Risorgimento?! (parte II)
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Il disegno egemonico dei Savoia

Scrive Franco Cardini: «Il braccio di ferro tra le città centrosettentrionali per il controllo del territorio, dei mercati e delle vie di comunicazione, favorito dalleclisse dei poteri papale e imperiale, nel corso del Tre-Quattrocento, condusse al consolidarsi di Stati territoriali - Milano, Venezia, Firenze - che, prima con la Pace di Lodi del 1454 e quindi con il pur laborioso raggiungimento di un equilibrio franco-asburgico a metà Cinquecento, avrebbe assicurato allItalia una sostanziale stabilità. La penisola, passata la tempesta napoleonica, si presentava in tal modo non disadatto al conseguimento di ununità federale parallela a quella che, nei medesimi decenni, andava imponendosi in Germania: era la soluzione alla quale, in modo diverso, guardavano il Gioberti e il Cattaneo. La convergente dinamica dellespansionismo piemontese, dellattivismo dei gruppi democratici neogiacobini e delle preoccupazioni conservatrici dei ceti dirigenti e abbienti della penisola imposero invece la soluzione unitaria» (1).

Il progetto federalista iniziò a naufragare quando, con la guerra di indipendenza del 1848, emerse chiaramente da un lato la volontà egemonica dei Savoia, ormai prigionieri di  una cricca di liberali e massoni installatisi a corte e nel parlamento, della quale Cavour era espressione, portatrice della cosiddetta ideologia piemontese, e dall’altro la radicalizzazione mazziniana.

L’assassinio, per mano mazziniana, di Pellegrino Rossi, il più grande costituzionalista dell’epoca, co-autore di un progetto di costituzione federale elvetica, che Pio IX aveva chiamato, nonostante fosse un laico ed un cattolico di simpatie liberali, per riformare le strutture dello Stato Pontificio, costrinse il Papa a sospendere il suo appoggio al progetto federalista. Le manie egemoniche del Piemonte, insieme alle minacce di scisma da parte dell’Austria, convinsero Pio IX a ritirare le truppe pontificie dall’alleanza antiaustriaca. Ma il Papa non fu il solo. Anche gli altri sovrani italiani, ad iniziare da Ferdinando II di Borbone, fecero lo stesso quando si capì che il Piemonte aveva mire annessionistiche e non federali.

I Savoia erano un’antica dinastia di provata fede cattolica. Basti pensare che la Sacra Sindone restò per secoli affidata alla loro custodia. Passati da duchi a sovrani, i Savoia furono parte integrante del sistema della Santa Alleanza, fino a quando l’incauto, pur cattolico, Carlo Alberto, che probabilmente voleva solo avviare un processo di necessarie riforme del regno sabaudo, si affidò ai liberal-massoni locali. Vittorio Emanuele II poi, troppo preso dalla sua bella Rosina e troppo intellettualmente zotico per comprendere qualcosa che andasse oltre la propria immeritata vanagloria, abdicò completamente al disegno ideologico di Cavour e soci, che solleticava la sua volontà espansionistica.

Si capisce perché mai Cattaneo vedesse nei Savoia un pericolo per l’autonomia lombarda. Il filosofo milanese, infatti, guardava con più simpatia all’ipotesi di una autonomia del Lombardo-Veneto nell’ambito dell’orbita asburgica come premessa ad una unione doganale e federale con il resto dell’Italia, che non certamente all’ipotesi del Regno del Nord Italia propugnata dal parlamento sabaudo egemonizzato dai massoni e dai liberali piemontesi. Un regno, questo del Nord Italia, che si sarebbe dovuto creare sul modello accentratore francese e nel quale a Milano ed alla Lombardia sarebbe stata negata ogni vera autonomia. Durante le Cinque giornate di Milano, Cattaneo fece di tutto per impedire l’intervento sabaudo e fino alla fine sperò che la coalizione dei sovrani italiani ponesse un limite alle mire espansionistiche piemontesi.

Sia detto per inciso: la partecipazione popolare alle Cinque giornate non fu affatto così massiccia come si suole far credere ma limitata agli strati medio e medio alti della popolazione, sicché quegli storici che cercano di rivalutare la partecipazione popolare al processo risorgimentale dovrebbero prima chiarire cosa intendono per popolo, ossia se i soli ceti urbani ed intellettuali oppure anche quelli subalterni. I quali, invece, quando Radetzky rientrò a Milano lo accolsero lamentando che il popolino non aveva nessuna colpa perché la rivoluzione era stata fatta dai sciuri, dai signori. Il buon Radetzky, un altro vituperato dalla faziosa storiografia risorgimentalistica, godette in tarda età della sua pensione proprio a Milano, ormai italiana, tranquillamente passeggiando per le strade della capitale lombarda, da tutti rispettato. Segno che la dominazione asburgica non era stata poi così truce come i liberali l’hanno raccontata.

