudeltà laboriosa di un pazzo assassino. Gli scienziati giocavano alle divinità, si sentivano onnipotenti e fremevano d’orgoglio contemplando le colossali bolle di fuoco nei cui vortici, a dieci milioni di gradi, si plasmava la materia come nel caos primigenio. A spese dell’intero genere umano, su cui piovevano tonnellate di scorie radioattive, i tecnocrati potevano far scoppiare a dozzine le loro bombe, disponendo di finanziamenti statali enormi. Alla fine del 1955, gli USA investivano 12.000 milioni di dollari nell’industria atomica, che impegnava 130.000 tecnici ed aveva 10 stabilimenti per la produzione di uranio arricchito13. Per tentare di dare una parvenza di umanità a questo abisso di follia, fu diffusa e imposta tramite una propaganda martellante la vergognosa menzogna dell’atomo di pace. Si diceva che l’energia nucleare sarebbe stato un potentissimo alleato dell’uomo, uno strumento benefico di straordinaria efficacia per domare la natura e migliorare la vita. L’uso militare – si diceva - era solo un aspetto dolorosamente necessario, tragicamente inevitabile (ma perché?) di quella che era «una meravigliosa risorsa costituente patrimonio comune dell’umanità»; «una vera e propria rivoluzione scientifica e industriale, non meno profonda di quella che si determinò nell’Ottocento, forse capace di liberare l’uomo dal bisogno».

«Oltre che per la produzione di forza motrice in quantità sufficiente per tutte le esigenze e ad un costo irrisorio, l’utilizzazione dell’energia atomica si dimostra ancora più promettente per fugare lo spettro della fame». Ciascuna delle affermazione precedenti racchiuse tra virgolette è falsa. E nessuna delle previsioni citate si è avverata. Questa visione pacifica, persino idilliaca, dell’energia atomica è irreale, lo è sempre stata e gli addetti ai lavori lo hanno sempre saputo, anche se il solo supporto era un’eresia, l’affronto al dogma della bontà sublime della scienza tecnocratica. Troppi interessi legavano fin dagli inizi delle ricerche atomiche gli scienziati al potere. Di solito, la costruzione della prima bomba atomica è presentata come la conseguenza di un uso perverso della scienza. E’ ormai popolare la leggenda di una amara rassegnazione degli scienziati del Progetto Manhattan alle tragiche ragioni belliche: per mettere fine alla guerra, fu inevitabile usare la bomba A. Un necessario fine giustificò un terribile mezzo. Tutto ciò è falso: la bomba atomica fu entusiasticamente, caparbiamente voluta dai fisici atomici. Nel bei mezzo della discussione se impiegare o no un ordigno che, in un attimo, avrebbe spazzato via migliaia di persone, quel brav’uomo mite e sorridente di Enrico Fermi sbottò infastidito: «Lasciatemi in pace coi vostri rimorsi di coscienza! E’ una fisica così bella!».

Test atomici e terremoti

II 23 settembre 1969, la Cina fece esplodere una bomba termonucleare sotterranea in un poligono nella parte occidentale del Paese. Il 28 settembre, un terremoto colpì lo stato di Vittoria,nell’Australia sud-orientale. Le scosse furono accompagnate da una serie di boati e da apparizioni di luci verdi nel cielo. Il 28 e 30 maggio 1970 vi furono test nucleari, ed il 31 maggio la città di Chimbote fu devastata da un terremoto che uccise 60.000 persone. Il 27 luglio 1976, gli USA fecero esplodere una carica da 20-150 chilotoni nel sottosuolo del Nevada. Il giorno seguente, la città di Tang-shan (Cina) e 800.000 persone furono distrutte da un sisma che fu valutato di magnitudine 8,2 nella scala Richter. Il 13 e 15 settembre avvennero test nucleari sotterranei, il 16 settembre un terremoto (7,7 Richter) rase al suolo la città iraniana di Tabas, con 25.000 morti. Il 5 novembre 1988 la Francia realizzò nelle acque dell’atollo di Mururoa un’esplosione nucleare di 50 chilotoni. Il giorno successivo, un violento terremoto (7,6 Richter) sconvolse la provincia cinese dello Yunnan, facendo circa 600 vittime. Il 24 novembre dello stesso anno, la Francia eseguì un’identica esplosione. Un terremoto (6 Richter) colpì il Canada e gli Stati Uniti del Nord-Est il giorno seguente; mentre il 26 novembre ancora una volta una provincia cinese, Qin-ghai, fu scossa da un sisma. E ancora: il 4 dicembre 1988, l’URSS fece detonare una bomba nucleare di potenza stimata fra i 20 ed i 150 chilotoni in una base del circolo polare artico. Il 7 dicembre, l’Armenia fu squassata da un terremoto (6,9 Richter) che uccise 60.000 persone e lasciò mezzo milione di senzatetto. Il 22 gennaio 1989, una esplosione sperimentale (20-150 chilotoni) fu effettuata nel Kazakistan nordorientale; il giorno successivo il terremoto nel Tajikistan sovietico fece più di 200 morti. Il 23 giugno 1992, gli americani fecero scoppiare l’ennesima bomba nucleare sotterranea; il 28 giugno, due terremoti di insolita violenza (7,4 e 6,5 Richter) colpirono il sud della California.

