Ebrei coraggiosi
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Non si deve vedere, non si deve raccontare cosa fanno a Gaza.
Da quando hanno bollato Gaza di «entità ostile, l'hanno resa un luogo fantasma», scrive Le Monde.
Anche A Birkenau o ad Auschwitz, mica si facevano entrare i giornalisti.
Così i bravi cittadini potevano non sapere e dormire tranquilli.
Gideon Levy, di Haaretz, lamenta che il sindacato dei giornalisti israeliani non abbia niente da obiettare a questo accecamento mediatico, che non protesti.
«Se lanciassi una campagna di protesta a nome della libertà di stampa e il giorno dopo un collega venisse sequestrato (dai palestinesi), in che posizione mi troverei?», dice Yossi Barmucha, responsabile del sindacato: «I giornalisti devono obbedire alle forze di sicurezza».
Obbedire.

Anche i volonterosi cittadini tedeschi hanno obbedito e chiuso gli occhi: gli viene rimproverato da 70 anni, viene rimproverato alle generazioni seguenti, all'infinito.
«A Gaza c'è la balaga (il caos)», dice Shlomi Eidar, giornalista della TV Canale 10: «Tra Fatah, Hamas, Jihad Islamica e clan armatissimi, non è difficile immaginare che un israeliano venga rapito».
Strano, ritorce Gideon Levy, «Nessuno mi ha mai impedito di andare a seguire la guerra a Saraievo con la scusa che era pericoloso».

Anzi, lui che a Gaza c'è stato finchè ha potuto, dice che da quando ha preso il potere Hamas a giugno,  le bande che seminavano il caos sono state obbligate a rientrare nei ranghi, e i rischi sono minori di prima.
I soli rischi sono venuti dall'armata israeliana.
Shlomi Eldar ha avuto il cameraman ferito da un proiettile, Gideon Levy s'è visto trapassare il parabrezza da una pallottola, entrambe di Tsahal.

Suleiman Al-Shafim della TV Canale 2, è cittadino israeliano ma palestinese di nascita.
«Io di Gaza conosco ogni pietra, mi sento del tutto sicuro. Ma l'esercito oscura i media per far passare la sua verità».
Levy conferma: «Il divieto che dura da un anno fa comodo a tutti, generali, governo, editori…. e anche ai lettori, che non hanno voglia di sentir parlare della miseria che regna a Gaza».
Questa è la verità.
E' la gente, i buoni cittadini.
«Non sapevamo, non potevamo sapere», diranno un giorno.

Amira Hass, di Haaretz, è stata la sola giornalista israeliana con ufficio stabile a Gaza.
Finchè ha potuto.
Oggi spiega a Le Monde che sono i suoi superiori che dovrebbero chiedere all'ufficio-stampa dell'esercito il permesso perché lei possa passare dal valico di Eretz; ma dal 2000, quando è cominciata la nuova Intifada, direttore e redattori-capo non lo chiedono più.
«Manca la volontà dei media», dice.
«Si comportano come se Gaza non esistesse. Non esiste più dal 2005, dopo il ritiro israeliano, dopo che ci hanno detto che l'occupazione non c'è più».
Non ripetono sempre, anche ambasciatori e governanti, che «non c'è mai stato un popolo palestinese»?

Basta che il mondo non lo veda.
Non veda la fame che sconvolge, dopo quasi un anno di blocco economico totale, non veda la disperazione, non veda i bambini e gli adulti che vengono uccisi a piacere.
E non veda la re-invasione di Gaza, che è in programma ed è stata annunciata dal ministro della Difesa Ehud Barak: la soluzione finale non farà notizia, stavolta.

Cosa poi non si deve vedere e raccontare?
«Una notte, la soldatessa Tamar Yarom fu svegliata da un soldato della sua unità: voleva mostrarle qualcosa nello scantinato della casa abbandonata dove pernottavano. 'Prima di aprire la porta già si sentiva un odore di gasolio e il rumore come di un generatore, ma orrendo', racconta: 'Ho visto un detenuto palestinese di mezza età steso bocconi sul pavimento, gli avevano messo la testa sul generatore, con l'orecchio premuto sul generatore che vibrava. Anche la testa e la faccia di quello vibrava, era tutta deformata. Mi stupii che nonostante tutto il sangue e l'orrore, si poteva ancora vedere una espressione in quella faccia. Questo mi è dentro da allora: lo sguardo di quella faccia».

Oggi la soldatessa Tamar Yarom è regista di cinema.
Il suo ultimo è un documentario, «Li'r'ot im mehayekhet» («Vedere se sorrido»), dove sei soldatesse che hanno prestato servizio nella prima e seconda intifada a Gaza raccontano ciò che non si deve vedere (2).

