Bruxelles, strage. Lo specialista in azione
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Tranquillo, senza fretta, l’uomo si muove con passo elastico. Ha in testa un cappellino con visiera e un borsone a tracolla. Ne estrae un kalashnikov a calcio pieghevole, spara, uccide, poi se ne esce tranquillo, senza fretta, per via des Chandeliers e poi per rue Haute, dove lo perdono di vista.

«Corporatura media, atletica, si muove con scioltezza», ha sottolineato la polizia belga che ha distribuito i video di sorveglianza. Il passo e la calma del professionista militare addestrato, lo specialista in omicidi esperto, senza sbavature né agitazione perché cose come quella le ha già fatte più volte. Perfetto.





Quadruplice omicidio ad orologeria, secondo Galoppini. A Bruxelles capitale eurocratica nel giorno delle elezioni europee. Alla vigilia della prevedibile, ma tuttavia clamorosa affermazione del Front National in Francia, e in altri Paesi di «populisti», anti-euro, anti-UE e anti-sistema, nazionalisti, un po’ fascisti. Strage, ovviamente, «antisemita».





Di simili specialisti ne abbiamo visti da qualche tempo. Li abbiamo visti, in nero e passamontagna, a far fuoco con carabine di precisione a piazza Maidan a fine febbraio, tranquilli, uccidendo equanimi sia dei manifestanti sia dei poliziotti schierati contro i manifestanti. Come ha detto allora al telefono il ministro degli esteri estone Urmas Paets alla baronessa Ashton, «ministra degli esteri» UE, e c’è l’audio della telefonata: «erano gli stessi cecchini ad ammazzare gente di entrambe le parti...stessi proiettili...e ciò che turba è che la coalizione (anti-russa) non vuole si indaghi su cosa è realmente successo». Al che la Ashton risponde: «Well, yeah…that’s, that’s terrible.», e passa a parlar d’altro. Very british.

Nella primavera del 2011, li abbiamo visti in Siria, sparare con calma dai tetti di Damasco e di Homs contro la folla che manifestava in strada pacificamente: i media ci hanno detto che «Assad uccide il suo proprio popolo», ma Assad aveva appena promesso ampie riforme, perché mai avrebbe dovuto invelenire gli oppositori con quella provocazione?

Si chiama strategia della tensione. Quando avvengono attentati indecifrabili, indiscriminati o senza motivazione, fatti da professionisti militari, si tratta di strategia della tensione: una variante della destabilizzazione di Stato (estero magari, ma anche no), qualcosa che anche l’Italia ha conosciuto nei celebri «anni di piombo». A volte, Gladio. O «servizi deviati». Li chiamano in tanti modi.

Anche nell’attentato-strage di Mumbai, a fine novembre 2008, fra gli sparatori (ritenuti terroristi islamici) ce n’erano tre molto calmi: «Sono entrati nel caffè, hanno bevuto birra, pagato il conto e sono usciti. Poi hanno tirato fuori le armi dai loro borsoni ed hanno cominciato a sparare», ha raccontato il cameriere di quel bar alla stazione, Pappu Mishra. «La loro audacia toglieva il respiro. Uno di loro ha cambiato il caricatore della sua arma mentre l’altro continuava a sparare. Erano calmi e composti. Non avevano la minima fretta, non un briciolo di paura». Inoltre, «non sembravano indiani, erano bianchi, uno era biondo, l’altro aveva un taglio stile punk. Erano vestiti bene». Come non riconoscerli? Specialisti addestrati. Professionali, atletici, con borsoni e armi a calcio pieghevole.

A Mumbai alcuni sono stati presi, erano pakistani per nulla biondi. I veri professionisti – come a Bruxelles – vengono persi di vista appena svoltano l’angolo. Anche quello che uccise il primo ministro svedese Olof Palme il 28 febbraio 1986, mentre usciva da un cinema con la moglie, nel pieno centro di Stoccolma, non è mai stato trovato. Aveva un berretto con paraorecchi, giacca a vento, pantaloni scuri: due colpi alla schiena e via, scompare. Un evento tragicamente simile si produrrà l’11 settembre 2003, ancora a Stoccolma: un individuo accoltella la ministra degli esteri Annal Lindh, che muore poco dopo, in pieno centro; e si volatilizza. Settimane dopo verrà identificato come Mihailo Mihailovic, svedese di origine serba, che confesserà. Qui si entra forse in un’altra categoria, quella del «solitary assassin»: Oswald, Sirhan Sirhan, Ygal Amir (uccise Shimon Peres), l’anarchico Gianfranco Bertoli che fece strage con bomba a mano israeliana alla Questura di Milano, 17 maggio 1973...