L
ideologia piemontese

Con il 1848 diventò palese che il processo unitario era diventato uno strumento di affermazione della cosiddetta ideologia piemontese propugnata da Cavour e dai liberali. Con la definizione di ideologia piemontese si intende quel coacervo culturale di anticristianesimo massonico, di giurisdizionalismo antiecclesiale, nazionalismo liberale, dottrinarismo manchesteriano ossia liberismo economico, che aveva tra i suoi maggiori esponenti, oltre che lo stesso Cavour, anche il calvinista Simonde de Sismondi e che giunge, passando per l’apparente crocevia della Destra e della Sinistra storica, ossia Quintino Sella e Depretis, fino a Gobetti, Gramsci ed al partito d’Azione. Erede ne fu appunto la scuola torinese dei Bobbio e dei Galante Garrone.

Tale ideologia ha costruito il mito di un’Italia altra, ereticale, da opporre all’Italia controriformista. Uno dei leitmotiv di tale ideologia piemontese era quello, ormai diventato luogo comune, per il quale l’Italia fosse drammaticamente indietro nell’incivilimento (termine che sta per progresso socio-economico), rispetto agli altri Paesi europei, perché non toccata dalla Riforma protestante. Una visione storica che non spiega perché mai, ad esempio, proprio la Riforma Cattolica, che trovò in san Carlo Borromeo il grande apostolo milanese, educò i lombardi ed i veneti a quella operosità che ancora oggi è loro caratteristica. La tesi per cui protestantesimo significhi incivilimento e Cattolicesimo arretratezza fu, più tardi, ripresa, come è noto, da Max Weber. Questa tesi è stata ampiamente superata e si è rivelata infondata nella sua radice polemicamente ideologica. Mentre, al di là di tale momento polemico, è ancora vitale l’elemento di verità insito in essa. Questo elemento di verità è quello che coglie il fatto che il Cattolicesimo, sul piano economico, più che impedire lo sviluppo in sé pone un freno all’individualismo liberista, il quale individualismo non è affatto sinonimo di sviluppo quanto piuttosto solo di rapace solipsismo sociale che alla lunga si svela dannoso per la stessa economia.

All’insegna dell’ideologia piemontese, Cavour e collaboratori, prima in Piemonte e poi nel resto d’Italia, si adoperarono in uno sforzo di protestantizzazione degli italiani, nella convinzione che calvinismo e luteranesimo favorissero la trasformazione liberista dell’economia, anche dando ogni aiuto possibile al proselitismo delle sette protestanti, sia di quelle storicamente indigene, come le valdesi, sia di quelle, come le presbiteriane e le avventiste, di importazione, appositamente fatte venire da Inghilterra e Stati Uniti.

Altrove abbiamo avuto modo di scrivere in proposito:

«Sfuggita loccasione storica costituita dalle insorgenze antifrancesi nel triennio 1796-99, il risorgimento ha invece assunto una piega anti-cattolica e conseguenzialmente anti-italiana. Augusto Del Noce giustamente interpretava il Risorgimento come una pagina dellimperialismo inglese. Nel XIX secolo si oppose il mito massonico della Terza Roma alla Roma cristiana, alienando in tal modo al processo di unificazione statuale il solo vero fondamento di una non contraddittoria unità politica. Nel processo di unificazione decisive furono le mire espansionisitiche dei Savoia, convergenti con gli interessi inglesi al controllo del Mediterraneo. Ma soprattutto decisivo fu lodio anglicano verso il papismo’, unito alle utopie di protestantizzazione dellItalia, perseguite dalla classe dirigente liberale del Piemonte. Non a caso, mentre i romani (salvo i quattro massoni locali) si barricavano in casa, gelidamente accogliendo i piemontesi, la breccia di Porta Pia fu varcata insieme ai bersaglieri da un pastore valdese, tal Luigi Ciari, che trainava una carretta di Bibbie protestanti, accompagnato dal suo cane di nome Pionono’. Arrivava in tal modo a compimento il ciclo militare della cosiddetta ideologia piemontese che ci ha regalato unItalia… liberale, ma priva di quelle forti basi identitarie che solo il Cattolicesimo avrebbe potuto darle. UnItalia senza radici verso la quale gli italiani, quelli che la consorteria garibaldina avrebbe voluto fare fatta lItalia, non sono mai stati realmente leali, come dimostra la loro tendenza alle mille furbizie quotidiane pur di ingannare lo Stato o le altre pubbliche autorità. Continua a manifestarsi in tale atteggiamento quella medesima avversione al gendarme o al carabiniere che fu tipica delle terre occupate dai Savoia, con laiuto dei notabili locali (si pensi al personaggio di Calogero Sedara ne Il Gattopardo’), soprattutto al sud, dove ancora oggi coloro che provengono dal nord sono chiamati, con malcelato disprezzo, piemontesi’. Naturalmente la responsabilità di tale carattere anti-statuale degli italiani è imputata dalla vulgata laicista al Cattolicesimo. Il che è un falso storico, laddove si pensi alle forti radici identitarie che altrove sostengono Stati nazionali nati in alveo cattolico. Lavidità espansionistica di una dinastia, legoismo di una oligarchia borghese illuminatae lutopismo delle logge che perseguivano la protestantizzazione degli italiani determinarono la nascita di uno Stato unitario sacrificando però lidentità nazionale già forgiata da secoli di storia cristiana e nella quale erano organicamente ricomprese le identità locali» (2).

