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Teheran tratta, Israele all’angolo
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Il regime iraniano ha accettato di congelare per sei settimane l’arricchimento dell’uranio e di cominciare a negoziare con i «Sei» (1), e questi in cambio congeleranno le ulteriori e più dure sanzioni minacciate dall’ONU si pressione usraeliana. Lo afferma l’agenzia ISNA (Iranian Students News Agency), secondo cui il capo del programma atomico persiano, Gholam-Reza Aghazadeh, avrebbe comunicato il raggiunto accordo alla Commissione energetica del Majlis, il parlamento iraniano.

Il sito web in farsi, Fararou, conferma il fermo di sei settimane, spiegandolo come un’apertura al negoziato offerto da Javier Solana, il «ministro degli Esteri» della UE. I negoziati cominceranno la prossima settimana.Teheran vuole negoziati formali e, da quel che si può capire, ampi. L’accordo è già stato battezzato «freeze for freeze plan», congelamento contro congelamento (2).

E’ un bel colpo di Teheran, che si mostra tanto più razionale di fronte alla scalpitante minaccia israeliana; la mossa tende ad evitare una «october surprise» a svantaggio del futuro presidente USA - un attacco che Bush potrebbe ordinare dopo che il suo McCain avesse perso le presidenziali, come ventilato di nuovo, fra l’altro, dal neocon John Bolton - e a guadagnare tempo per sè e il nuovo presidente americano (che può essere Obama, secondo i sondaggi).

Già da qualche giorno del resto c’erano segni che la vera dirigenza iraniana stava isolando le bellicosità verbali di Ahmadinejad (che aveva promesso di «scavare 350 mila fosse per gli americani», in caso di attacco), e aveva lanciato segnali di apertura sopra la sua testa. Un Consiglio per la Politica Estera formato la settimana scorsa alle dirette dipendenze del leader supremo della rivoluzione (il grande ayatollah Ali Khamenei), ha affiancato «il potere esecutivo» in cui la Guida Suprema - è stato detto - «notava alcune deficienze».

Oggi uno dei membri del neonato consiglio, il dottor Velayati (è un ex pediatra), ha reso chiaro il desiderio di un’apertura: «Gli americani non vogliono che noi accettiamo (la proposta di) Solana, dunque è nostro interesse abbracciare Solana».

Quanto al ministro degli Esteri, Manouchehr Mottaki, ha invitato a pranzo vari giornalisti alla missione iraniana presso l’ONU a New York, ed ha spiegato che ci sono abbastanza punti comuni fra la proposta Solana, quella dei «Sei», e le proposte iraniane di negoziato, da costituire una buona base per colloqui. Lasciando intendere che il regime è disposto a concedere di più in termini di non-arricchimento,  in cambio di essere trattato come valido interlocutore nei consessi internazionali.

E - fatto significativo - pur di fronte alle insistenti domande dei giornalisti in proposito, Mottaki ha accuratamente vietato di ripetere la tipica dichiarazione iraniana, che l’Iran ha il diritto ad una sua industria nucleare.

E’ uno smacco per Israele, anche se si cercherà di farlo passare per un successo delle sue minacce. E non è il solo.

La settimana scorsa il capo supremo delle forze armate USA, l’ammiraglio Michael Mullen, era andato in Israele a capo di una nutrita delegazione di gallonati. Si poteva temere che fosse stato convocato per ricevere istruzioni a proposito dell’imminente attacco all’Iran. Ma, da quanto si è potuto capire dalla conferenza-stampa che l’ammiraglio ha tenuto al Pentagono al suo ritorno, è accaduto il contrario. Mullen ha detto agli israeliani che l’attacco all’Iran, se lo potevano sognare.

Lasciamo la parola alla BBC: «Nella conferenza al dipartimento della Difesa, l’ammiraglio Mullen ha rifiutato di riferire quel che i leader israeliani gli avevano detto nel loro incontro su un piano per colpire l’Iran. Ma egli ha messo in guardia: aprire un terzo fronte, dopo Iraq e Afghanistan, sarebbe ‘estremamente stressante e difficile. Con conseguenze difficili da prevedere’. Alla domanda se era preoccupato che Israele potesse colpire prima della fine dell’anno,  Mullen ha replicato, molto duro: ‘Quella è una parte molto instabile del mondo, e a me non serve farla più instabile’. L’ammiraglio ha aggiunto che se scoppiasse un conflitto, l’Iran a suo parere ha la capacità di interrompere il traffico navale nello strategico Stretto di Ormuz» (3).