Curiose coincidenze?

Per molti sismologi la risposta è sicuramente sì. Riley Geary, del Caltech, dichiara che i dati non rivelano un legame tra esplosioni e sismi, e per Robert-Carmichael, geologo della lowa University, l’ipotesi di un nesso causale tra bombe sotterranee e terremoti, è «una frode scientifica, paragonabile alla magia o all’astrologia». Eppure altri dati, del tutto scientifici, indicano che questo legame è molto più che una fantasia o una superstizione. Il professor Gary T. Whiteford, docente di geografia all’Università di Brunswick in Canada, ha scoperto che i terremoti con magnitudine da 6 a 6,5 Richter sono più che raddoppiati da quando hanno avuto inizio i test nucleari sotterranei. Infatti, tali sismi furono 1.164 fra il 1900 ed il 1949; sono saliti a 2.844 tra il 1950 ed il 1988. Un significativo aumento è registrato anche per i sommovimenti tellurici di magnitudine compresa tra 6,5 e 7 Richter: furono 1.110 nel periodo 1900-1949; se ne contarono 1.465 tra il 1950 ed il 1988. Tali incrementi si sono verificati in tutte le zone particolarmente sismiche del globo.

In una visione globale si può rilevare che, nei primi cinquanta anni del XX secolo, sono stati registrati 3,419 terremoti di magnitudine uguale o superiore a 6 Richter, con una media di 68
all’anno. Dal 1950 al 1989, i terremoti in questione sono stati 4.963, con una media di 127 all’anno: il valore è quasi raddoppiato. Il professor Whiteford ha compiuto inquietanti scoperte a proposito dei cosiddetti «terremoti assassini» (killer quakes), cioè sismi che provocano almeno 1.000 vittime. «Nel corso di 37 anni di sperimentazione nucleare, venti dei trentadue terremoti assassini, ovvero il 62,5%, avvennero lo stesso giorno o entro quattro giorni dal test». Dati allarmanti provengono anche da uno studio di due scienziati giapponesi, Shigeyoshi Matsumae e Yoshio Kato, della Tokai University di Tokio: «Fenomeni anomali meteorologici, terremoti e la variazione dell’asse terrestre sono notevolmente correlati ai test atmosferici e sotterranei. Essi hanno causato un aumento della temperatura dell’esosfera terrestre da 100 a 150 gradi, che cresce in modo abnorme immediatamente dopo un test nucleare. Ad esempio, è stato scoperto che la temperatura assoluta salì da 70 ad 80 gradi dopo un test sovietico che fu rilevato dalla stazione d’osservazione da Uppsala, il 23 agosto 1975. Similmente, un continuo e drastico rialzo della temperatura fu osservato in occasione di una fitta serie di sei esplosioni sperimentali avvenute tra il 18 ed il 29 ottobre 1975».

E concludono: «La temperatura dell’atmosfera è cambiata dai test nucleari, un cambiamento che neppure il sole potrebbe produrre. Si può facilmente immaginare quali effetti abbia tutto ciò sulle condizioni meteorologiche della terra».