Il giurisdizionalismo

Alla luce della ideologia piemontese si comprende anche l’intera legislazione giurisdizionalista, con tanto di soppressione di ordini religiosi ed espulsione dei gesuiti (i più fieri oppositori dell’illuminismo e pertanto bestie nere per la massoneria), varata a metà XIX secolo dal governo liberale piemontese, mentre le chiese si riempivano di fedeli in preghiera e il re veniva tempestato di accorati appelli da parte del clero e del laicato cattolico affinché fermasse quei provvedimenti. Cosa che Vittorio Emanuele II non fece e, come gli preannunciò don Bosco, mal gliene colse, sia all’istante con una serie di lutti in famiglia che alla lunga con l’avverarsi della profezia del sacerdote - si trattò di uno dei suoi famosi sogni profetici, tosto comunicato a corte  - per la quale la dinastia non sarebbe arrivata alla quarta generazione se non avesse smesso di perseguitare la Chiesa. In effetti, dopo Vittorio Emanuele II, al trono salirono Umberto I, Vittorio Emanuele III e, per un solo mese, Umberto II. Dopodiché la monarchia cadde.

E’ alla luce del giurisdizionalismo, ricordato anche da Benedetto XVI nel suo messaggio a Napolitano per il 150nario (3), che bisogna valutare il presunto liberalismo religioso di Cavour. Infatti il noto motto, da lui coniato o fatto proprio, «libera Chiesa in libero Stato» ha un significato assolutamente contrario a quello liberale che comunemente gli viene attribuito. Cavour non intendeva affatto dire che alla Chiesa cattolica bisognasse riconoscere la sua libertas come Corpo Mistico di Cristo, come Societas christianorum, concreta, visibile, toccabile, giuridicamente portatrice di diritti che lo Stato non può conculcare. Al contrario, Cavour, secondo i parametri dell’ideologia piemontese, leggeva quell’espressione come negazione della corporeità sociale della Chiesa in nome della pura religione e della invisibilità interioristica della fede intesa quale fatto privato ed individuale. Qui, è evidente, torna il magistero, gnostico, di Lutero per il quale la fede è solo quella intimistica e soggettiva che, pertanto, non abbisogna di visibilità esteriore e dunque di sacerdozio gerarchico, di sacramenti e di corporeità ecclesiale.

Cavour, quando invocava la libera Chiesa nel libero Stato, aveva a riferimento proprio la concezione protestante della fede soggettiva e della chiesa di Stato. La chiesa, in tal senso, è libera nel solo senso che essa altro non può essere che una realtà intima dell’individuo il quale è al tempo stesso un libero, ed obbediente, cittadino dello Stato. Questa concezione invisibile, non corporea e quindi non giuridica, della Chiesa, che esisterebbe solo nella fede soggettiva e che dunque nessun diritto potrebbe rivendicare di fronte allo Stato che invece è l’unica fonte di ogni diritto anche in materia religiosa, è quella in base alla quale Cavour e soci, anticipando gli Stati totalitari del XX secolo, hanno spogliato la Chiesa dei suoi beni temporali (dei quali spesso viveva la povera gente) con il pretesto e la missione di purificare il Cristianesimo insozzato dall’avidità dei preti. Naturalmente, poi, quei beni erano messi all’asta, a prezzi di favore, a beneficio degli amici e fratelli di loggia, tutti notabili, borghesi, altolocati. In tal modo un inverecondo mercimonio di beni ecclesiastici, con la scusa della manomorta ossia della pretesa improduttività di quei beni, che però, lo ripetiamo, erano cespiti vitali per i ceti popolari e per il clero, soprattutto quello più povero, venne inaugurato ogni dove, con l’aiuto delle armi piemontesi, trionfò la politica giurisdizionalista dei liberali.

Il giurisdizionalismo, storicamente nato all’epoca della comparsa, a seguito della Riforma, della chiese nazionali, come la luterana, la gallicana e l’anglicana, si accompagnò, nel corso del processo risorgimentale, ad un altro triste fenomeno ossia il nazionalismo laicista destinato a sfociare, inevitabilmente, nello sciovinismo e nel razzismo. Se l’Austria Felix non fosse stata abbattuta per volontà della massoneria londinese e parigina (4) dando, appunto, la stura ai nazionalismi, anche a quelli micro-etnici, è evidente che, ad esempio, l’dentità cattolica di una regione tradizionale come il Tirolo, fondata sul culto al Sacro Cuore, non si sarebbe trasformata nell’ideologia populista a sfondo volkish che è oggi tipica del separatismo altoatesino o sud-tirolese che dir si voglia. Questo separatismo populistaa tendenza razzista, ha ridotto la comprensione storica di un eroico personaggio come Andrea Hofer, l’insorgente antifrancese tirolese del 1806-09, che si oppose alle idee rivoluzionarie in nome della santa fede cattolica e non certo del nazionalismo tirolese. Questo nazionalismo, non a caso, ha assunto per sé uno slogan molto equivoco come los von Rom. Tale motto riecheggia, da vicino, l’antiromanità luterana, e tedesco-nordica, intrisa di odio antipapale ed anticattolico. Medesimo discorso sarebbe da farsi per il lontano da Roma che la Lega di Bossi, almeno fino a qualche anno fa, inscenava in ogni suo raduno. Anche qui, alla base di certi slogan, molta è l’influenza del calvinismo svizzero protestante, al quale del resto, come è noto, occhieggiava con estrema simpatia Gianfranco Miglio che fu il primo intellettuale, filosofo di un rinnovato contrattualismo sociale, del nascente leghismo. Ricordiamo questo solo per disincantare un po’ sulla effettiva cattolicità antirisorgimentale di certi movimenti, compresa la Lega Nord.