Commento di Justin Webb, il corrispondente da Washington per la BBC: «Era già chiaro da tempo che l’ammiraglio Mullen non vuole un attacco all’Iran. Ma le sue ultime parole lasciano intendere che egli sta lottando duramente dietro le quinte, sia in USA che in Israele, per indurre a pensare bene alle conseguenze di un attacco prima di lanciarlo».

Come già l’ammiraglio Fallon, anche Mullen sta resistendo accanitamente alla pressioni degli ambienti neocon, in piena frenesia d’urgenza perchè sanno che, dopo Bush, l’occasione di far combattere agli USA la terza guerra per Sion probabilmente sfumerà. Mullen ha in questo il pieno appoggio del suo ministro, Robert Gates.

Anzi di più: di recente,come ha spiegato Seymour Hersh (4), il ministro del Pentagono (Gates è un ex direttore della CIA) ha invitato il gruppo dei democratici al Senato ad un pranzo informale e «off the records», e li ha messi in guardia delle conseguenze di un colpo di coda finale di Bush contro Teheran: «Creeremmmo generazioni di jihadisti, e i nostri nipoti dovranno combatterli qui in America».

Stupefatti, i democratici gli hanno chiesto se parlava a nome di Bush e del vicepresidente Dick Cheney. Gates ha o avrebbe risposto: «Diciamo che parlo a mio nome». Insomma, Gates ha sostanzialmente comunicato ai democratici - che sa proni alla nota lobby non meno che i repubblicani - perchè resistano alle pressioni dietro le quinte; si tratta, in fondo,
di resistere pochi mesi.

Non si può fare a meno di vedere che questi pochi mesi corrono in una spaccatura dell’esecutivo americano, quasi sul filo del rifiuto d’obbedienza. O di un micro-golpe pacifista messo in atto dai generali.

La frase di Mullen sulla parte instabile del mondo che è il Medio Oriente, «And I don’t need it to be more instable», ha il netto senso di una dichiarazione politica (vietata ai generali) e per di più  fatta «in nome proprio», come quella di Gates.

L’uscente presidente Bush acquista di giorno in giorno qualche tratto in comune con Ahmadinejad: entrambi sono scavalcati dai rispettivi gruppi ragionevoli. Ma non si creda che la lobby stia con le mani in mano.

Ron Paul denuncia sul suo sito un progetto di legge, presentato alla Camera bassa (H.J. Res 362), che dà al presidente il potere di «imporre ispezioni stringenti su tutte le persone, veicoli, navi, aerei, treni e carichi in entrata e in uscita dall’Iran, e di proibire il movimento internazionale di tutti i funzionari iraniani». E’ una dichiarazione di guerra virtuale, dice Ron Paul, e il Congresso (a maggioranza democratica) la voterà quasi certamente dopo la festività del 4 luglio, per servilismo e per paura della lobby (5).

E’ evidentemente per questo che Gates ha intrattenuto i democratici «off-the-records» e a nome proprio.




1) I «Sei» che trattano con l’Iran sono i cinque membri del consiglio di sicurezza ONU (USA, Francia, Inghilterra, Cina e Russia, più la Germania.
2) Gareth Porter, «Iran warms to freeze-for-freeze plan», Asia Times, 4 luglio 2008.
3) Justin Webb, «US admiral urges caution on Iran», BBC, 3 luglio 2008.
4) Seymour Hersh, «Preparing the battlefield», New Yorker, 7 luglio 2008. E’ l’ultima inchiesta di Hersh sulle operazioni clandestine ordinate da Bush contro l’Iran, in territorio iraniano: assassinii mirati alla israeliana e tutto il resto. L’ordine di Bush è segreto e illegale, ossia non ne ha nemmeno informato i capigruppo dei due partiti, come gli impone la legge.
5) Ron Paul, «Congress’s virtual war resolution», Antiwar .com., 3 luglio 2008.


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