Le tecnologie intelligenti ci fanno idioti
Stampa
  Text size
Conoscete la teoria del cammello? Secondo questa teoria, è stato questo animale da soma di eccezionali qualità, così palesemente superiore al cavallo nelle steppe desertiche, è la causa della millenaria arretratezza islamica. Nel Medio Evo, mentre in Europa dall’Atlantico agli Urali (ed oltre) il trasporto di merci si faceva con carri a ruote, questi erano sconosciuti nel mondo musulmano, persino per i brevi trasporti in città. Eppure la civiltà pre-islamica, romana ed ellenistica, aveva ampiamente introdotto i carri e la ruota in Nordafrica, e steso reti delle insuperabili strade lastricate. I conquistatori arabi le lasciarono degradare, anzi le distrussero. Il ricordo della ruota fu cancellato. Perché?

Perché i guerrieri di Maometto avevano il cammello. Che offriva notevoli e diversi vantaggi sul carro trainato da buoi, specie prima dell’invenzione (medievale) del basto con pettorale che permette alle bestie da soma una maggior forza di trazione. Un solo cammello può portare fra le gobbe il carico di un carriaggio trainato da due buoi, può percorrere 25-30 chilometri al giorno contro i 10-15 del carro. Un uomo solo può condurre da tre a sei cammelli, mentre a bordo di ogni carretta ci dev’essere un guidatore. Nelle zone semi-desertiche, il cammello è in grado di nutrirsi con una vegetazione povera e inassimilabile dai bovini — al contrario, tutto ciò che i bovini mangiano va bene anche al cammello.

Infine – vantaggio decisivo – il cammello non ha bisogno di ruote: tecnologia ragguardevole all’epoca, che richiedeva un artigianato specializzato e costoso, di falegnameria e forgiatura del ferro. Del resto tutta la fabbricazione di carri, carriole e vetture a cavalli esige un sapere tecnico non banale. E per funzionare, soprattutto necessitano di strade, ponti manutenzione di strade e lavori pubblici, che richiedono una condizione politica ben precisa: uno stato relativamente centralizzato e territorializzato. Gli arabi, nomadi, non lo concepivano nemmeno, un simile stato al servizio del territorio. Erano nomadi. Del resto, che bisogno ne avevano, dal momento che disponevano del più avanzato fuoristrada tout-terrain naturale dell’epoca, insuperabile sugli sterrati?

Prima che arrivassero loro, l’intero Nordafrica era stato valorizzato e reso produttivo con millenario lavoro dai sovrani: numidi, cartaginesi, poi soprattutto i romani avevano ogni volta migliorato i suoli, arginato e canalizzato torrenti e wadi, organizzato e sviluppato l’agricoltura al punto che le popolazioni, prima sparse e semi-nomadi, diedero nascita a centri urbani fastosi, di intensa vita civile e culturale. Lo testimonia la collana di splendide città ancora quasi intatte: da Cirene e Leptis Magna in Libia a Volubilis in Marocco, da Hippona in Algeria (dove nacque sant’Agostino) a Bulla Regia in Tunisia e poi ancora Clupea, Thuburbo Maius e Thysdrus il cui anfiteatro impressiona come un Colosseo tunisino, capace di 35 mila spettatori.

Specialmente in Tunisia il clima e il terreno, naturalmente fosfatato, favorirono la coltura del frumento: nella valle del fiume Bagrada, oggi Mejerda («turbidus arentes lento pede sulcat arenas Bagrada», cantava Silio Italico) i rendimenti erano straordinari e la qualità altissima. Le foto aeree degli archeologi mostrano su vastissime estensioni costiere del Nordafrica fitti antichi lavori: piccoli sbarramenti occludevano quasi ogni spaccatura e burrone per trattenere le acque; dighe le conducevano verso le pianure, deviazioni, saracinesche e chiuse le dividevano e distribuivano minutamente nei terreni irrigui. Dovunque si trovano cisterne e pozzi per le fattorie isolate; quanto alle città, erano rifornite dai monumentali acquedotti. Insomma, Roma.