Ovviamente, il potere negò sempre che le esplosioni atmosferiche potessero avere simili conseguenze: «Due scienziati dell’Ufficio Meteorologico di Washington hanno portato a termine una loro inchiesta sugli effetti delle esplosioni delle bombe A sull’evoluzione nel tempo. Essi escludono che le particelle radioattive liberate dall’esplosione possano comportarsi, nella libera atmosfera, come nuclei di condensazione, e quindi non si può avere un aumento della piovosità. Essi non ammettono minimamente che i residui delle esplosioni proiettati nell’alta atmosfera possano portare ad una diminuzione d’intensità nella radiazione solare e tanto meno che gli scoppi possano influenzare dinamicamente l’oceano d’aria».

E’ fin troppo facile supporre che il potere negherebbe ogni credibilità ad altre gravissime conclusioni cui giunge lo studio di Matsumae e Kato. Tipo: «Le esplosioni nucleari spostano l’asse di rotazione terrestre».

I due ricercatori nipponici notano infatti che test nucleari di almeno 150 chilotoni fanno slittare sensibilmente la posizione dell’asse polare. Questo spostamento provoca una variazione nella durata della rotazione del nostro pianeta, che è nell’ordine del centesimo di secondo, ma rivela come l’intervento umano possa interferire con realtà vecchie di milioni di anni e di dimensione planetaria.

Le osservazioni scientifiche di ricercatori indipendenti dimostrano chiaramente che le esplosioni nucleari sperimentali hanno causato danni rilevanti all’equilibrio della struttura stessa del nostro pianeta. Diversi scienziati, tuttavia, lo escludono, soprattutto per il motivo che le energie sviluppate dagli scoppi termonucleari sarebbero troppo esigue e troppo brevi. Eppure i fatti sono ben evidenti.

Come si può negare un legame causale quando, anche all’analisi statistica, esso è più che verosimile? Come interpretare questa miopia scientifica?

Prima di tutto, occorre non tenere in alcun conto le opinioni di chi ha interesse a negare i pericoli nucleari. Non si può prestare nessuna fiducia, ad esempio, a quei due scienziati dell’Ufficio Meteorologico di Washington citati poc’anzi, perché essi lavoravano per lo stesso governo che voleva a tutti i costi i test nucleari. Essi non esponevano un parere motivato da ricerche scientifiche libere, ma servivano a tranquillizzare l’opinione pubblica.

L’ubriacatura atomica, lo stronzio 90 e la biotecnologia


Solo oggi, a distanza di quasi mezzo secolo, possiamo accedere ad una quantità di documenti prima top-secret che mostravano tutta la allucinante pericolosità dei cosiddetti esperimenti. Ma come spiegare le teorie rassicuranti di scienziati non governativi? Credo che in questi casi si debba tener presente la formazione accademica di questi studiosi. La loro cultura è sempre stata tecnocratica. Essi sono stati educati nella fede ad alcuni assiomi tecnocratici: la scienza e la tecnologia sono benefiche, la ricerca scientifica giustifica e deve ammettere ogni esperimento, la santa causa del progresso assolve ogni peccato e merita ogni sacrificio. Per questi «tecnocrati in buona fede», gli allarmi degli scienziati ambientalisti sono una snobistica forma di oscurantismo, che esagera, demonizza, fraintende, enfatizza, sparge sfiducia e discredito. Gli scienziati tecnocrati non hanno categorie mentali capaci di considerare, ad esempio, la sottomissione alla grandezza del pianeta di cui sono ospiti. Per costoro, le astrazioni teoriche del calcolo sono altrettanti lasciapassare per le avventure più rischiose, per le decisioni più arbitrarie: accadde cinquantanni fa con lubriacatura atomica; sta accadendo oggi con il nuovo gingillo tecnocratico, la biotecnologia. Gli scienziati di Los Alamos che giocavano con le bombe atomiche negli anni Quaranta avevano ideato una simpatica espressione per definire il loro lavoro: stuzzicare la coda del dragone. Essi erano consapevoli del mostruoso potere distruttivo che manipolavano, eppure tutto questo non li atterriva; anzi ci scherzavano sopra, sicuri che la loro scienza avrebbe tenuto a bada ogni dragone.