Solo se si tiene in debito conto della politica giurisdizionalista, all’epoca praticata da molti Stati compreso il Piemonte, è possibile comprendere l’importanza di tre fondamentali eventi ecclesiali del XIX secolo, ovvero la proclamazione, nel 1854, del dogma dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria, il Concilio Vaticano I del 1870, che, pur rimasto sospeso a causa dell’invasione piemontese di Roma, riuscì a proclamare in tempo il dogma dell’infallibilità papale in materia di fede e morale, e la promulgazione del Sillabo, raccolta degli errori moderni condannati dalla Chiesa. Tutti e tre questi eventi si devono all’intuizione, ispirata, del beato Pio IX. Come ha scritto il cardinale Giacomo Biffi, già arcivescovo di Bologna: «Rabbrividisco allipotesi, fortunatamente del tutto astratta, di una cattolicità che fosse alle prese con la confusione odierna senza avere il sostegno di queste definizioni dogmatiche» (Avvenire, 5 aprile 2001).

La proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione non solo ha dato un impulso straordinario alla devozione mariana, svelando il progressivo compiersi nella storia del mistero della «Donna vestita di sole» dell’Apocalisse, ma, proprio in questo alveo apocalittico, ha posto un argine invalicabile in difesa della fede dei più piccoli, dei semplici, contro l’arroganza ed i tranelli dei sapienti secondo il mondo. Un fatto, questo, che non è stato compreso all’esterno della Chiesa ma spesso anche in tanti ambiti al suo interno.

Il dogma dell’infallibilità papale ha messo in salvo l’unità stessa della Chiesa cattolica di fronte alle tendenze nazionalistiche, gallicane, che, a causa del giurisdizionalismo ma anche delle spinte eterodosse interne, andavano profilandosi in seno alla compagine ecclesiale. Sicché giustamente Biffi vede in questo l’opera della Provvidenza.

Infine il Sillabo che, lungi dall’essere un documento demodé, ha anticipatamente indicato per tempo molti dei pericoli che oggi attanagliano la Chiesa, dal laicismo che nega ogni intervento di Dio nella storia al relativismo (che nel linguaggio ottocentesco, usato in quel documento, era chiamato indifferentismo) fino alla scientismo.

L
Italia di Cavour come prodotto di una congiuntura internazionale

Se Vittorio Emanuele II era tale, ossia secondo, come re di Sardegna e non ebbe neanche il buon gusto di chiamarsi primo come re d’Italia, quando quest’ultimo regno fu proclamato, in lingua francese, nel parlamento sabaudo, a Torino, il 17 marzo 1861, mentre sulla fortezza borbonica di Civitella del Tronto, che si sarebbe arresa solo il 20 successivo, ancora sventolava il giglio reale del Regno delle Due Sicilie (cosa che mise in imbarazzo il governo piemontese visto che, a termini di diritto internazionale, il regno borbonico non era ancora stato debellato e dunque esisteva come realtà politico-giuridica sicché la proclamazione del regno d’Italia risultava viziata sul piano gius-internazionale), Cavour, dal canto suo, non scese mai oltre l’Arno e disdegnava parlare in italiano preferendo esprimersi in francese.

Tutto questo la dice lunga non solo sulla effettiva italianità di codesti pomposi padri della patria ma anche su quale idea costoro avessero dell’Italia. Un’idea, diciamolo subito, nordico-centrica e venata del razzismo tipico di chi professa l’ideologia progressista e guarda darwinisticamente, dall’alto della sua presunta evoluzione civile, ai popoli che non accettano lo stesso tipo di sviluppo, o che hanno una diversa storia ed un diverso sviluppo, come arretrati e primitivi. Fu questo l’approccio del Piemonte liberale verso l’Italia oscurantista che, poi, per i liberali di Torino, non era solo il sud o il centro ma anche il nord-est.