Ancor più delle infrastrutture materiali, produzione e scambi sono stati favoriti da quelle infrastrutture spirituali e politiche di cui Roma aveva il primato, e che si chiamano istituzioni, ordine pubblico, certezza del diritto. Nelle regioni sotto la sua autorità, Roma consolidava e rendeva certa la proprietà privata con le centuriazioni dei suoli, affidate ad agrimensori specializzati e competenti, i quali non solo misuravano i terreni con il loro strumento (groma), ma tenevano conto delle pendenze e produttività dei singoli appezzamenti, indicavano i tracciati dei canali di scolo e stradelle parallele per raggiungere i campi. Non basta: Roma assicurava l’ordine e la sicurezza delle strade; formidabili strade romane congiungevano fra loro le città di tutto il Maghreb, intensificando con ciò stesso i commerci.

Il traffico commerciale tra le città e l’interno, avveniva su carriaggi a due o quattro ruote, trainati da muli, cavalli, buoi. I dromedari non erano affatto ignoti: appaiono regolarmente sulle monete romane ad indicare l’Arabia, come suo simbolo specifico. Erano usati come cavalcatura o animale da soma soprattutto dalle legioni, come giustamente ci si aspetta da un fuoristrada. Cammelli sono ben attestati fino all’età di Adriano; poi però si fanno più rari, e nel settimo secolo d. C., per motivi non chiari, scompaiono. Riappariranno con gli arabi.

Degli arabi, Plinio il Vecchio dice (nella sua Naturalis Historia): «una metà vive di commercio, l’altra metà di brigantaggio». Due attività per cui il cammello è indispensabile. Con la crisi dell’impero romano ad Occidente, e di quello persiano dall’altra parte, sempre meno capaci di difendere i loro confini, al cammello e al saccheggio dei beduini del deserto si aprono vasti spazi, prima insperati.

Verso il 650, gli Ommyadi si stabiliscono nei territori conquistati del Maghreb. Subito cominciano a distruggere le strade romane: i suoi lastricati non servono ai cammelli, anzi sono dannosi ai loro zoccoli molli, ma in compenso sono materiale di recupero già squadrato, prezioso per elevare moschee e fortezze. Secondo le loro usanze, i beduini tagliano gli alberi per i loro bisogni, senza il minimo scrupolo. I terreni scoperti si screpolano, le piogge dilavano l’humus, i campi coltivati – abbandonati dai contadini in fuga davanti ai predoni – diventano steppa e poi deserto. Ormai sulle alture non ci sono più i boschi, dunque nemmeno il legname per eventuali carriaggi. Le pianure non più verdeggianti, non possono più mantenere bovini. Il beduino ha creato attorno a sé il suo ambiente nativo, e ci resta felice.

Il cammello ha vinto sulla ruota. A che prezzo?

Senza bisogno della ruota e di sapere come fabbricarla, i musulmani si perdono tutte le innovazioni tecnologiche con cui la Cristianità in Europa avanza e si fa prospera: per esempio la diffusione de mulini ad acqua (applicazione della ruota) veri e propri motori di potenza superiore, che consentirono lo sviluppo delle prime industrie metallurgiche, e tessili, le prime segherie, le prime cartiere. Direte: non ci sono in Nordafrica fiumi abbastanza pieni per far funzionare mulini. D’accordo, ma gli arabi si perdono anche la ferratura del cavallo (IX secolo), il basto a trazione per il cavallo, i basti ad attacco accoppiato per i bovini, e di conseguenza l’uso dell’aratro pesante che rovescia la terra. Innovazioni, si base, che combinandosi insieme si potenziano a vicenda.

«L’aratro pesante, i campi aperti, l’integrazione dell'agricoltura con l’allevamento, la rotazione triennale, il nuovo basto per cavalli, il ferro da cavallo si combinarono in un sistema di produzione agricola tale che intorno al 1100 era oramai in grado di creare una vasta area di prosperità agricola dall'Atlantico al Dnepr», ha scritto prof. Lynn White Jr., storico della tecnologia.

Soprattutto, i beduini mancarono di sviluppare la mentalità tecnica e meccanica, così tipica dell’europeo, che ha dato la stura alle decisive innovazioni in fatto di navigazione: dal perfezionamento della bussola magnetica al suo uso combinato con la clessidra per misurare con buona approssimazione lo spostamento della nave; dalla compilazione di tavole trigonometriche di navigazione (che cominciò a rendere possibile la navigazione strumentale), all’adozione del timone centrale a poppa e della vela oceanica. Si aggiungano il telaio verticale (Fiandre, X secolo), la ruota per filare, gli occhiali (Firenze 1300), strumenti chirurgici... Spesso non sono neppure invenzioni occidentali; la bussola gli europei la presero proprio dagli arabi, i telai forse dai persiani, la polvere da sparo e la carta erano invenzioni cinesi; ma fu la mentalità tecnica sviluppata che consentì agli europei di utilizzarle in modo combinato, ingegnoso, nuovo e sistematico.