I risultati di questa superbia idiota sono gli orrori nucleari con cui tutti devono convivere da decenni e per chissà quanto tempo ancora. I tecnocrati non sanno vedere al di là delle loro teorie; non possono capire nulla che non sia compreso nei loro libri. Come possono escludere certe conseguenze di certi esperimenti, se in tutta la storia della terra non è mai successo quello che essi vogliono fare? Come potevano garantire che lo stronzio 90, distribuito su tutto il pianeta dalle esplosioni nucleari, «non poteva destare preoccupazioni», se lo stronzio 90 non esisteva sulla terra prima dei test. Se io mi portassi a casa un animale sconosciuto, e aspettassi immobile di vedere se è mansueto o feroce, sarei saggio o imbecille? Se mangiassi un fungo sconosciuto e aspettassi tranquillo di morire avve-lenato o sopravvivere, sarei saggio o cretino? Questo è stato, per decenni, il modulo di pensiero degli scienziati tecnocrati. E c’è il serio timore che si continui così; anche per la biotecnologia.

L’11 settembre, una perfetta demolizione, con opportuna scenografia, fatta, passare per un attentato

L’evento più ricco di dietrologia sarebbe il grande attentato dell’11 settembre. Qui la presenza di internet ha reso possibile una imponente contro-informazione che ha reso di pubblico dominio documenti ufficiali usciti da organi governativi, documenti che presentano non poche contraddizioni con la versione ufficiale degli avvenimenti.

Chi abbia seguito anche solo fuggevolmente le versioni «alternative» a quella ufficiale, sui fatti dell’11 settembre 2001, sa già chi siano gli «israeliani danzanti», ossia quello sconce figure che, contemplando a distanza il crollo delle Twin Towers, ballavano di gioia, come se avessero ottenuto un successo lungamente agognato. Sa che essi si erano fermati, con il loro furgone, prima dell’arrivo dei due aerei dirottati che si sarebbero schiantati contro i grattacieli. Sa anche come essi vennero rapidamente identificati e arrestati dalle autorità di polizia e come, altrettanto rapidamente - e inspiegabilmente - vennero liberati ed espulsi dagli Stati Uniti, mentre ogni responsabilità dell’attentato ricadeva, attraverso i media, su Bin Laden ed Al-Qaida. Del resto, non era stato lo stesso «sceicco del terrore» ad assumersi la paternità dell’attacco alle Torri Gemelle e alla sede del Pentagono, compiacendosi per il buon esito dell’operazione e per l’alto tributo di vite umane che gli «infedeli» avevano dovuto pagare alla loro stessa politica anti-islamica e filo-sionista?

Tutto chiaro, dunque.

E’ vero, c’era la circostanza - assai imbarazzante - che il presidente George W. Bush, che in quel momento era in visita a una scuola, aveva creato il sospetto di essere informato dei fatti prima che accadessero, e che si era detto sconvolto per aver visto in televisione lo spettacolo del crollo delle Due Torri, quando ancora le televisioni americane non avevano mandato in onda quelle immagini. Ma anche per questo, si disse, c’è una spiegazione, e molto semplice: il presidente non si riferiva alla televisione pubblica, ma a un filmato che gli era stato proiettato in privato, in anteprima, in una televisione a circuito chiuso (ma la televisione pubblica non trasmetteva in diretta?).

C’è, tuttavia, ancora un altro particolare che non quadra, e che è sotto gli occhi di tutti: il modo in cui sono crollati i due immensi grattacieli del World Trade Center. Un crollo perfettamente verticale che si può ottenere solo con un sistema di cariche esplosive perfettamente sincronizzate. Un modo che non ha nulla a che fare con l’impatto di un aereo, per quanto di grosse dimensioni. Molti esperti, in realtà, dubitano che un aereo avrebbe potuto far crollare degli edifici di quelle dimensioni: li avrebbe semplicemente attraversati e, in ogni caso, urtandoli a quell’altezza, non sarebbe stato in grado di far rovinare l’intera costruzione, dal primo all’ultimo piano. La struttura delle due Torri era stata progettata per resistere all’impatto con un aereo di linea. Una protezione esterna composta da una cortina di pilastri d’acciaio, mentre la struttura portante era all’interno ben protetta da una spessa imbottitura d’amianto.

Si deve anche osservare che le cariche principali per la demolizioni si sarebbero dovute piazzare all’interno dei due grattacieli e quindi il loro scoppio non sarebbe stato visibile all’esterno. L’ente governativo NIST, incaricato di svolgere un’indagine tecnica sul crollo, ha pubblicato una perfetta simulazione numerica dell’impatto dei due aerei, che non avrebbero intaccato la struttura portante centrale degli edifici. Ma non ha pubblicato una simulazione del crollo dei tre grattacieli. Chi ha fatto le simulazioni afferma che i grattacieli del WTC non sarebbero crollati neppure con il calore sviluppato da un quantitativo dieci volte superiore di carburante.