Abbiamo già accennato all’influsso inglese nelle vicende risorgimentali, in particolare nell’impresa garibaldina dei mille. E’ ormai noto e documentato che la massoneria londinese, quella che diede rifugio a Mazzini il quale dal comodo della sua casa inglese aizzava con proclami di fanatico idealismo e mandava al macello molti entusiasti giovani democratici italiani, finanziò la spedizione di Garibaldi (5). Due navi della Marina Militare inglese erano presenti a Marsala al momento dello sbarco. Da Londra giunse anche il denaro per corrompere l’alta ufficialità borbonica, già di suo iniziata ai riti di loggia, affinché si compisse il miracolo di un gruppo di avventurieri che sconfigge un esercito organizzato. L’esercito borbonico, tradito dai suoi ufficiali, non combatté mai, con scandalo dei suoi soldati che spesso reagirono autonomamente all’ignavia dei comandanti, se non al Volturno e - guarda caso - in quell’occasione Garibaldi stava per prenderle. Probabilmente la massoneria inglese sperava che Garibaldi potesse arrivare fino a Roma per scacciarne il Papa, come del resto lo invitò a fare Mazzini. Uno dei motivi dell’intervento dell’esercito piemontese, mediante l’invasione di Umbria e Marche per ricongiungersi a Teano con i garibaldini, fu proprio di evitare che il generale continuasse l’avanzata fino all’Urbe. Ma Cavour non agì per rispetto del Papa quanto per evitare problemi con Napoleone III, l’imperatore carbonaro che però, per tenere buoni i cattolici francesi, ossia la quasi totalità dei suoi sudditi, si era impegnato pubblicamente a tutelare i diritti del Pontefice.

L’intera operazione risorgimentale dal 1859-60 fino al 1870 fu nient’altro che il risultato di una particolare congiuntura internazionale. Certamente sfruttata con intelligenza da Cavour e soci ma senza la quale l’unificazione piemontese, a mano armata, della penisola non sarebbe mai avvenuta. Ricordiamo questo per ridimensionare i meriti dei Savoia, di Cavour e di Garibaldi. L’Italia fu in modo eminente soprattutto il risultato di una particolare situazione politico-diplomatica dell’Europa di metà ottocento. In quel momento, infatti, in margine alla questione turca, ossia al gran banchetto (6) per spartirsi le spoglie del morente Impero Ottomano, questione che contribuì in modo determinante alle fortune del colonialismo moderno, iniziarono a formarsi le grandi colazioni, franco-inglese ed austro-germanica, che più tardi si sarebbero affrontate nel primo conflitto mondiale e, nell’ambito di queste due coalizioni in formazione, la rivalità interna a ciascuna di esse, rispettivamente, di Francia ed Inghilterra, da un lato, e di Germania ed Austria, dall’altro.

Cavour fu senz’altro abile nell’inserire, in occasione della Guerra di Crimea, il Piemonte nel gioco delle grandi potenze europee dell’epoca, ma questo dimostra che l’Italia senza il consenso di Napoleone III e dell’Inghilterra non sarebbe mai stata unificata sotto il dominio sabaudo (7).

A Plombiéres l’accordo stipulato tra Napoleone III e Cavour prevedeva la costituzione, mediante l’annessione del Lombardo-Veneto e quindi la guerra contro l’Austria, di un Regno del Nord Italia sotto i Savoia, mentre la parte centrale della penisola, che si sarebbe dovuta assegnare ad un sovrano affidabile per gli interessi franco-piemotesi lasciando al Papa la sola città di Roma ed il suo circondario, avrebbe costituito un Regno del Centro Italia. Si prevedeva, in quegli accordi, anche la costituzione di una confederazione tra il Regno del Nord, quello del Centro ed il Regno delle Due Sicilie, per il quale ultimo garantiva lo stesso Napoleone III che in effetti aveva un suo forte ascendente sul giovane, ed inesperto, Francesco II di Borbone. La presidenza di detta confederazione, una presidenza solo formale ed onoraria, sarebbe stata offerta al Papa per compensarlo della perdita, questa sì effettiva, dello Stato della Chiesa.

Se questi erano gli accordi, Cavour, tuttavia, dissimulava dietro di essi ben altro disegno. La prevista confederazione sarebbe stata tale solo di nome perché l’egemonia piemontese ne avrebbe condizionato l’intera vita politica. Un disegno assolutamente chiaro nei suoi effettivi intenti sicché coloro i quali oggi cianciano di un Cavour federalista dovrebbero tenere in debito conto quale tipo di federalismo poteva essere quello nel quale uno Stato, con fondamentali appoggi internazionali, avrebbe esercitato il ruolo di guida riducendo gli altri a Stati-vassalli. Se mai fosse nata, quella confederazione sarebbe stata Piemonte-centrica, o almeno Nord-centrica, simile, in questo, alla ex-Jugoslavia, che era serbo-centrica, o alla ex-Cecoslovacchia, che era boemo-centrica.