Il ritardo degli arabi si accumula, si consolida in arretratezza — mentale e sociale prima che economica e scientifica. Quella civiltà perde di fatto l’uso della ruota, regredendo in questo settore a livello di culture preistoriche (che scoprirono la ruota attorno al 3.500 a.C.) o pre-colombiane. Al punto che solo ne riprende nozione solo durante la spedizione di Napoleone in Egitto (1798-1801), quando il cronista egiziano Abd al-Rahmân al-Jabarti descrive il seguente oggetto: «Essi (i francesi) ricorrevano a strumenti facili da maneggiare e che risparmiano la fatica, ciò che permette la rapida esecuzione dei lavori. Al posto di un paniere o un recipiente, utilizzano dei piccoli carri con due bracci allungati di dietro; li riempiono di terra, d’argilla o di pietre con grande facilità, per l’equivalente di cinque panieri. Poi prendono con le mani le due braccia, spingono davanti a sé, e il piccolo carro rotola sulla ruota davanti con sforzo minimo fino al cantiere; infine lo si vuota piegandola con una mano, senza alcuna pena».

L’avete riconosciuta? Ciò che l’egiziano descrive con tanta meraviglia è la carriola da muratore: strumento attestato in Cina già dal primo secolo, ma soprattutto – per quanto umile – ancor oggi indispensabile per i lavori pubblici e l’agricoltura, che non manca in nessun cantiere o fattoria, nonostante la meccanizzazione. Gli arabi avevano «dimenticato» la carriola, avevano perso persino la nozione di un oggetto così semplice. Il vantaggio economico del cammello e la disponibilità di schiavi come portatori, aveva prodotto questo tristissimo risultato.

Anche le medine che affascinano ed inquietano i turisti coi loro vicoli stretti, storti e sinuosi, senz’ordine, sono il prodotto di una civiltà senza ruota. Prima della conquista islamica, le città romane avevano un tracciato rettilineo e strade ampie, appunto per lasciar passare i carriaggi (è vero, con un rumore infernale delle ruote ferrate sul lastricato: Orazio se ne lamenta). Ma una società senza traffico rotabile non ha bisogno né di strade diritte né di larghezza costante né di incroci larghi. I pedoni che portano carichi sulla testa o le spalle, e gli asini usati per il piccolo trasporto porta a porta in città, si avvantaggiano invece di reticoli meno razionali, ma intimamente collegati alla vita della collettività e al bisogno di ridurre le distanze per non affaticare troppo l’asino o lo schiavo da soma. È superfluo dire che con l’avvento del motore a scoppio e degli autoveicoli, l’assenza di strade carrozzabili (e di meccanici) ha aggravato l’arretratezza islamica. Non c’è una sola fabbrica di auto musulmana.

Vi ho raccontato questo dopo aver osservato per l’ennesima volta i milanesi in metrò: tutti a fissare il loro telefonino smart. Chi guarda video, chi fa videogiochi, chi risponde a mail e vi aggiunge figurine, chi compulsa foto ricevute, chi ascolta musica con l’auricolare. Non abbiamo più bisogno di leggere. Peggio: nemmeno di consultare una carta geografica (c’è il navigatore), chiedere una strada a un passante, ricavare una percentuale o fare una divisione, compulsare un’enciclopedia, fare una ricerca in biblioteca (c’è o non c’è Wikipedia?). Non compriamo più i «grandi» giornali e va bene; ma i più di noi leggono le pagine online di questi stessi giornali, che sono le più sciocche e fatue e superficiali; gli articoli di approfondimento, nemmeno vengono offerti. Siamo informati «in tempo reale» di vacuità a catena, di notizie e pubblicità, che ci rinchiudono ancor più ermeticamente nel Grande Adesso Cretino in cui ci siamo lasciati occludere, separati dalla storia e dal passato, anche il nostro. Il potere di «reagire» immediatamente ci abbassa il livello di riflessione, ci rende sempre più adescabili dai primi impulsi. E presto con lo smartphone chiameremo a noi la nostra auto «intelligente», dovunque sia andata (da sola) a parcheggiarsi (senza bisogno di noi al volante): e tutto gratis, s’intende, purché lasciamo che la pubblicità di tutti i ristoranti e i bar e i negozi davanti a cui passiamo, avvisata dal GPS del nostro passaggio, ci inondi di offerte speciali, mescolate alle «notizie istantanee» e liofilzzate, ai tweet, alle «amicizie» di fessbuk.