Una delle sei si chiama Meytal Sandler, è stata infermiera in un reparto operativo a Hebron.
Racconta: «I nostri avevano braccato una cellula (terroristica) e uno dei membri fu ucciso. Ricordo la corsa in ambulanza (con il corpo) insieme a Uriel (un soldato israeliano) che mi guardava e gli veniva da vomitare. Siccome era stato beccato alla testa, non era morto subito, sanguinava e moriva lentamente… perse il controllo dei visceri,  succede… Stava lì disteso con gli occhi aperti, e io gli ho chiuso gli occhi perché Uriel mi disse che gli faceva paura. Ci ordinarono di lavarlo prima di restituirlo alla Autorità Palestinese, chè non si vedesse il sangue».

Ricorda di un altro cadavere, che ebbe un'erezione.
«Tutti entrarono a vedere, ridemmo. Io dissi: 'Fatemi una foto', e mi misi in posa accanto al corpo».

Un'altra, Lili Abramov, è stata guardiana ad un posto di blocco.
Ricorda una sua amica e collega che fu ferita alla mascella nell'ottobre 2001 durante un'operazione a Tul Karm.
«Ero così arrabbiata che volli vendicarmi con gli arabi che passavano il chek-point, Durante un turno, ce n'erano 70-80 in attesa. Stavano in fila, io ho deciso di tenerli lì in piedi per tutto il turno, 12-14  ore, sotto il sole. Gli ho ordinato di fare degli esercizi…».

Dana Behar è stata assegnata al 50mo battaglione parà «Nahal», molto reputato, «ragazzi di qualità, kibbutzim, li chiamano Askhenazi gialli perché sono più gentili in confronto ai neri, più violenti, Erano 500 maschi e dieci ragazze».
La prima settimana di servizio, i parà tornano da un'incursione a Qalqilyah, vantandosi con lei, offrendole gli oggetti, fra cui le collane di preghiera e i Corani presi nelle case.
Due giorni dopo, Dana parlò al comandante di battaglione di quei furti.
Quello chiamò in sua presenza il comandante di compagnia, suo superiore diretto, che disse: «Questa è una bugiarda. Non so perché dica questo, forse per darsi importanza».
Da quel momento, i soldati, «quando passavo, sputavano per terra e mi insultavano. Mi isolavano, il che era la cosa più umiliante».
Fu messa a lavare i piatti.

«Non c'è un soldato di tsahal che non abbia un ricordino preso da una casa palestinese».
Dana ricorda soldati che tornavano dalle operazioni con le foto dei palestinesi che avevano ammazzato.
«Allora non mi pareva strano. Uccidere un terrorista importante è un lustro di servizio per i soldati. Solo ora capisco che quelle erano le foto più spaventose che ho visto in vita mia».
Un'altra, Tal Ben-Sira Morag, racconta di donne bastonate finchè i bastoni si rompevano.

Un'altra, Illan Michelzon, racconta il suo lavoro al chek-point di Eretz: «Era come una gabbia di topi. Non avevo mai visto i palestinesi di Gaza, coi sacchi sulla testa, vestiti di stracci. La loro povertà. Lì non parlavamo, urlavamo ordini. Ho dovuto cambiare pelle per adattarmi».
Una volta, «un palestinese presenta il lasciapassare, un permesso che per ottenerlo ci vogliono due mesi. E i soldati glielo sostituiscono con un altro, e glielo strappano davanti alla faccia, per vedere la sua reazione; poi, ridendo, gli restituiscono il documento originale».
Tutte queste soldatesse non hanno mai parlato prima delle loro esperienze operative.

Ben Sira-Morag ricorda di aver detto a sua madre: «E' meglio che tu non sappia».
Quando Canale 1 trasmise un reportage sulla sua unità, «i miei genitori non vollero guardare».
Molte hanno ferite psichiche permanenti.
Una di loro, in vacanza in Vietnam, a Saigon - affollata, la gente che scende dagli autobus, e corre qua e là, i segni dei proiettili ancora sui muri - ha un attacco di panico: «Sono disarmata, non ho un'arma, pensavo, e non riuscivo a calmarmi».
Tutte ora aderiscono al movimento «Rompere il silenzio
».

Anche Murray Polner, scrittore ebreo americano, ha deciso di rompere il silenzio.
Contro il potere della lobby che pretende di parlare per ogni ebreo (3): «E' dagli anni '80», ha scritto, «che le grosse organizzazioni ebraiche raccolgono fondi con lo slogan 'We are one' ('Siamo una cosa sola'). E' sottinteso che gli ebrei americani sono un blocco unico. Ma non siamo 'una cosa sola'. Noam Chomsky è ebreo come Iring Kristol (neocon), e Norman finkelstein come Alan Dershowitz (che ha fatto cacciare Finkelstein dall'università). Non siamo angeli né santi. E certo non siamo monolitici, nonostante il tentativo continuo di presentare chi di noi critica qualche aspetto della politica israeliana come 'ebrei che odiano se stessi'».