Che Cavour mentre siglava gli accordi di Plombiéres bleffasse sulle sue reali intenzioni, che erano quelle di imporre il Piemonte come Stato egemone nella ipotizzata confederazione, fu chiaramente dimostrato dalla sua reazione di fronte agli accordi di Villafranca con i quali, anche per placare il malcontento che in Francia si stava diffondendo per l’aiuto dell’imperatore ai nemici del Papa, Napoleone III metteva fine alla guerra con l’Austria. Questi accordi, che ricalcavano quelli di Plombiéres, stabilivano la creazione di una confederazione italiana sotto la presidenza del Papa e la cessione della Lombardia (tranne le fortezze di Mantova e Peschiera) al Piemonte, per il tramite della Francia, mentre il Veneto, pur rimanendo, per la gioia dei suoi abitanti, sotto la corona asburgica, sarebbe entrato a far parte della nuova confederazione ed in granduchi di Toscana e di Modena sarebbero rientrati nei loro Stati. Costantino Nigro, braccio destro di Cavour e suo ambasciatore a Parigi, così ricorda la reazione del primo ministro savoiardo mentre, al cospetto di Vittorio Emanuele II, gli rendeva noto il preliminare dell’accordo di Villafranca che Napoleone III, sulla base dei patti di Plombiéres, aveva imposto: «Cavour lo lesse, però man mano che andava innanzi nella lettura gli si accendeva il volto e cresceva lorgasmo. Quando poi giunse al quel punto dove è detto che tutti i sovrani dItalia avrebbero formato una Lega presieduta dal Papa, allora non si contenne più e proruppe altamente dicendo al re di sperar bene che non avrebbe apposto la sua firma a quel trattato ignominioso. E qui dette sfogo lungamente allanimo esacerbato bollando con parole roventi la condotta dellimperatore: pregò il re che non se ne rendesse solidale perché era un tradimento verso le popolazioni che, insorgendo, avevano avuto fiducia in lui» (8). Il re firmò quel trattato e tra lui e Cavour seguì una crisi con la momentanea rimozione dello statista dal suo incarico di primo ministro.

Naturalmente le popolazioni alle quali Cavour faceva riferimento altro non erano che le consorterie massonico-liberali e le ristrette borghesie di Parma/Piacenza, Modena, Toscana e della legazioni pontificie di Romagna. Consorterie senza seguito popolare - il grosso della popolazione era dalla parte dei suoi sovrani tradizionali - che, anche grazie all’appoggio dei servizi segreti piemontesi, riuscirono ad inscenare tumulti per giungere, dopo la transeunte dittatura del Farini, ai plebisciti che sancirono l’annessione al neonato Regno del Nord Italia, costituito dal Piemonte con l’appena annessa Lombardia. Peccato, però, che quei cosiddetti plebisciti videro la votazione di esigue percentuali di aventi diritto: in sostanza le sole borghesie liberal-massoniche. Le popolazioni furono del tutto escluse da ogni effettiva decisione e laddove esse poterono non manifestarono entusiasmo per gli avvenimenti in corso. Si ebbero anche significativi eventi come quello della Brigata Estense, in pratica il meglio dell’esercito modenese, che seguì il proprio duca in esilio per continuare a combattere contro i piemontesi (nella terza guerra di indipendenza gli estensi fecero vedere i sorci verdi agli uomini di Cialdini e di La Marmora).

Cavour, da questa esperienza, comprese molto bene che, onde mettere di fronte l’imperatore dei francesi al fatto compiuto, bisognava agire nell’ombra aizzando le minoranze liberali in tutte le parti della penisola ed, al tempo stesso, usando e controllando i circoli mazziniano-democratici. Ed, infatti, una volta tornato nelle grazie del re, operò proprio in tal modo anche nel sud d’Italia. Senza l’apparente coinvolgimento ufficiale del Piemonte usò Garibaldi, l’utile idiota, nonché, sotto il profilo internazionale, aprì all’appoggiò inglese in sostituzione di quello francese. Cavour era ormai intenzionato a non mostrare alcuna gratitudine a Napoleone III. L’Inghilterra, che perseguiva i propri interessi geopolitici mediterranei, ben volentieri gradì l’apertura cavouriana. Napoleone III fu in tal modo messo di fronte all’incalzare di avvenimenti, fatti passare per spontanei ed inevitabili (con tanto di mendace propaganda che proclamava le sofferenze dei fratelli sotto il tallone borbonico ed il dovere degli italiani già liberi di intervenire in loro soccorso). In questo modo, Cavour riuscì ad impedire che il disegno confederale degli accordi di Plombiéres e di Villafranca potesse trovare una qualche realizzazione effettiva, in senso contrario alle mire egemoniche del Piemonte.

La ragione principale di questo doppiogiochismo di Cavour è, a nostro giudizio, il suo vero e proprio odio verso la Roma cattolica. L’idea di avere a capo di una confederazione proprio il Papa era il suo incubo politico. Sicché decise di agire con ogni mezzo affinché quell’incubo non prendesse forma concreta. Fosse o meno egli aderente alla Massoneria, ne condivideva in pieno la cultura anticristiana ed auspicava, come si è visto, la protestantizzazione della Penisola. Il suo liberalismo era intriso di giurisdizionalismo e di razionalismo e non lasciava alcuno spazio pubblico alla fede (9). In questo senso Cavour era un convinto totalitario per il quale lo Stato è la sola fonte di ogni diritto. Il totalitarismo, infatti, ha segrete connessioni filosofiche nonché chiare ascendenze con il liberalismo. La radice comune di entrambi, ossia l’immanentismo, li pone in stretta parentela sul piano filosofico, pur nella diversità delle espressioni storico-politiche.