La conferma che i crolli non si sono verificati per gli incendi si era già avuta, del resto, nel corso di «normali» incidenti aerei: mai si era visto qualcosa di simile a quanto avvenne l’11 settembre 2001, ossia un crollo verticale, perfetto e totale. Un edificio delle dimensioni delle Torri Gemelle, se crolla a causa di un impatto dall’esterno o di un incendio da questultimo provocato, non implode verticalmente e non si sbriciola in modo «pulito», ma semina rovine su un ampio raggio circostante.

Il minimo che si possa sospettare è che all’opinione pubblica sia stata tenuta nascosta una bella fetta della verità. Perché? Forse perché l’Amministrazione Bush aveva bisogno di un casus belli per scatenare la sua politica di forza a livello planetario, creando attorno a sé un clima di legittimazione morale e di avallo alla «legittima difesa»? Questa è una vecchia costante della politica estera americana.

Nel 1898, quando scoppiò la guerra con la Spagna, fu l’esplosione della corazzata Maine nel porto de L’Avana che - complice una formidabile campagna stampa del gruppo Hearst - portò
l’interventismo e il nazionalismo statunitensi a livelli di autentico isterismo. Nel 1917 fu la faccenda del Lusitania, affondato da un sommergibile tedesco; nel 1941, l’attacco proditorio dei Giapponesi a Pearl Harbour. Peccato che, in entrambi i casi, gli americani fossero preventivamente a conoscenza di quanto sarebbe accaduto: sia che il Lusitania sarebbe stato attaccato (la voce fu fatta circolare, pubblicando un annuncio a pagamento su giornali americani, dallo stesso ambasciatore tedesco a New York, proprio per dissuadere i cittadini statunitensi dall’imbarcarvisi), sia che le forze aeronavali nipponiche avrebbero sferrato il colpo sulla base della flotta americana nelle Isole Hawaii.

E si potrebbe continuare: con l’incidente navale nel Golfo del Tonchino, ad esempio, durante la guerra del Vietnam; con l’oscura vicenda delle mine galleggianti nel Golfo Persico, al tempo della guerra fra Iran e Iraq; con le fantomatiche ed inesistenti «armi di distruzione di massa» di Saddam Hussein… Se, dunque, la risposta al «perché» non è poi tanto difficile da trovare, quella alla domanda: «per coprire le responsabilità di chi» appare molto più difficile, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze. Che, nei fatti dell’11 settembre 2001, vi sia un coinvolgimento dei servizi segreti americani, appare decisamente probabile. Impossibile spiegare, diversamente, la relativa facilità con cui un gruppo di terroristi stranieri ha potuto agire nel cuore degli Stati Uniti, durante mesi di preparazione, fino a colpire lo stesso Pentagono. Che vi siano coinvolti anche altri servizi segreti, ufficialmente «amici» e «alleati», a cominciare dal Mossad - come, del resto, in alcuni casi eclatanti del terrorismo che ha sconvolto l’Italia durante gli «anni di piombo», quando la politica estera della Farnesina era dichiaratamente filo-araba e filo-palestinese -, questo non è possibile dirlo con certezza, almeno attualmente. Però è possibile e, forse, addirittura probabile. L’11 settembre del 2001… un giorno che avrebbe cambiato molte cose, sulla scena della politica internazionale.

Ecco perché la gente oggi ha tanto interesse nei complotti. La storia ufficiale ha troppe contraddizioni ed è poco credibile. L’attuale storia incredibile è dettata dagli Stati Uniti, che a partire dalla guerra di secessione, sono governati dalle lobby, obbligate a mascherare il più possibile le loro azioni, a volte ripugnanti, azioni che la pubblica opinione non sarebbe disposta ad accettare. Il governo ufficiale è chiamato administration, una amministrazione al servizio di chi esercita il vero potere. Così in tutto il mondo sono sempre meno coloro che credono alla versione ufficiale dei fatti come vengono presentati dalla vulgata statunitense.