Mohammed Merah
  Mohammed Merah
Ad alcuni amici, la strage di Bruxelles ha ricordato l’affaire Mohammed Merah. Accadde nel 2012, i Francia. Un individuo in scooter, con il casco, spara e uccide prima un parà francese a Toulouse, poi altri tre a Montauban (tutti nordafricani, fra l’altro), infine quattro studenti e insegnanti di una scuola ebraica. Una serie di omicidi a catena. Viene identificato come autore un Mohammed Merah, 23 anni: il personaggio non potrà essere mai interrogato perché una squadra speciale della polizia, RAID (sta per Recherche Assistance Intervention Dissuasion) lo crivella di colpi a casa sua: dicono, a cose fatte, che vi si era asserragliato con un arsenale.

Poi è saltato fuori che Merah era una vecchia conoscenza del DCRI (Direction Centrale du Réinsegnement Interieur, la loro Digos), che lo sorvegliava da anni tenendo conto dei suoi frequenti viaggi in Egitto, Pakistan, Afghanistan, assistendo alla sua progressiva «radicalizzazione jihadista».

Stranamente, gli agenti della DCRI che hanno sottovalutato la pericolosità di Merah, e quelli del RAID che non sono stati capaci di catturare Merah vivo, ma hanno dovuto ucciderlo – incompetenti plateali – sono stati decorati, dopo il fatto, con la Legion d’Onore. Stranamente, allievi della scuola ebraica hanno testimoniato che l’assassino aveva occhi verdi o azzurri. Assassino freddo, professionale: quando la .45 gli si inceppa, lui tira fuori una Glok 9 millimetri e spara in testa a una bambina di 8 anni a bruciapelo. Ecco di nuovo uno specialista.

Stranamente, la Colt 45 poi trovata a Merah (cadavere), «è caratterizzata da una modifica specifica per le forze di élite della polizia francese», si legge nei rapporti. E non si sa bene come Merah si sia procurato il giubbotto anti-proiettile della polizia, tanto tipico che lo chiamano «gendarmette», e «tagliato su misura della sua corporatura minuta». Si serviva dallo stesso sarto?

Strano. A suo tempo, Il Foglio (di Giuliano Ferrara, che ha qualche amico neocon e israeliano...) rivelò che Merah aveva viaggiato in Medio Oriente «sotto copertura creatagli dalla DGSE», dai servizi di spionaggio francesi, e che il Shin Beth (servizi interni) l’aveva arrestato anni prima a Gerusalemme in possesso di un coltello. Un’altra fonte neocon a noi ben nota, il SITE di Rita Katz, l’americana che scopre i siti islamisti, il 31 marzo 2012 – appena ammazzato Merah – «scoprì la rivendicazione» degli attentati antisemiti di Toulouse da parte di «un gruppo terrorista denominato Jund al-Khilafah: rivendicazione purtroppo subito ritirata dai medesimi fantomatici terroristi, sicché l’ha vista solo la Katz. Eccetera.

Perché sono 72 le stranezze riscontrate nel caso Merah, se avete pazienza potete sviscerarle qui.

Noi ci limitiamo a dire che anche Gilad Atzmon, il musicista e opinionista anglo e non più israeliano, ipotizzò che Merah fosse «stato addestrato da forze israeliane per condurre operazioni false-flag». Uccidere ebrei? Come no. Atzmon ci ha ricordato che il 14 gennaio 1951 un’antica sinagoga a Baghdad, la Shem Tov, fu aggredita dal lancio di una granata, uccidendo tre ebrei e ferendone un’altra trentina. A causa di questo attentato, gli ebrei iracheni – che abitavano l’Iraq da due millenni e mezzo e ai quali il dittatore Saddam non aveva mai torto un capello – scapparono a cercar rifugio in Israele. Risultò poi che era esattamente il risultato che i servizi israeliani volevano raggiungere con la bomba.

E a Buenos Aires, nel 1994, un’immane esplosione fece saltare l’importante centro ebraico AMIA: 85 morti. Un’atrocità messa sul conto del regime di Teheran e di Hezbollah. Oggi si ritiene che sia stata opera del Mossad. Specialisti insuperabili.

Ma no naturalmente, è chiaro a Bruxelles, come a Toulouse, «il movente antisemita». In Belgio, pochi giorni prima, l’intellettuale francese Alain Soral e il comico Dieudonné (quello del gesto dell’ombrello al piccolo popolo) volevano tenere una conferenza. Non ci soni riusciti, le autorità gliel’hanno vietata. Ma Joel Rubinfeld, il capo della Lega Belga contro l’Antisemitismo, ha attribuito a loro la responsabilità della strage: «Doveva succedere. Assistiamo da anni ad una liberazione del discorso antisemita: Diuedonné, Laurent Louis, Alain Soral... la fucileria di sabato è il risultato inevitabile di un clima che distilla l’odio».

Un altro specialista, nel suo genere.



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