Per Napoleone III il nascere nella nostra penisola di una confederazione legata internazionalmente alla potenza francese significava non solo assicurarsi un fedele alleato nel Mediterraneo ma anche assestare un colpo non da poco alla rivale austriaca nel dominio in Europa ed all’alleato/rivale inglese nello scacchiere nord-africano e vicino-orientale.

L
Inghilterra non sta a guardare

L’Inghilterra però non poteva restare a guardare il formarsi di una confederazione filo francese nel Mediterraneo, mare che essa considerava di sua pertinenza anche in vista dei progetti di uno sbocco verso l’Oceano Indiano mediante la costruzione di un canale navigabile a Suez. Oltretutto, l’Inghilterra doveva regolare un conto con il Regno delle Due Sicilie che aveva revocato, in favore dell’industria napoletana, la concessione che Sua Maestà Britannica vantava sulle miniere di sale e di zolfo in Sicilia. Il regno napoletano con un legittimo provvedimento finalizzato all’indipendenza economica dello Stato aveva tolto al capitale inglese lo sfruttamento di miniere all’epoca preziose perché con lo zolfo si fabbricavano tra l’altro le munizioni per le armi da fuoco.

L’interesse inglese a porre un bastone tra le ruote al disegno di Napoleone III e ad immettere l’Italia o perlomeno il Regno delle Due Sicilie, facente parte o meno di una confederazione italiana, nell’orbita degli interessi coloniali britannici, provocando una rivoluzione nel sud Italia che detronizzasse i Borboni e mettesse un’altra più affidabile dinastia sul trono oppure provocasse la nascita di una repubblica controllata dalla massoneria londinese e quindi moderatamente rivoluzionaria, spiega l’impegno del governo di sua maestà, atteso che i ministri di tale governo era poi tutti espressione della massoneria londinese, nel sostenere l’impresa garibaldina. Ancora oggi molti misteri avvolgono la morte di Ippolito Nievo, il cassiere della spedizione dei Mille, avvenuta in circostanze misteriose nel naufragio, nella notte tra il 4 e 5 marzo 1861, del vaporetto Ercole sul quale lo scrittore viaggiava, imbarcatosi da Palermo per Napoli, con i documenti e le ricevute attestanti la provenienza inglese e massonica delle fonti finanziarie dell’impresa garibaldina.

La propaganda anti-borbonica in Inghilterra era forte sin da quando, per via anche del suddetto scontro minerario-economico, W. Gladstone aveva dichiarato, presso la Camera, che il Regno delle Due Sicilie era la negazione di Dio. Considerando che quello inglese all’epoca era il più grande impero coloniale del mondo, nei cui domini si sfruttava in modo indicibile la manodopera indigena, i cui stessi operai inglesi lottavano contro condizioni disumane di lavoro, il cui governo in quegli anni si addossò, in nome del dogma liberista, la responsabilità della morte per fame, da carestia della produzione di patate, di migliaia di irlandesi, provocando l’inizio dell’emigrazione di una popolazione da secoli oppressa dal potere inglese, non si sa se definire la dichiarazione di Gladstone più tragica o più ridicola in quanto ad ipocrisia umanitaria e moralismo peloso.

(fine seconda parte di cinque)

Luigi Copertino


Risorgimento?! (parte I)
Risorgimento?! (parte III)
• Risorgimento?! (parte IV)
Risorgimento?! (parte V)