«La verità è che la schiacciante maggioranza dei sei milioni di ebrei americani è contraria al regime neocon Bush-cheney, come dimostra il loro voto. Nel 2000 e nel 2004 la maggioranza assoluta ha votato Al Gore e Kerry. Nelle elezioni del 2006 l'80% dei voti ebraici è andato ai democratici. [….]»

Continua: «Noi non siamo d'accordo con quegli ebrei che tacciono - su Israele e i palestinesi, sull'Iraq, sull'Iran. […] Le voci di pace ebraico-americane non si genuflettono alla Israeli Lobby. Non, la Brit Tzedek v'Shalom - the Jewish Peace Alliance for Justice and Peace - che ha  più di 15 mila membri, non la Jewish Voice for Peace, e Meretz USA non la Americans for Peace Now, che ha 25 mila membri. Non i  Rabbis for Human Rights, la Jewish Peace Fellowship, e the Shalom Center… […] Rabbi Arthur Waskow del Shalom Center, Rabbi Michael Lerner del Tikkun Magazine, Michael Massing della New York Review of Books, Tony Karon, Philip Weiss, Norman Birnbaum,  e molti altri non tacciono».

«Al contrario di Israele dove vige la libertà di parola e il dibattito pubblico, una quantità di cosiddette 'importanti' organizzazioni ebraico-americane chiudono la bocca ai critici con l'intimidazione. La pubblicazione di John Mearsheimer e Stephen Walt, 'The Israeli Lobby and US foreign Policy', è stata trattata come se i due fossero dei cosacchi dediti al pogrom. A Tony Judt, il celebre storico e critico letterario,  è stato impedito di parlare presso il consolato polacco di New York dalle pressioni dell'ADL (anti-Defamation League). Judt è ebreo… a suo favore sono state raccolte oltre cento firme, ebraiche, sotto una protesta che ha denunciato 'il clima di intimidazione'».

Questa soppressione di ogni opinione diversa, questa museruola al dibattito, questa riduzione al silenzio di ogni posizione differente è un segno di paura.

«Jimmy Carter, che per la pace in Medio Oriente ha fatto più che ogni altro presidente, è stato ferocemente aggredito per aver osato usare la parola 'apartheid' per descrivere l'oppressione di Israele sui palestinesi: parola che spesso si legge nei giornali israeliani. […] Danny Rubinstein, sperimentato giornalista del quotidiano Haaretz, è stato invitato dalla British Zionist Federation e poi l'invito è stato ritirato, perché aveva usato la stessa parola proibita. Anche due istituzioni educative cattoliche si sono piegate: il St. Thomas College di Minneapolis che aveva cancellato la conferenza del vescovo Desmond Tutu e poi ha dovuto tornare sui suoi passi a causa delle proteste, e la De Paul University di Chicago che ha rifiutato la cattedra a Norman Finkelstein, benchè il consiglio di facoltà avesse votato a schiacciante maggioranza a suo favore».

«Per contro, i neocon ebrei (ce ne sono anche di non-ebrei) possono parlare dovunque vogliono. Ma non parlano in quanto ebrei e non rappresentano certamente noi tutti. E però, in quanto tanti di loro sono ebrei, tutti noi siamo ritenuti corresponsabili dei loro epici disastri».

«In realtà, i neocon sono combattenti molto ben pagati sul fronte interno edivulgatori del Nuovo Impero Americano. Ideologi senza scrupoli, hanno avuto una parte centrale nel trascinare gli USA in Iraq ed ora sono ansiosissimi di attaccare l'Iran - da lontano, perché non si conti di vedere, loro o i loro figli, arruolarsi nelle unità combattenti in Iran. Alcuni di loro sono spinti da simpatie per l'estrema destra israeliana; i più tuttavia da una dottrina geopolitica manichea rigida della guerra preventiva. Adesso si aggrappano come 'consiglieri di sicurezza nazionale' attorno al bellicoso Rudolph Giuliani, nella speranza di un'altra 'passeggiata' in Iran».

«La verità è che la prima responsabilità cade sul presidente, sul vicepresidente, su Rumsfeld, sui loro sicofanti al Congresso, sui mass media ben lieti di servire da cinghia di trasmissione, e sì, la lobby israeliana, che comprende anche i fondamentalisti cristiani e i cristiani-sionisti, ansiosi di accelerare l'Armageddon […]».

Ebrei che alzano la loro voce contro le atrocità in corso.
Ebrei che accettano di guardare e di sapere.

«Aumentano di giorno in giorno», conclude Polner.
E' una speranza.

Maurizio Blondet

(articolo pubblicato il 13 novembre 2007)



1) Benjamin Barthe, «Gaza, terre fantome des Mèdias israéliens», Le Monde, 9 novembre 2007.
2) Dalia Karpel, «My God, what did we do?», Haaretz, 9 novembre 2007.
3) Murray Polner, «We aren't one: American Jewish Voices for peace», LewRockwell, 1 novembre 2007.


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