Si possono trovare ragioni diverse per l’atteggiamento medio degli statunitensi. Gli americani per tradizione covano un desiderio nascosto di rivincita contro chi un giorno ha costretto loro, o un loro antenato, ad emigrare. Nell’America latina le cose sono un po’ diverse perché la religione cattolica favorisce il perdono e la creazione di un legame molto stretto con i nuovi luoghi con la nascita di santuari e luoghi di culto. Credere nella trascendenza favorisce la conservazione di un legame spirituale con le persone rimaste nei luoghi d’origine. Per gli anglosassoni il desiderio di rivincita è legato al loro attaccamento al denaro ed al potere. Gli anglosassoni hanno una credenza «religiosa» molto vicina al denaro. Per essi il successo materiale è il segno inequivocabile della benevolenza di Dio. Il desiderio di rivincita o di rivalsa non si è attenuato con l’aver costruito una nuova patria come invece è avvenuto per chi è emigrato nell’America latina. L’influenza dell’ebraismo, con la sua carica di odio e di rivincita millenaria, si è sommata alla volontà di potere della parte anglosassone prevalente negli Stati Uniti. Questa è la realtà delle motivazioni che sono alla base della psicologia degli statunitensi. Per conseguire la loro vendetta hanno scelto di mascherare i loro veri desideri. Questo li ha portati a darsi una falsa identità, che si è propagata a tutti gli aspetti della vita sociale e politica. Essi debbono disporre di un alto patrimonio etico per poter affrontare con malcelato disprezzo e senso di superiorità gli altri popoli. Quindi per procurarsi questo indispensabile patrimonio etico hanno scelto di costruirsi un castello di falsità che non possono mettere in discussione perché crollerebbe la loro immagine e la stima che hanno di se stessi.

Per ridurre il rischio di essere sottoposti a verifiche gli Stati Uniti, dove possono, hanno favorito la creazione di una umanità fatta di diseredati, senza identità e senza memoria storica, perseguitati proprio dalle loro maledette organizzazioni caritatevoli. La distruzione della memoria e delle tradizioni è un caposaldo della loro politica nel mondo, incluse le stesse popolazioni degli Stati Uniti.

Il retaggio vichingo

Ma a questo si deve aggiungere un antico retaggio, una tradizione radicata nel DNA di molti anglosassoni: la loro anima vichinga. L’8 giugno del 793 i monaci dell’isola di Lindisfarne (8), presso la costa del Northumberland, vennero assaliti torturati e uccisi quasi tutti da un gruppo di vichinghi arrivati dal mare. A Lindisfarne nel 635 i monaci di Jona, dall’isola di san Colombano, avevano fondato un’abbazia. Dopo un secolo Lindisfarne era diventato il centro della cultura monacale celtica, luogo di fede, arte e dottrina, famoso per la scuola degli amanuensi, di cui siconserva un Evangelario del 700, una delle più belle opere di scrittura del primo medioevo. Stava nascendo il mondo creato dal cristianesimo, si stava realizzando un modello di vita basato sulle promesse della nuova religione. Da qualche secolo le legioni romani si erano ritirate ed al loro posto sembrava nascere una nuova civiltà, un nuovo modo di produrre, un nuovo modo vivere in comunione con Dio. Una stele porta scolpita la tragedia di Lindisfarne. Su un lato sono rappresentati i monaci nelle loro attività operose e pacifiche, sul retro la scena della strage. Tanta crudeltà poteva apparire immotivata. I monaci non avrebbero opposto resistenza al furto di tutti i loro beni, inclusi i tesori della chiesa. Invece i vichinghi distrussero tutto, compresa la biblioteca, sgozzarono le bestie che non potevano portar via. Sarebbero passati molti anni prima di poter compiere un’altra rapina.