1
) Confronta Franco Cardini, Unaltra Italia era possibile, in Avvenire del 30 marzo 2011.
2) Luigi Copertino, Italia ed anti-Italia, in Certamen numero XII-XIII, agosto 2000-marzo 2001,
pagine 2-3.
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) Pur comprendendo le necessità diplomatiche e quelle di riconciliazione storica, un po’ troppo blandamente, riteniamo, a dire il vero, che il Papa avrebbe potuto essere più incisivo. Egli ha comunque scritto in quel messaggio: «Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse, il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale. Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sotto tacere lapporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario (…). La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico. Questo processo, in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dallappartenenza ecclesiale dallaltro». Citato in Avvenire del 16 marzo 2011. Ma proprio per questa consapevolezza non è dato però di capire perché mai un cardinal Bertone sia andato il 20 settembre 2010 a celebrare, secondo calendario di loggia essendo stata, a suo tempo, scelta quella data perché coincide con l’inizio dell’anno massonico, la ricorrenza della breccia di Porta Pia senza neanche fare un cenno di richiesta allo Stato italiano di un mea culpa storico per quel che, a termini di diritto internazionale, fu una illegittima ed ingiusta aggressione nei confronti di uno Stato pacifico, per la difesa del quale si mossero da tutt’Europa migliaia e migliaia di volontari, che gli storici accademici non ricordano e quando lo fanno dicono, mentendo consapevolmente, essere stati «mercenari» (confronta a proposito dei volontari internazionali accorsi in difesa del Papato Pietro Raggi, La Nona Crociata - I volontari di Pio IX in difesa di Roma 1860-1870, Libreria Tonini, Ravenna, 2002). Volontari per i quali non guasterebbe se Bagnasco, cardinale celebratore con tanto di Santa Messa e Te Deum del centocinquantenario, celebrasse una Santa Eucarestia in suffragio.
4) Confronta F. Fejtò, Requiem per un impero defunto - la dissoluzione del mondo austro/ungarico, Mondadori, 1996.
5) Il cosiddetto eroe dei due mondi è stato un personaggio molto meno romantico di quel che si è voluto far credere. Certamente era un ottimo guerrigliero ma la sua vita non fu così immacolata come si pensa. In Sud America, per sbarcare il lunario (eh sì, anche gli eroi devono pur campare!), fece molti mestieri tra i quali ciò che oggi diremmo fare lo scafista ossia trasportare manodopera servile per i grandi proprietari terrieri. Non aveva grande intelligenza politica ma, a differenza di Mazzini, capì che la rivoluzione democratica, con tanto di sollevazione popolare, era una utopia mentre, come generalmente succede nella storia, il machiavellico disegno egemonico dei Savoia aveva molte più concrete probabilità di diventare realtà. Analogamente a quel che più tardi fecero gli americani, Garibaldi in Sicilia si appoggiò alla mafia e a Napoli alla camorra, come documentato da Giovanni Fasanella ed Antonella Grippo in 1861-la storia del risorgimento che non cè sui libri di storia, Sperling & Kupfer, 2010. Era di un anticristianesimo viscerale, e non solo come si dice soltanto anticlericale. Pur partecipando propagandisticamente al rito, derideva la creduloneria napoletana per il sangue di San Gennaro. Come prima di lui fece Napoleone, lasciò che si organizzasse intorno alla sua figura un culto degno di un santo, al punto da permettersi sacrilegamente di somministrare battesimi. A Pio IX che gli aveva fatto sapere di pregare ogni giorno per la sua salvezza eterna, rispose, con riferimento alla bassa statura fisica del Pontefice, che non sapeva che farsene delle preghiere di un mezzo cubo di letame. I suoi figli furono i fondatori della prima setta satanista italiana. Insomma più che eroe dei due mondi Garibaldi fu un uomo del suo tempo, con una forte volontà iconoclasta che gli derivava dalle idee massoniche e rivoluzionarie nutrite sin dalla gioventù.
6) Mentre stiamo celebrando il centocinquantenario del Risorgimento, che si continua a dire essere stato un moto in nome del più universale principio della libertà dei popoli, nessuno sembra festeggiare il centenario della seppur tardiva partecipazione, nel 1911 con l’impresa di Libia, dell’Italia risorgimentale al gran banchetto della spartizione coloniale di quanto rimaneva dell’impero ottomano. Ma Colui che guida la storia ha il senso dell’umorismo e così senza rendercene conto sùbito dopo la pomposità dei festeggiamenti ufficiali dell’Unità d’Italia ecco che ci siamo ritrovati, nostro malgrado, quasi costretti dai nostri alleati NATO, in particolare dalla Francia i cui scopi neocoloniali e petroliferi sono assolutamente evidenti a tutti, a festeggiare il centenario dell’impresa del 1911 con i bombardamenti di questi mesi su Tripoli. Sempre, naturalmente, - maledetto chi dice il contrario! - in nome della libertà dei popoli, di quello libico per l’occasione, dal crudele dittatore di turno (ma dittatore non si proclamò anche Garibaldi?)! Che poi una metà, almeno, del popolo libico di essere liberato non vuole proprio saperne, appoggiando in patria ed all’estero il dittatore con pubbliche manifestazioni, mentre l’altra metà, costituita dalle tribù tradizionalmente avverse alle prime (altro che lotta per la democrazia!), è guidata da ex collaboratori del dittatore, dunque responsabili quanto lui, e quindi per niente affidabili dal punto di vista democratico, è cosa che poco conta quando ci sono di mezzo le commesse petrolifere.
7) Senza poi contare che Cavour non si limitò ad inserire il Piemonte nel gioco diplomatico europeo ma anche ad inserire nel letto di Napoleone III la bellissima contessa di Castiglione, sua cugina e donna avvenente e, per i tempi, molto emancipata: insomma il bunga bunga non lo ha inventato Berlusconi ma ha dalla sua la grande tradizione risorgimentale.
8) Citato in Paolo Mieli, «Napoleone III, limperatore francese indispensabile allItalia», in Il Corriere della Sera, 18 ottobre 2010.
9) Che poi Pio IX, quando arrivò l’ultima ora dello statista, inviò al suo capezzale un sacerdote per l’estrema unzione, come fece anche per Vittorio Emanuele II, dimostra da un lato la grande carità del Pontefice e dall’altro che la vera preoccupazione di Papa Mastai Ferretti era quella della salvezza delle anime. Anche di quelle dei nemici della Chiesa.

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