M’è venuta l’ovvia illuminazione: tutta questa intelligenza elettronica rende noi più idioti. Meno capaci di acquisire competenze, di imparare, di concentrarci duramente nello studio, nel lavoro, sempre meno adatti ad usare le mani e le gambe.

I numerosi vantaggi del progresso digitale non saranno come il cammello per gli arabi, un vantaggio che innescò l’arretramento fatale?

Anzi, il processo è visibilmente già avanzato. Nelle case, uffici, scuole, giacche e borsette italiane pulsano in cerca di wi-fi e cellule, milioni di apparecchi elettronici. Decine di milioni di computer, tablet, iPhone, Samsung. Ebbene: nessuno di questi oggetti è fabbricato in Italia, anzi nemmeno in Europa (1). Li importiamo tutti, dissanguandoci di valuta, fino all’ultimo, dall’Asia Estrema. Lì sanno come si fabbricano questi prodigi tecnici, lì avanzano le innovazioni nel digitale; lì crescono accanto alle gigantesche fabbriche le università specializzate. Laggiù si sviluppa il know-how di strumenti che sono stati magari inventati in Europa, ma non sappiamo più come fare. Non ci conviene più – così dice la dottrina ideologica del globalismo – «conviene» comprarli dai Paesi dove i salari sono più bassi: ottimo vantaggio che si traduce in arretramento delle nostre conoscenze, competenze, e dunque – alla lunga – della nostra ricchezza, e financo della nostra intelligenza.

Si dice che se un cataclisma facesse affondare Taiwan, il mondo mancherebbe tragicamente di Sim e circuiti integrati, perché la punta tecnologica di questa industria è tutta concentrata nell’isola cinese. Una guerra, la mancanza di elettricità, lo spegnimento o l’esclusione da parte del nemico di alcuni satelliti da cui dipende la nostra prodigiosa capacità di «connessione», possono farci ricadere nel buio della preistoria, una preistoria in cui non sappiamo più nemmeno come procurarci il cibo, fabbricarci un arco, accendere un fuoco.

I nostri saperi che ancora resistono, stanno in una nuvola, in un cloud, che non sappiamo chi controlla (o lo sappiamo benissimo), né siamo certi che ci siano rubati, oppure che svaporino — come accade alle nuvole. Molti saperi un tempo stampati sulla carta sono, sempre più definitivamente, riprodotti su mezzi elettronici, chiavette usb, memorie i massa... e già tutti ci è impossibile leggere gli archivi di 15 anni fa perché s’è cessato di fabbricare i lettori di nastri magnetici che li leggevano, meccanismi «superati» e sostituiti da mezzi di lettura e archiviazione sempre più smart. Più smart loro, meno smart noi.

Benvenuti nell’era del cammello, neo-beduini della (una volta) grande Europa.





1) La burocrazia della Pubblica istruzione sta inducendo tutte le famiglie con ragazzi in età scolare a fornirli di un tablet. Sono altri milioni di acquisti importati dalla Cina o dalla Corea. Il buonsenso avrebbe consigliato una contrattazione di questo tipo coi commercianti asiatici: l’Italia comprerà (per scuole e pubbliche amministrazioni), diciamo, 3 milioni di tablet; il nostro «mercato» sarà aperto a quei fabbricanti che accetteranno di trasferire almeno una parte della produzione nel territorio nazionale, per dar lavoro ad italiani e mantenere qui le conoscenze. La Cina ha fatto proprio così, ed è così che ha sviluppato il suo know-how. Naturalmente è chiedere troppo ai nostri politici, e non parliamo degli eurocrati.



L'associazione culturale editoriale EFFEDIEFFE, diffida dal copiare su altri siti, blog, forum e mailing list i suddetti contenuti, in ciò affidandosi alle leggi che tutelano il copyright.