In realtà i vichinghi volevano spargere il terrore, che avrebbe paralizzato le loro vittime dissuadendole dall’opporre qualsiasi resistenza. Con ciò veniva distrutta la speranza di creare un mondo senza la forza. Era l’inizio del confronto tra l’utopia cristiana, un socialismo cristiano pacifico, e la rapina con la violenza e la morte. I vichinghi erano spinti dall’individualismo, dalla sete di potere e di morte. La conversione alla religione cristiana era stato l’elemento vincente della politica verso i barbari. Ma con i vichinghi sarà più difficile. Nell’estate del 911, Rollone (detto anche Hrolf o Rolf) che si era installato nella regione attorno a Rouen, subisce una dura sconfitta dall’esercito di Carlo il Semplice. Il re di Francia avanza la proposta di una accordo che contempla la conversione al cristianesimo di Rollone. L’anno dopo Rollone mantenne la promessa e si fece cristiano. Per ospitare stabilmente i vichinghi venne fondato il ducato di Normandia, attuando una politica che era stata adottata per molti secoli dall’impero romano. Ma il carattere distintivo della civiltà vichinga fu la sua propensione a mentire per modificare la realtà storica a proprio vantaggio. Per quasi due secoli mantenne una ostilità radicale contro il cristianesimo, che nell’alto medioevo cercava di realizzare comunità di credenti in cui esisteva una specie di comunismo dei beni.

La civiltà vichinga fu quindi anche una forza politica contro la nascente società cristiana. Esaltò l’ideologia della rapina (che ritroveremo puntualmente con Francis Drake, sostenuto dalla regina d’Inghilterra). La rapina era corredata da stermini di massa, che venivano assunti come un rituale sacro di una religione infernale. Di loro abbiamo le cronache dei contemporanei piene dell’orrore dei loro misfatti, abbiamo notizie che ci vengono dall’archeologia, ma dalle loro notizie dirette, contenute nelle loro saghe, non c’è niente di storicamente attendibile, ci sono solo fantasie spesso tragiche che nulla hanno in comune con la realtà storica. In opposizione al culto del lavoro e della preghiera essi praticavano il culto della violenza fine a se stessa e la fede in una realtà radicalmente terrena e materialistica. Gli aspetti più scoperti ed intollerabili del loro carattere si attenuarono quando avvenne la fusione con le popolazioni che mantenevano il ricordo della civiltà romana. Così avvenne in Inghilterra, in Normandia, in Danimarca, più tardi in Svezia e in Norvegia. Ma la loro azione scoraggiò la rinascita di quella civiltà cristiana che era fiorita nel nord sino al secolo VIII. Si formarono invece gli ordini religiosi militari, che determinarono la nascita di un cristianesimo «armato», che sfocerà poi nelle crociate.

E’ interessante vedere la natura degli schieramenti politici, soprattutto in Francia, davanti alla minaccia dei vichinghi poiché si tratta di situazioni che si ripeteranno poi sino ai nostri giorni. Molti contadini cacciati dalle loro terre si strinsero in leghe paramilitari, tentando a volte con successo, di eliminare con i propri mezzi le bande vichinghe, che contavano più sulla fama e sul terrore delle loro efferatezze che non su una reale forza militare. Ma i contadini ebbero ben presto un avversario nel loro stesso paese: la nobiltà franca, la quale cominciava a temere questi eserciti di contadini, vedendo in essi una ragione di più per battersi dalla parte degli oppressori stranieri. Patteggiando coi vichinghi, essa combatteva non solo contro il potere regio, ma anche contro i piccoli coloni per il mantenimento dei suoi privilegi, facendo anche più del necessario per lasciar precipitare intere provincie nel disordine, nell’egoismo e nella desolazione. La chiesa eraparalizzata dalla scelta della non violenza dalla quale derivava anche una sorta di fabbrica di martiri. Era paralizzata anche dalla sua contiguità con la nobiltà. Tuttavia alla fine i martiri furono troppi.

Quando il 24 novembre 885 Sigrifido risalì la Senna con settecento navi e quarantamila uomini per espugnare Parigi per la seconda volta, i parigini, guidati dal vescovo Geuzlin e dal conte Oddone resistettero all’assedio. L’anno seguente l’esercito di Carlo il Grosso si attestò ai piedi di Montmartre ed ancora una volta invece di dare battaglia preferì trattare l’allontanamento della
minaccia su Parigi pagando un riscatto e concedendo ai vichinghi di sistemarsi nella Borgogna, ambitissima per la sua fertilità. Morto Carlo il Grosso nel 887, nel 891, presso Lovanio nell’odierno Brabante, Arnolfo di Carinzia circondò un contingente vichingo e lo sterminò facendolo annegare nel Dijle. Il «Grande esercito» vichingo dovette tornare in Inghilterra sconfitto anche dalle epidemie. La fama di invincibilità era distrutta e con essa era scomparsa l’arma principale dei vichinghi. Intanto anche la nobiltà francese aveva compreso che l’ambiguità verso gli invasori metteva in pericolo anche i suoi possedimenti ed il suo prestigio. La nascente cavalleria francese ebbe facile successo contro le residue bande di vichinghi. Tutte le difese vennero messe in funzione, restaurate le vecchie mura e costruite di nuove. I fiumi vennero costellati di ponti fortificati per ostacolare il passaggio delle navi vichinghe. Le campagne si riempirono di castelli fortificati, utili anche per le contese tra i feudatari.

Alla fine del IX secolo i vichinghi, per trovare qualche spiraglio per le loro scorrerie, potevano contare solo sulle crisi politiche e militari che colpivano la Francia, la Neustria, la Frisia, tutto il nord dell’Impero fondato da Carlo Magno. I vichinghi avevano molti dei caratteri ereditati poi dal capitalismo moderno: la fede nella tecnica, l’intraprendenza individualista, l’incapacità di fare architettura, assegnare al denaro il significato di un feticcio, quindi il denaro, l’argento e l’oro come valori in sé non come elementi di scambio (molti tesori accumulati con le rapine sono stati ritrovati intatti), la visione materialistica della vita, la necessità di avere schiavi ed infine la deformazione della realtà con la menzogna sistematica e quindi l’assenza di una storia.

Gli storici di oggi dimostrano una certa simpatia per i vichinghi e affermano che le cronache dell’epoca, scritte da religiosi o da letterati di corte, sarebbero troppo severe verso di loro, perché redatte sotto l’influenza delle efferatezze compiute da questi predoni del nord. In realtà oggi ammiriamo proprio il loro materialismo, la loro ostilità a tutti i valori del cristianesimo. La nostra era anticristiana vede in loro dei precursori. Anche le loro fandonie piacciono. Quando, durante la prima guerra contro l’Iraq, si incolpò Saddam di aver ordinato la distruzioni di alcuni depositi di greggio nel Dubai occupato, un fiume nero finì sulla spiaggia e in mare. Le televisioni per alcuni giorni diffusero la scena di una povera anatra che annaspava nel petrolio. Si seppe poi che la scena era stata costruita in certi studi cinematografici americani. Da parte statunitense si disse che la cosa era del tutto normale.

Come si è già detto, negli anni 1958 gli USA fecero esplodere la prima bomba atomica nell’alta atmosfera senza informare nessuno. Negli anni seguenti i ricercatori di tutto il mondo scoprirono nell’alta atmosfera particelle radioattive la cui origine era inspiegabile. Poi gli americani «confessarono» la loro bravata alla faccia della salute di tutto il genere umano. Prima
della loro confessione dire che gli americani avevano fatto esplodere una bomba atomica nell’alta atmosfera avrebbe attirato l’accusa di complottista. Ma adesso non se ne parla più, come dell’assassinio di Kennedy, santificato post mortem.

Professor Raffaele Giovannelli



1) Maurizio Blondet «L’altro 11 settembre», Effedieffe, 23 novembre 2006.
2) Paul J. Watson, «LBJ night before JFK assassination: Those SOB’s will never embarrass me again», PrisonPlanet, 30 agosto 2006.
3) Robert B. Sinnett, «Il giorno dell’inganno», Il Saggiatore.
4) Robert Sinnett, opera citata, pagina 26-27.
5) Un sondaggio di opinioni pubblicato a fine gennaio 1941 aveva rivelato che, mentre il 79% della popolazione statunitense riteneva errato venire a patti con Hitler, ben l’88% era contrario ad un intervento militare del proprio Paese nella guerra che dilaniava l’Europa. (Robert B. Stinnett, opera citata, pagina 52).
6) A settembre del 1940, cioè poco più di un anno prima dell’attacco a Pearl Harbor, il Giappone aveva stipulato con Germania ed Italia un patto di mutua alleanza, dando origine al cosiddettoRoBerTo (asse Roma-Berlino-Tokio).
7) Paolo Cortesi, «Test Nucleari: giocare col plutonio», http://www.minerva.unito.it/Chimica&Industria/MonitoraggioAmbientale/A2/TestNucleari.htm
8) Rudolf Pörtner, «L’epopea dei vichinghi», Garzanti, 1972 (titolo originale: Die Vikinger-Saga).


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